Molte cose mancano all'indigente ma all'avaro manca tutto
Seneca, Lettere morali a Lucilio
L'analisi di report editi in Usa e in Europa sulla vita delle imprese
di successo (quelle, ad esempio, che figurano tra le prime 500
nella classifica stilata annualmente da Fortune) indica una vita
media di 18 anni, come se il successo di un'impresa portasse con
sé il germe del fallimento; sempre la stessa rivista aveva notato
che dalla classifica delle prime 500 imprese, stilata nel 1970 un
terzo non esisteva più, appena tredici anni dopo, eliminato da
bancarotte, acquisizioni e fusioni.
Al di là della classifica di Fortune la vita media delle imprese usa
ed europee è di 12,5 anni e di 40 anni quella delle multinazionali;
Arie de Geus dell'Organizational learning centre, presso l'Mit, in
base a una ricerca sul periodo di vita delle imprese nel suo The
Living Company: Habits for Survival in a Turbulent Business
Environment, sostiene che questi tassi di mortalità prematura sono
esclusivamente da attribuirsi a scelte imprenditoriali o
manageriali errate.
D'altra parte l'impresa è un'organizzazione che fisiologicamente
può durare per secoli come dimostrano l’impresa alberghiera
giapponese Nisiyama Onsen Keiunkan che sembra sia stata
fondata nel 718 da un monaco buddista. Secondo l’Istituto Family
Business dopo la giapponese troviamo la Pontificia Fonderia
Marinelli, che nasce nell'anno mille, come la storica cantina
vinicola francese Chateau de Goulaine. La Marinelli nasce, ad
Agnone (Isernia), come fonderia delle campane del Papa. Le sue
campane risuonano ormai in tutto il mondo, dall’Europa,
all’America all’Asia. I dipendenti sono 20 e tra loro vi sono
ancora cinque membri della famiglia Marinelli. Abbiamo poi l’impresa vinicola Barone
Ricasoli fondata nel 1141, Subito dopo, ecco un nome storico del
vetro, la Barovier e Toso, di Murano: fondata nel 1295, l'impresa
è giunta ormai alla ventesima generazione dei Barovier che, nel
1936, si fusero con i Toso; l’industria svedese di cellulosa Stora,
fu fondata nel 1288.
Salendo nel tempo troviamo la più antica impresa alberghiera
d’Europa la Hotel Pilgrim Haus nata in Germania nel 1304, la
Moulin Richard de Bas la cartiera più antica del mondo, che
ancora oggi produce materiale per le stampe più pregiate, nasce
in Francia nel 1326. Salendo ancora nel tempo si incontrano due
aziende fiorentine: la Torrini, impresa produttrice di gioielli
fondata dal capostipite Jacopo nel 1369 e l’impresa Antinori, che
produce vino a partire dal 1385. Troviamo, poi, la Camuffo di
Portogruaro (Venezia), impresa costruttrice di imbarcazioni nata
nel 1438 nel porto veneziano di Khanià a Creta. Dalla fondazione,
per mano di El Ham Muftì, ha venduto barche, tra gli altri, a
Maometto II, alla Repubblica di Venezia e, perfino, a Napoleone,
o la banca italiana Monte dei Paschi nata nel 1472. Giova notare
che tra le più antiche imprese del pianeta prevalgono quelle
italiane; nel rinascimento, infatti, l’Italia era il centro mondiale di
banche e commerci.
Da queste considerazioni appare, però, evidente che le imprese longeve sono un'infima minoranza rispetto ai miliardi di soggetti imprenditoriali che nascono e che, in buona sostanza, tutte le imprese prima o poi muoiono.
L'impresa va, pertanto, vista come un sistema biologico: essa nasce, si sviluppa, segue il periodo della maturità e poi il più o meno lungo declino che precede il decesso.
Nel momento in cui un'impresa nasce si percepisce un alto
livello di energia e di eccitazione e vi è un diffuso spirito di
collaborazione e di integrazione tra gli individui. Ci si sente
pionieri in un'avventura e questo genera gratificazione e
appagamento sul lavoro. La flessibilità è massima.
Generalmente, in questa prima fase, non sono state ancora ben
definite la vision, la mission, le strategie, eppure, lo spirito di
identificazione nell'idea imprenditoriale è alto, tutti sono allineati
con l'imprenditore nel conseguimento dei primi obiettivi e le
motivazioni sono legate a questo traguardo.
L'ambiente è libero da pregiudizi, gelosie e preconcetti, tutti
tendono a essere creativi e propositivi, le competenze non sono
codificate, il livello di burocratizzazione è nullo, le gerarchie
impercettibili. L'immagine dell'impresa verso il mondo esterno è
in fase di costruzione, i rapporti con i clienti sono buoni, anche se
spesso il prodotto offerto risente della politica del trial and
error; arrivano, infatti, alcuni reclami ma l'organizzazione
interna è fortemente orientata a recepirli, anzi a cercare di
fidelizzare il cliente che reclama.
Nella fase dello sviluppo l'impresa conosce un momento di forte
espansione. I clienti apprezzano i prodotti offerti, la reputazione
dell'impresa fa sentire i collaboratori orgogliosi di lavorare per
essa, l'organico incomincia a crescere per soddisfare la
domanda, si raggiunge il punto di breakeven. Il livello di energia
e di eccitazione è ancora alto, c'è anche un diffuso senso di euforia
per i risultati raggiunti.
L'impresa inizia a conoscere, però anche alcuni aspetti negativi:
· Non è possibile, infatti, soddisfare le aspettative di tutti; alcuni
pensano che l'impresa non riconosca pienamente gli sforzi e i
sacrifici del periodo precedente.
· Si cominciano a osservare i primi schemi precostituiti per la
soluzione dei problemi e si dà meno spazio a creatività e nuove
proposte.
· Si nota l'inizio di una certa formalizzazione nei rapporti
interpersonali; vi è meno spontaneità.
· La conoscenza inizia ad essere gerarchizzata.
A questo punto, una leadership, in grado di analizzare
criticamente questi primi e deboli segnali, dovrebbe iniziare a
valutare alternative di business per avviare una nuova fase di
sviluppo. Giova osservare che nella curva dela ciclo di vita di un'impresa si ha un punto di
flesso, che rappresenta il momento in cui lo sviluppo passa da
una fase di crescita molto energica e forse un po' caotica a una
fase di sviluppo più pilotato. E' interessante osservare questo
"momento" perché un'impresa può facilmente morire nelle sue prime
fasi di vita; essa, infatti, può andare incontro a quella che si
chiama mortalità infantile. In genere, se l'impresa riesce a
superare il punto di flesso, la leadership ritiene superate le
difficoltà iniziali e intensifica gli investimenti e gli sforzi per
progredire ulteriormente in una fase di sviluppo più ordinato e
pianificato.
Durante la fase della maturità si acquisiscono i massimi risultati
economico-finanziari. Il prodotto dell'impresa è, oramai, noto e
affermato sul mercato, i clienti sono soddisfatti, l'impresa ha
definito in dettaglio vision, mission e strategie di medio-lungo
periodo.
Di converso i problemi emersi nella fase precedente si sono acuiti
e ne sono nati altri:
· Non si avvertono più l'energia e l'eccitazione delle fasi
precedenti.
· Alcuni collaboratori della fase pionieristica se ne sono andati e
i nuovi assunti non hanno vissuto quel particolare momento
“magico”.
· L'impresa va bene ed è diffusa l'idea che debba andare bene
per sempre.
· Le motivazioni e le ragioni di soddisfazione per i dipendenti
vanno scemando.
· Creatività e spirito di iniziativa hanno lasciato il posto
all'esecuzione formale di compiti definiti.
· Si nota un calo di tensione nella ricerca di nuovi mercati, nuovi
prodotti e soluzioni innovative.
· L'organizzazione è più rigida e burocratica.
· E' subentrato il principio della difesa dei propri piccoli centri di
potere.
· Arrivano molti reclami, ma lo spirito con il quale vengono
accolti non è più quello della fase pionieristica.
Durante la fase del declino anche gli indicatori economicofinanziari
dànno l'evidenza del cattivo stato di salute dell'impresa.
Gli elementi negativi sono sotto l'occhio di tutti:
· Il livello di slancio e di energia è minimo.
· In azienda prevale un senso di sfiducia.
· Molti dei collaboratori migliori non ci sono più. Molti sono andati in pensione. L'imprenditore ha lasciato l'impresa ai figli.
· Si vive alla giornata, la vision, la mission, le strategie aziendali
sono state abbandonate.
· Il know-how dà segni di obsolescenza.
· I conflitti di natura sindacale sono frequenti.
· Il livello di fidelizzazione dei clienti si è indebolito.
· L'imprenditore si affida a consulenti esterni per valutare
possibili soluzioni alla crisi, ma i tentativi di riorganizzazione
gettano l'azienda in una crisi definitiva e irreversibile.
La fine è imminente.
Dunque, le imprese muoiono, ma altre prendono il loro posto. E' comer la giostra della vita c'è chi nasce e chi muore. E' il gioco della distribuzione e della ridistribuzione della ricchezza. Diceva Platone "Non c'è re che non discenda da schiavo e schiavo che non discenda da re". Un mazzo di carte possiamo mescolarlo mille volte ma ci sarà sempre un re e un 2 di picche; cambia solo la posizione. La vita dell'impresa può essere assimilata alla vita dell'uomo; è pertanto interessante ricordare come nel tempo si sia trasformata l'idea della casualità della fortuna e della ricchezza.
Nella mitologia greca Pluto il dio della ricchezza con la sua cornucopia distrubuiva le ricchezze con discernimento e gli uomini lo veneravano; ma Zeus fu preso da gelosia e lo accecò. Da quel momento Pluto iniziò a distribuire la ricchezza a caso. A lui si intitola una famosa commedia di Aristofane del 388 a.C., incentrata sulla diseguale distribuzione tra gli uomini della ricchezza, movente principale delle azioni umane. La fanciulla bendata che dispensa fortuna e giustizia all'umanità è una divinità mutuata da Pluto, anch'essa, a volte, è rappresentata con una cornucopia tra le braccia. Tra i latini valeva il detto "pecunia non olet!, il danaro non puzza.
E' interessante l'opinione degli stoici sulla ricchezza. Seneca sostiene che se è vero che la virtù deve da sola bastare alla felicità,
secondo il più autentico stoicismo, tutto ciò non esclude
una valutazione positiva della ricchezza: la ricchezza
per lo stoico non è un bene, ma una “cosa” vantaggiosa
come la salute fisica e l'intelligenza, e il saggio sceglierà allora
la via più agevole. E la ricchezza è via più agevole
della povertà, tanto più che la ricchezza offre la
possibilità di esercitare alcune virtù, quali la generosità e
la beneficenza.
Nell’epistola V ad Lucilium Seneca afferma:
“È segno di debolezza non riuscire a sopportare la
ricchezza”.
Seneca , perciò, trasforma la dottrina stoica dell’autodisciplina
e della rinuncia, nell'arte del vivere
che non disdegna i beni della vita.
Tra i primi cristiani si impose il principio che l'uomo può legittimamente usare i beni di questo mondo che Dio ha messo a sua disposizione ma non deve considerare i beni come propri, in modo che possa parteciparne agli altri in caso di bisogno; come si vede è il principio filosofico degli stoici.
Nell'opera De consolatione philosophiae del VI secolo di Severino Boezio riflette sulla visione teologica del "caso", i cui mutamenti sono tanto inevitabili quanto provvidenziali, per cui persino i più inspiegabili e accidentali eventi fanno parte del nascosto piano di Dio a cui nessuno può resistere o può cercare di opporsi.
L'immagine iconografica della Ruota della Fortuna che accompagna l'immaginario medioevale ma non solo, è una diretta eredità attinta dall'opera di Boezio.
La principale rappresentazione simbolica del denaro nell'iconografia medievale è una borsa che, appesa al collo di un ricco, lo trascina all'Inferno. Dai pulpiti medievali risuona la condanna dell'avarizia come peccato capitale e le parole dei monaci e dei frati esaltano la povertà. La pecunia è maledetta e sospetta "il denaro è lo sterco del demonio". Sono espressioni lanciate dai monaci contro il lusso e l'avarizia che prosperano nell'ambito papale e della curia romana. Colpa che sarà duramente condannata anche da Dante, in pieno umanesimo. Ma Dante affronta anche il principio della distribuzione e ridistribuzione delle ricchezze.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Per Dante la ricchezza passa di gente in gente, da uno all'altro popolo, secondo il giudizio della Fortuna il cui operare è nascosto a tutti, secondo i disegni imperscrutabili di Dio. Anche in Dante, pertanto vale il principio espresso da Platone.
Secondo Machiavelli la Virtù e la Fortuna sono le due forze antagoniste e che concorrono, insieme, all'operare dell'uomo e che, conseguentemente, ne determinano la potenza e la ricchezza. Dall'umanesimo al rinascimento la virtù assume diversi significati: per Dante significa l'autorità assoluta imperiale assistita dalla “grazia” divina, per Boccaccio corrisponde alla gentilezza e all'onestà, per Leon Battista Alberti significa bontà e prudenza, per Machiavelli coincide con la capacità dinamica e operativa di sostenere il contrasto del suo antagonista, cioè la “fortuna”. Anche la parola fortuna assunse diversi significati: per Dante la fortuna è impersonificata da una dea volubile e cieca che dispensa a caso i beni mondani fra gli uomini, è ministra della volontà di Dio che amministra secondo disegni imperscrutabili, al di sopra delle capacità interpretative dell'uomo. Per Boccaccio corrisponde all'avvenimento imprevedibile in grado di abbattere il progetto umano, per Leon Battista Alberti viene rappresentata come un fiume vorticoso dove il fato e la fortuna sono rappresentati con la violenza dei flutti che si contrappongono ad alcune virtù come l'intelligenza e la saggezza; per Machiavelli rappresenta l'insieme dei limiti che la realtà oppone alla virtù, quindi all'azione dell'uomo. Il significato del binomio virtù-fortuna corrisponde al conflitto fra la capacità dell'uomo e l'influenza dei condizionamenti oggettivi che non si possono cambiare.
Giova notare che, contrariamente a quanto affermato dalla religione protestante, una ben precisa forma di capitalismo e quindi di giustificazione della ricchezza esisteva già nel Medioevo nei Comuni italiani e continuò ad esistere nel '500 nelle cattoliche Siviglia, Lisbona, Lucca, Venezia; i maggiori banchieri europei erano cattolici italiani e alcuni furono anche papi. Si trattava di un capitalismo commerciale che entrò in crisi prevalentemente per lo spostamento, a seguito della scoperta dell'America (1492), delle rotte commerciali dal Mediterraneo all'Atlantico, non certo per motivi religiosi.
Per i protestanti quanto più il fedele vive approfonditamente la sua fede, tanto più il dubbio si insinua sulla sua sorte dopo la morte. Con Calvino arriva la soluzione. Il segno della grazia divina diventa visibile e sicuro: è la ricchezza, il benessere generato dal lavoro. Anzi il lavoro in sé acquista il valore di una vocazione religiosa: è Dio che ci chiama a esso. È quindi il lavoro e il successo che ne consegue, ad assicurare il protestante che «Dio è con lui», che egli è l'eletto, il predestinato. Di conseguenza il povero è colui che per i peccati commessi è escluso dalla grazia di Dio. La figura del povero, che nel Medioevo cristiano e cattolico rappresentava la presenza di Cristo, lo strumento per acquisire meriti per il Paradiso, ora è invece il segno della disgrazia divina. Questa contrapposizione spiega, in parte, la forte dicotomia esistente tra il capitalismo degli anglosassoni e quello dei cattolici.
I concetti di ricchezza e di fortuna si sono evoluti nei secoli, ma non è cambiato il principio secondo il quale la ricchezza si ridistribuisce secondo criteri di casualità: basti pensare come, con il trascorrere dei secoli, le città più ricche siano state Roma, Costantinopoli, Venezia, Amsterdam, Londra, Nezw York e ...? Non dobbiamo quindi meravigliarci per quanto ho affermato all'inizio dell'articolo "...come se il successo di un'impresa portasse con
sé il germe del fallimento".
12 dicembre 2017