Dal fare o non fare una cosa, che pare minima, dipendono spesso eventi di cose importantissime: perciò etiam nelle cose piccole si debbe essere attento e preciso.
Francesco Guicciardini
Grande attenzione al dato, ma ancora tanto ritardo rispetto alle sperimentazioni che avvengono oltreoceano. Il mondo del retail è molto concentrato sulla vetrina, meno sul planning e la logistica. C’è ancora molto da fare nel retrobottega, eccezion fatta per il mondo dei servizi finanziari – che peraltro può essere considerato un sottoinsieme del più vasto universo del commercio di beni e servizi al dettaglio – è difficile immaginare un comparto che abbia subito in egual misura gli effetti dell’innovazione digitale. Al perenne inseguimento di obiettivi, quali l’ottimizzazione delle marginalità, la riduzione dei costi, la massificazione dei volumi da coniugare alla voglia di personalizzazione dei consumatori, il mondo del retail ha sempre saputo cavalcare le avanguardie tecnologiche, spesso in misura indipendente dalle dimensioni delle superfici di vendita. Anche se per evidenti esigenze di alleggerimento logistico, il segmento della GDO ha assunto, sul piano dell’adozione di nuove tecnologie, un ruolo di leadership.
Oggi, con il peso accumulato dai canali digitali di informazione, relazione e vendita, e la spinta verso la convergenza tra retail negli spazi fisici opportunamente attrezzati e in ambito virtuale, la relazione B2C diventa la vera palestra di sperimentazione e implementazione di quello che potremmo definire Commerce 4.0 attraverso l’uso di software, dispositivi, reti di telecomunicazione che contribuiscono ad arricchire e “aumentare” il viaggio che il cliente delle attività commerciali effettua in veste di selezionatore, acquirente, utente e – last but not least – ispiratore di prodotti futuri.
Un’intera gamma di soluzioni software e servizi ruota intorno a questo “customer journey”. Piattaforme di ideazione, progettazione, sviluppo e produzione; strumenti di pianificazione e gestione degli assortimenti di merce; cruscotti di analisi, business intelligence e forecasting; piattaforme di CRM e customer support; tool di marketing; interfacce e user experience nei canali Web come all’interno di negozi fisici, resi sempre meno analogici dai sensori dell’IoT e dal digital signage; strumenti finanziari e di pagamento. Data Manager ha già dedicato ampio spazio, nelle sue tavole rotonde, a questa vasta tematica, ma il passo di evoluzione delle tecnologie, il mutare dei framework normativi e l’inventiva degli imprenditori del settore fanno della trasformazione digitale del retail un processo che non si arresta mai.
Con questo nuovo tavolo di dibattito, si cercherà di esplorare sempre più a fondo la centralità del customer journey e il nuovo potere di disintermediazione che il Web e la mobilità offrono al singolo acquirente, insieme alle strategie che le imprese possono adottare, per recuperare capacità di controllo in una relazione diventata molto più simmetrica rispetto al tempo passato, indirizzando le scelte dei clienti. In particolare, sarà interessante scoprire la funzione che i nuovi strumenti analitici e soprattutto le tecniche di intelligenza artificiale e machine learning possono avere nell’assecondare e possibilmente anticipare intenzioni e comportamenti di acquisto. Un campione selezionato di operatori in rappresentanza dei mondi dell’offerta e della domanda di soluzioni informatiche è stato chiamato a discutere di vision e progettualità in materia di “iperconvergenza” tra i canali del cosiddetto “info-commerce” e più in generale di governo della omnicanalità. Al centro della discussione, si sono alternate anche le considerazioni sulla user experience intesa anche come capacità di imporre il proprio brand, assicurando un’esperienza omogenea e soddisfacente che rafforzasse la fedeltà dei clienti, senza però intaccare la fondamentale compliance delle regole sulla privacy. In particolar modo, garantendo una sicurezza (non troppo invasiva e limitante) nelle transazioni economiche e nel passaggio di informazioni potenzialmente sensibili. Si è cercato di dare lo stesso peso allo scambio di considerazioni e le esperienze con gli attuali strumenti di analisi e forecasting, intesi non solo come fattore determinante nella ottimizzazione di ricavi, margini e tempi logistici.
Abbiamo inoltre chiesto ai nostri interlocutori di affrontare alcuni possibili trend del futuro, in particolare i temi dell’intelligenza artificiale, del machine learning e dell’IoT applicati proprio alla user experience, alla capacità analitica e alla logistica. Infine i partecipanti hanno affrontato il tema del denaro elettronico e del variegato ambiente dei sistemi di pagamento, non meno importanti quando si parla di trasformazione digitale e di concorrenza rispetto ad altri comparti che si indirizzano verso il consumo. Ancora una volta, è Daniela Rao, senior consulting and research director di IDC Italia a esordire con alcune slide riassuntive. Daniela Rao ha dapprima delineato cinque punti che inquadrano la trasformazione digitale attraverso diverse fasi di maturità. «Un primo ambito di intervento riguarda il ridisegno del concetto di “negozio” e delle esperienze dei suoi visitatori, seguito dalla sfida del fulfillment in ottica multicanale, dal grande impulso ricevuto dai marketplace da Amazon ad Alibaba e dall’automazione di punti vendita e magazzini. Un fronte più futuristico – ha ricordato l’analista – vede l’adozione dell’intelligenza artificiale per sviluppare nuovi servizi e modalità di interazione».
In tale contesto, Daniela Rao di IDC Italia colloca i risultati di una indagine svolta su quattrocento grandi retailer (oltre i 250 addetti) su scala globale, mettendo a confronto quelle che sono le priorità di investimento più avvertite in tre macroaree: l’Europa del Sud con Italia e Spagna, l’Unione europea nel suo complesso e gli Stati Uniti. Il confronto permette di farsi un’idea del diverso livello di maturità raggiunto. «In Italia, le priorità sembrano essere ancora molto legate al discorso dell’e-commerce e del mobile commerce, urgenza che nel resto d’Europa e negli USA in particolare è meno sentita. Al secondo posto, emergono i servizi mirati alla customer experience e all’ottimizzazione dei contenuti». Questi fronti di attenzione vanno confrontati con le priorità vissute dalle imprese che operano nel retail in nazioni come il Regno Unito, la Germania o la Francia – dove si lavora sulla riorganizzazione del backoffice a supporto della logistica e dell’evasione degli ordinativi – o ancora con le sperimentazioni avanzate che i retailer americani stanno già portando avanti attraverso gli strumenti dell’AI e del machine learning.
Daniela Rao si sofferma infine sul tema dell’evoluzione della customer experience, chiedendosi quali sono per i retailer le aree da cui è ragionevole aspettarsi i maggiori aumenti dei ricavi. «Di nuovo per il Sud Europa, i fronti più seguiti sono quelli dell’e-commerce, anche in versione mobile o legate a nuove modalità di interazione con gli oggetti più vicini a noi. C’è ottimismo anche sul cosiddetto conversational commerce, legato alle possibilità di interazione non più scritta tramite tastiera ma parlata grazie ad assistenti virtuali e chatbot». Tutte queste aree di intervento sono apparentemente fuori dagli interessi dei retailer americani, impegnati invece a esplorare le opportunità di una realtà “multiscreen” e dei contenuti digitali, o quella rappresentata dalle nuove tipologie di negozio, di location, formati, esperienze utente, con le conseguenti sfide a livello di logistica e gestione degli ordini.
L’introduzione di IDC si conclude con le tre previsioni tecnologiche che IDC formula per il retail nel 2019, su scala europea. Un’impresa su due prevede di implementare una propria Digital Core Platform continuando a sfruttare gli insight, le “illuminazioni” derivanti dall’analisi intelligente dei dati. Inoltre, entro il 2020, si prevede una crescita media del 25% in misure a tutela della privacy, sotto la crescente pressione della GDPR, con le conseguenti difficoltà nel contatto diretto con il consumatore. Infine – sottolinea Daniela Rao – è previsto il 30% di spesa in più sul fronte sia delle soluzioni di Track and Trace sia delle tecniche per una operatività sempre più agile e predittiva, due cose che servono a venire incontro alle aspettative di utenti che vogliono una visibilità in tempo reale sullo stato di avanzamento dei loro ordini e pretendono una delivery puntuale e senza intoppi.
Una prima domanda, posta da Emilio Pimpini, ICT retail manager di Etro, a proposito delle evidenti differenze che caratterizzano le geografie del retail, rende il dibattito subito acceso, chiedendosi se le diverse priorità emerse dalle indagini IDC sono il sintomo di un ritardo nell’adozione di determinate tecnologie. Secondo Daniela Rao, non è per forza così. «Quello che ci caratterizza probabilmente è una maggiore attenzione al cliente e alle sue aspettative» – afferma l’analista. «Gli Stati Uniti sono caratterizzati da una diversa granularità imprenditoriale e hanno sicuramente già affrontato e superato scogli di natura tecnologica che condizionano invece nazioni come l’Italia. Ma il loro focus sembra essere molto legato al buon funzionamento di infrastrutture importanti che devono essere ottimizzate». La stessa interiorizzazione riguarda il mondo della business intelligence. Molta analisi predittiva è pensata – «dal di dentro» – spiega Daniela Rao, mentre in Italia si guarda soprattutto al front end. «Ma siamo meno interessati a certi aspetti perché i problemi li abbiamo già risolti o perché non ci interessa risolverli?» – si chiede Antongiulio Donà, VP sales Italy di Talend, l’impresa open source specializzata in strumenti per la governance e l’integrazione dei dati. «Se la customer experience continua a svettare su altri temi, forse è perché in molti casi ci rifiutiamo di affrontare la complessità ad altri livelli, in particolare l’organizzazione». E uno dei limiti che Donà intuisce nelle priorità di investimento dei retailer italiani è la forte ma generica preoccupazione nei confronti di una concorrenza che va sicuramente combattuta, senza però trascurare tutto il lavoro da fare per recuperare efficienza e marginalità. «Mi concentro sull’ultimo miglio che porta al cliente per paura, ma così non guardo alle cose da sistemare» – mette in guardia Donà. «Forse, negli Stati Uniti il rapporto col cliente l’hanno già risolto, e oggi innovano perché nella logistica e nel dato si possono ottenere nuove marginalità».
Francesco Ciuccarelli, CIO and CTO di Alpitour, è propenso a considerare certe differenze come un ritardo rispetto a modi di fare retail più maturi. «Per Alpitour, una realtà che vale 1,7 miliardi di fatturato, la modalità primaria di approccio al cliente è il canale rappresentato dall’agenzia viaggi. Le grandi differenze nella propensione all’utilizzo di questo canale influiscono sulle nostre strategie e ci inducono a concentrarci su come rendere ancora più tecnologico il canale, ancora prima del B2C». Questo non esclude l’interesse nei confronti della sperimentazione, soprattutto a livello di modalità di ingaggio, nel rapporto diretto con l’acquirente di pacchetti viaggi – «un mondo dove – afferma ancora Ciuccarelli – non c’è stato l’effetto “cannibalizzante” di Amazon.com. L’avvento di Booking.com ha invece generato nuovo business che diventa per noi una sfida di differenziazione da giocare, agendo sulle specificità del mercato, sulla capacità di trasferire emozioni in un ciclo di vendita molto lungo». Il lavoro di “empowerment” del canale B2B per Alpitour avviene da un lato sulle ottomila agenzie che rivendono pacchetti Alpitour, dall’altro sulla joint venture con Costa Crociere, che – secondo Ciuccarelli – può vantare un controllo più elevato e si serve di strumenti tecnologici avanzati per consentire alle agenzie di interagire direttamente con il cliente. «L’agenzia stessa diventa un canale B2C che determina positive contaminazioni». Il lavoro sul back end di Alpitour è mirato a rendere l’operatore più flessibile nella capacità di adattarsi alla molteplicità di canali di un mercato sempre più di “piattaforma”. «Dobbiamo aprirci di più a una sorta di marketplace che presuppone una forte integrazione tra interno ed esterno, lavorando molto sul CRM per avere una unica visione del cliente attraverso i diversi touch point e moltiplicare le opportunità di upselling». Per Alpitour la sfida consiste anche nel portare gli stessi prodotti attraverso tutti i canali, ma con l’esperienza specifica resa possibile da un dato canale: esperienze diverse, non limitanti. «Un cliente giovane – esemplifica Ciuccarelli – è più propenso a vivere le esperienze di realtà aumentata rese possibili da opportune installazioni nelle agenzie».
Secondo Francesco Cavarero, CIO di Miroglio Group, il ritardo in tutte le attività definite come “e-commerce”, riguarda le imprese e gli stessi consumatori. «I dati che arrivano da nazioni come il Regno Unito mostrano quote di fatturato sull’online molto più elevate delle nostre. IDC Italia ci ha detto che noi siamo ancora fermi alle piattaforme, e la cosa non mi sorprende». Gruppo Miroglio – conferma Cavarero – sta lavorando a pieno ritmo proprio per far convergere canali fisici e virtuali. «Di fatto, cerchiamo di portare su tutti i canali il meglio che contraddistingue ogni modalità di relazione. Come CIO, mi aspetto la stessa cosa da ogni canale: visibilità, tempi, aspettative dei clienti». Un aspetto particolare della convergenza è l’asimmetria. «Da un canale fisico – afferma il CIO di Miroglio – sappiamo un decimo di quello che conosciamo attraverso un canale digitale. Dobbiamo sapere molto di più». Questo può avvenire solo attraverso una robusta iniezione di tecnologia nel punto vendita, a patto di risolvere le mille problematiche sul piano dell’organizzazione e – sottolinea Cavarero – del training che il negozio tecnologizzato comporta. La formazione del personale umano è qualcosa di imprescindibile e il CIO di Miroglio cita l’intelligenza artificiale come uno degli strumenti che possono supportare tale esigenza. Un concetto però domina su tutto nel discorso di Cavarero: «Il commercio è sempre una questione di relazione e conoscenza della persona, specie in un comparto come la moda, dove contano anche le sensazioni tattili di chi “prova” un abito o un tessuto».
Pimpini di Etro torna però a enfatizzare anche il tema dell’organizzazione. «Il problema è come portare l’e-commerce nel punto vendita. Il catalogo digitale deve essere considerato uno strumento di acquisto per il cliente o di vendita per il commesso»? Da mezzo secolo – prosegue Pimpini – Etro vende tessuti pregiati, ai quali ha gradualmente aggiunto capi di abbigliamento, accessori total look, profumi e arredi per la casa, che l’impresa distribuisce in modo mirato, attraverso una catena di negozi di proprietà e in franchising, con un approccio molto selettivo e indipendente, e molta attenzione all’equilibrio fra punti vendita monomarca, multibrand, outlet ed e-commerce. «Una scommessa che stiamo portando avanti è agganciare il cliente online e portarlo in negozio, ma cerchiamo di essere presenti anche sui marketplace» – conclude Pimpini, che in risposta alle osservazioni di Donà di Talend, pone l’accento sulla necessità «di affinare sia la gestione della logistica delle merci sia la capacità di previsione delle scorte di magazzino, un punto su cui i retailer americani sembrano essere molto più avanzati».
Perché la profonda relazione, tra canali virtuali e presenza fisica – «presuppone un completo dominio della capacità logistica». Un dominio che si può raggiungere, agendo proprio sul lato del back end che in questo momento sembra essere meno prioritario per i retailer italiani. Certamente, come ammette Paolo Pelloni, head of marketing and communication di Axians Italia, system integrator specializzato in questo settore – le infrastrutture sono qualcosa di poco attraente. «Dal nostro punto di vista, per un operatore retail, un’infrastruttura efficace deve soprattutto servire a catturare dati, ad avere informazioni». Pelloni aggiunge di essere sempre molto interessato a confrontarsi con i retailer e con gli analisti perché dal confronto si possono intuire i trend futuri, che aiutano il posizionamento delle società di consulenza. In questo senso – prosegue Pelloni – colpiscono le stime sull’impatto dell’intelligenza artificiale e del machine learning. «Un tempo, si doveva ottimizzare per ridurre i costi. Oggi, si cambia completamente strategia. Per i retailer, che non sono come Auchan, che non hanno un contatto pressoché quotidiano con il cliente, il problema principale è mantenere viva la relazione con persone che entrano in negozio due volte all’anno. Il digitale deve essere una strategia di loyalty e di proximity».
Chiamato in causa, Mauro Abeni, CIO di Auchan Retail, conferma che il negozio fisico resta un baluardo del commercio al dettaglio. Forse, il ritardo tra Europa e Stati Uniti va letto in chiave positiva: i canali fisici non sono stati rimpiazzati e restano un elemento vitale e fondamentale. «In questo contesto, la digitalizzazione riguarda due aspetti» – osserva Abeni. «Uno è nell’esposizione della merce attraverso l’e-commerce, dove i nuovi entranti specializzati sono i veri innovatori. L’altro, il back end, determina i veri problemi a livello IT, perché digitale e fisico non parlano esattamente lo stesso linguaggio». Auchan – spiega Abeni – cerca di lavorare sul back end per abilitare il front end e disporre dei dati in modo più consono rispetto a quanto possono fare sistemi ERP impostati dieci anni fa. «Oggi, il punto vendita fisico deve gestire attività come le consegne a domicilio entro un’ora dall’ordine, o gestire offerte “esotiche” come il ready-to-eat, e presto il ready-to-cook».
La digitalizzazione – prosegue Abeni – può servire allo stesso tempo canali fisici e virtuali. «È un problema di back end riuscire a essere al servizio dei clienti che effettuano il pick-up della spesa ordinata online e io devo attingere allo stesso magazzino per accontentare i clienti che vengono ad acquistare in negozio». L’obiettivo è sempre quello di rendere un assortimento il più vasto possibile e il più possibile vicino al cliente. Digitale significa anche servizi aggiuntivi e offerte legate a un determinato punto vendita. «L’innovazione non passa soltanto per le tecnologie e i pezzi di ferro. Il nostro problema è trasformare anche gli addetti, che non devono limitarsi a confezionare o disporre la merce sugli scaffali, me devono diventare venditori».
Sul piano infrastrutturale – interviene Luca Nilo Livrieri, sales engineering manager di Forcepoint Italy and Iberia, il mondo del retail si sposa a tantissimi concetti di sicurezza. «Molti clienti del comparto scelgono per esempio la tecnologia di next generation firewall di Forcepoint Multi-link per risolvere i loro problemi di sicurezza e connettività perché questa piattaforma integra servizi tipici di SD-WAN, ormai molti diffusi nelle reti che collegano i punti vendita delle catene». Livrieri parla della necessità di dare sicurezza alle proprie connessioni di rete anche quando a livello locale i provider non offrono molte alternative. Nelle reti geografiche (WAN) sempre più software defined, è utile disporre di un firewall in grado di gestire l’uso di linee di diverso tipo, distribuendo in modo efficace i carichi di lavoro. E Forcepoint rende possibile tutto questo. Un altro versante è quello dei dati, sempre più abbondanti e utilizzati, ma proprio per questo ancora più esposti ai rischi di compromissione, se non si dispone di una sicurezza flessibile ma capace di intercettare e addirittura prevenire i comportamenti autonomi, modulando le barriere di sicurezza in funzione del rischio legato alle attività delle persone.
La conversazione si è ormai spostata nell’ambito degli analytics e della conoscenza del cliente, con Andrea Marchisio, IT manager di Scarpe e Scarpe, che cita il grande lavoro svolto recentemente da questo protagonista nazionale delle grandi superfici dedicate alla calzatura, che si è evoluto a partire da una semplice attività di venditore su scala regionale. Una delle sfide nell’integrare l’operatività dei negozi e quella dello store online è capire il diverso comportamento dei clienti – osserva Marchisio. «Recentemente, mi hanno segnalato un problema: un cliente, non potendo acquistare sul momento un paio di scarpe, aveva chiesto all’addetto alla vendita di tenerlo da parte. In seguito, lo stesso cliente aveva optato per il servizio “click and collect” sul nostro sito. Le scarpe che aveva scelto però non risultavano più disponibili proprio perché “bloccate” dal punto vendita». I mutamenti infrastrutturali come il cloud, insieme all’omnicanalità sempre più spinta, determinano – secondo Marchisio – una situazione in cui non esistono carenze tecnologiche, ma la mentalità delle imprese deve cambiare completamente se si vuole arrivare a dominare le informazioni e ottenere l’attesa fusione tra fisico e digitale. «Scarpe e Scarpe ha ricostruito da zero il proprio sistema di business intelligence, proprio con l’obiettivo di guadagnare una capacità di analisi in tempo reale e soprattutto estesa al maggior numero possibile di funzioni aziendali. Potenzialmente, i dati del retailer oggi sono accessibili a tutti i 2200 dipendenti della società».
A livello logistico – spiega il manager IT di Scarpe e Scarpe – si cerca per esempio di ridurre i costi e i volumi dei magazzini coinvolgendo direttamente gli stessi fornitori nel ciclo di vendita, in modo da sfruttare le loro risorse. «Lato cliente, lavoriamo molto con i nostri sistemi CRM, sulle anagrafiche dei clienti e sui cinque milioni di carte fedeltà». Scarpe e Scarpe ha acquisito anche la consapevolezza dell’importanza dei social network come fonte di conoscenza della clientela. «Ma la sfida vera – continua Marchisio – è capire che cosa fare di queste informazioni». Un altro spunto di grande interesse, emerso dagli interventi di Marchisio, riguarda l’evoluzione del concetto di fidelizzazione e l’armamentario di trucchi che il retailer può utilizzare oggi per rafforzare la propria relazione con il cliente, moltiplicando le occasioni di vendita. «Il sistema di loyalty non è più solo una raccolta di punti. La fidelizzazione si gioca anche sui servizi erogati. Da quando abbiamo adottato un sistema di pagamento basato su smartphone, una valanga di acquirenti vuole pagare utilizzando il proprio device. È tutto un mondo di regali, agganci con il welfare e strumenti capaci di produrre upselling» – conclude Marchisio.
Forse, una prima risposta alla sfida di Scarpe e Scarpe viene da Michele Miraglia, manager di Data Reply. Il lavoro di analisi – «le cose da fare con i dati» – deve rispondere alle concrete necessità di business. «Si parte dalla visuale unica sul cliente e da qui inizia la raccolta, da ogni canale disponibile, dei dati generati dal comportamento del cliente» – spiega Miraglia, la cui specializzazione in Data Reply riguarda proprio la pianificazione della logistica, i magazzini, l’organizzazione ottimale della merce sugli scaffali. «Una buona capacità di previsione può fare una grande differenza» – avverte Miraglia. «Rispetto alle tremende complessità dei vecchi data warehouse, oggi l’approccio al dato è più semplice, ci sono tecnologie che permettono di essere subito un passo avanti. Posso raccogliere anche pochi dati per avere risposte immediate, forse non precisissime, ma preziose».
«Attenzione però alla qualità di questi dati» – ribatte Antongiulio Donà di Talend. «Ci sono diversi gradi di “pulizia” del dato in base agli usi che ne voglio fare. Se affrontiamo il problema della governance senza prima risolvere la questione della qualità, difficilmente troveremo il tempo e le risorse per farlo in futuro. Bisogna partire subito». La piattaforma di integrazione di Talend – spiega Donà – ha un impatto significativo sul TCO di una applicazione dati proprio perché consente di affrontare fin dall’inizio l’aspetto qualitativo.
Nella coda della lunga discussione, le parole di Francesco Cavarero di Miroglio Group servono a tracciare un quadro riassuntivo efficace. «In alcune aree sembra esserci una vera ossessione per un dato ancora molto legato al front end: chi compera, come compera, spesso con problemi di rilevanza delle informazioni che riguardano certi clienti. L’attenzione c’è, ma – secondo me – non è vero che il dato entra come dovrebbe nei processi. Noi imprese di distribuzione ancora non abbiamo una gran cultura nello sviluppo del prodotto, nella logistica, nel soddisfare la richiesta del consumatore». Il CIO di Miroglio individua un problema di flessibilità degli strumenti, ma soprattutto di cultura di processo. «Certo, siamo diventati più scientifici nello spostare la merce verso i negozi, nell’affrontare i temi della stagionalità, della capacità di anticipare la risposta del mercato. Mettere tutto questo dentro i processi interni, è complicato». Ma è una complessità che bisogna cominciare ad affrontare.
datamanager.it
03/10/2019