Le convinzioni sono, ai fini della conoscenza, più pericolose delle menzogne.
Nietzsche
L'approccio "tradizionale", di tipo efficientistico sugli obiettivi, privilegia una gerarchia basata sul presidio delle specializzazioni interne con responsabilità del tipo: commerciale, del marketing, della produzione, della logistica, amministrativa, del personale, della ricerca, eccetera. Il modello prevede il controllo diretto della funzione, con conseguente numero di livelli gerarchici, proporzionale alle dimensioni dell'impresa.
Il sistema di management "tradizionale" è, generalmente, di matrice tayloristica e per obiettivi; esso prevede una gestione incentrata sulle funzioni e sul presidio, chiaro e definito, dei loro confini. A ogni responsabile o direttore viene affidato il compito di conseguire un particolare obiettivo: a esempio, aumentare le vendite, ridurre le scorte, migliorare la qualità del prodotto, ridurre i tempi del recupero crediti, mantenere costante il costo del personale. Esso si focalizza, prevalentemente, sui costi e sulle efficienze, dando luogo alla cosiddetta gestione per "centri di costo".
L'approccio "integrato", dando la priorità ai meccanismi di generazione del valore, dà più importanza al presidio dei processi: l'implicazione di questo secondo modello è dover ridisegnare l'organizzazione aziendale.
Il sistema di management, volendo enfatizzare l'importanza del presidio del valore, è orientato alla logica della gestione per obiettivi in corresponsabilità interfunzionali (1) (nel caso delle strutture per funzioni), oppure alla logica della gestione per processi (Merli, 1999), oppure alla logica di gestione per partnership (Kotler,1999).
Con riferimento a quest'ultima, è interessante analizzare come la Whirlpool ha sviluppato una procedura innovativa di produzione. Prima di progettare una nuova lavatrice, gli addetti a progettazione, marketing e acquisti definiscono, a grandi linee, i livelli di qualità e di costo di tutti i componenti. Successivamente vengono individuati quei fornitori che possano essere considerati come i "migliori partner strategici", in termini di qualità, tecnologia e servizi. I fornitori prescelti partecipano, assieme al task group della Whirlpool, alle successive fasi di progettazione e sviluppo del prodotto. L'obiettivo è quello di considerare Whirlpool e i suoi fornitori come un "unico sistema di creazione del valore".
È degna di essere citata la ricerca di Tom Peters e Robert Waterman, che hanno seguito, per anni, la sorte di moltissime imprese. Al termine della loro ricerca essi hanno potuto verificare che l'eccellenza, sul lungo periodo, non risultava dalla lettura dei bilanci; essa era il risultato di modelli organizzativi in grado di privilegiare una filosofia gestionale comune che poteva, a grandi linee, estrinsecarsi in otto fattori.
- Orientamento all'azione.
- Orientamento al cliente.
- Orientamento al marketing.
- Autonomia e imprenditorialità diffuse.
- Produttività attraverso le persone.
- Cultura del fare e della creazione di valore.
- Focus su un core business.
- Organizzazione semplice e staff leggero.
- Sistematicità, associata a flessibilità.
Questo articolo si articola in una serie di paragrafi che illustrano alcuni strumenti di gestione che le imprese possono utilizzare per adeguare le proprie strutture organizzative e i propri modelli di gestione ad un mercato sempre più competitivo. Si illustreranno, con estrema sintesi, la produzione snella, il downsizing, il reengineering, l'empowerment, il benchmarking, la disarticolazione verticale dell'impresa, il problema della complessità che accompagna la crescita, la logistica integrata, la difesa del valore del marchio, la globalizzazione, la gestione della qualità. Quest'ultimo argomento meriterebbe uno spazio molto maggiore, ma si ritiene necessario darne un breve cenno data la sua importanza.
Un'importante fonte di vantaggio competitivo sta nella rapidità con la quale le imprese sono capaci di adeguarsi o, preferibilmente, anticipare le dinamiche del mercato, utilizzando uno o più degli strumenti di gestione succitati.
1. La produzione snella
Le imprese hanno scoperto che l'organizzazione gerarchica, con molti livelli di coordinamento, ha un costo non più sopportabile nell'era dell'ipercompetizione. Concetti come lo span of control (cioè l'ampiezza del comando, per esempio, un capo può controllare al massimo 10 dipendenti), che sembravano fattori di gestione consolidati, sono entrati in crisi, e con essi un modo di organizzare le imprese.
La lean production (2) si è affermata nel mondo dell'impresa per una serie di ragioni:
- Da qualche parte nel mondo c'è qualcuno che usa meno responsabili per unità di prodotto. Le tecniche di benchmarking hanno permesso di scoprirlo, se ne è dovuto prendere atto e agire in conseguenza.
- Le imprese utilizzano personale più scolarizzato di quanto non facevano un tempo. Persone più competenti e mature sono in grado di autogestirsi, e, spesso, lo pretendono.
- I programmi di reengineering hanno insegnato a progettare esplicitamente, e con un approccio "partendo da zero", tutto quanto riguarda un processo gestionale, inclusi i livelli di supervisione. Poiché questi, normalmente, non aggiungono valore per il cliente, sono stati ridotti al minimo.
- L'esternalizzazione di alcune produzioni ha permesso di constatare che altri imprenditori sono in grado di gestire la produzione con minori livelli di controllo; ne sono state tratte le debite conclusioni e tali modelli di gestione sono stati applicati anche per il core business. Le stesse conclusioni sono apparse evidenti quando sono cambiati i proprietari di alcune imprese, con la trasformazione da proprietari burocratizzati e accentratori a imprenditori.
- Le situazioni di crisi hanno obbligato le imprese a tagliare i costi in tutte le aree e soprattutto i costi di struttura; con una certa sorpresa si è scoperto che talvolta l'impresa funziona meglio.
La reazione delle imprese è stata, inizialmente, di tipo incrementale con interventi overhead value analysis (cioè di analisi dei costi di struttura) o di semplice riduzione di qualche livello di responsabilità. I risultati sono stati positivi, ma non sufficienti, anche perché la filosofia di base si supponeva dovesse essere il contrapporre l'azienda "magra" all'azienda "grassa", mentre la contrapposizione deve essere fra l'azienda "gerarchica" e l'azienda "organizzata per processi orizzontali".
Nel caso del controllo di qualità, si può sempre ridurre la frequenza dei controlli, risparmiando in personale, ma correndo qualche rischio in più in termini di qualità del prodotto; la soluzione è stata individuata nel disporre di sistemi di produzione che non producano scarti.
Nel campo organizzativo la soluzione non è ridurre il personale di coordinamento e controllo, ma ingegnerizzare i sistemi gestionali in modo che le singole persone abbiano responsabilità più ampie, lavorino in team responsabilizzati per risultati e non per attività elementari e siano inserite in processi orizzontali completi.
Il criterio per una progettazione organizzativa deve essere il seguente: al limite teorico, tutte le attività che non producono un valore per il cliente finale devono essere annullate.
Un'impresa progettata o riprogettata per essere snella, e quindi in grado di operare per processi orizzontali, è anche un'azienda più intelligente, più democratica e più veloce.
Per realizzare un'azienda snella.
- Bisogna partire dal presupposto che le persone sono intelligenti e affidabili, e che quindi possono essere responsabilizzate per compiti complessi e con minori interfacce. Persone intelligenti e motivate trovano soluzioni nuove per migliorare i compiti che sono loro affidati, e quindi tutta l'impresa, nel suo complesso, diventa più intelligente e più reattiva alle esigenze dei clienti.
- I team di persone sono normalmente più motivabili di singoli lavoratori che devono obbedire a un capo. La leadership nei team si stabilisce naturalmente, il controllo reciproco è migliore, l'imposizione dall'alto è inesistente, il lavoro viene riallocato secondo necessità.
- Riprogettando l'impresa per processi orizzontali si riprogetta esplicitamente anche il tempo di reazione (per esempio, un sistema di approvvigionamento dei clienti, un tempo ciclo di produzione). Ridurre i livelli di coordinamento, senza riprogettare i processi, serve solo a caricare di lavoro i capi, e, ridurre semplicemente i punti di controllo "a monte", significa avere poi dei problemi "a valle".
Pensare ai problemi dei dipendenti deve valere anche quando si ragiona di lean production; l'impresa ha una responsabilità nei confronti di tutti quei coordinatori o capi che essa stessa ha creato, e che sarebbe ingiusto licenziare solamente perché l'azienda ha deciso di dimagrire. Il tempo dei licenziamenti dei cinquantenni, perché troppo costosi per l'impresa, è tramontato. Bisogna trovare il modo di utilizzare tutte quelle competenze ed energie, in precedenza sprecate in attività inutili, per servire meglio i clienti, oppure per sviluppare nuovi prodotti, nuovi mercati e nuove opportunità di business.
È riduttivo e fuorviante pensare solo a "dimagrire"; bisogna, invece, allenarsi ed "essere in forma" per affrontare la competizione del mercato.
Eppure, quando in un'impresa arriva un nuovo responsabile normalmente attua il principio del downsizing, cioè fare tutto di meno.
Meno vendite a clienti che non rendono, meno investimenti a redditività dubbia, meno costi di struttura, meno livelli di responsabilità, meno prodotti marginali, e, soprattutto, meno personale. Per un nuovo responsabile è molto più facile concentrarsi sul fare di meno che sul fare di più; eppure, in un passato non molto lontano, i manager delle aziende cercavano di espandersi in termini di fatturato, di potere, di numero di persone al proprio "comando", di investimenti.
È difficile avere delle buone idee in modo che l'impresa faccia di più di quello che ha sempre fatto; se si fa il contrario, quasi sempre, l'operazione funziona, almeno sul breve periodo.
È, comunque, vero che oggi non ci sono quasi limiti al miglioramento della produttività: la riprogettazione organizzativa per processi, l'utilizzo esteso dell'informatica e l'esternalizzazione spinta di tutte le attività aziendali permettono di ridurre continuamente il personale; il limite teorico è uno, perché nemmeno l'amministratore delegato o l'imprenditore ha bisogno di una segretaria.
Un nuovo responsabile aziendale che fa del downsizing la propria bandiera non sbaglia mai, e troverà centinaia di esempi dai quali mostrare che facendo di meno si guadagna di più.
Se, poi, si fa l'esercizio di suddividere l'impresa in due rami, mettendo nel primo solo costi e ricavi di tutto quello che serve al business (impianti, clienti, mercati) e nel secondo tutto quanto non lo serve, con i costi di struttura necessari a gestirlo, si scopre che l'impresa da una parte guadagna e dall'altra perde; basta tagliare l'azienda in due, eliminare la parte cattiva e il profitto cresce.
Il limite del downsizing è che esso non costruisce niente; quando si sia tolto tutto il "grasso" aziendale, o eliminate le aree di perdita, il vero problema rimane l'espansione redditizia, perché un'impresa che pensa solo a dimagrire prima o poi muore di anoressia.
È importante tener presente che organizzazione snella e downsizing non sono sinonimi, anzi, sotto certi aspetti, sono principi di gestione alternativi.
Per costruire lo sviluppo ci vuole una leadership focalizzata sui ricavi; considerando che il profitto è funzione del rapporto ricavi/costi, focalizzarsi solo sui costi può essere utile ma, alla lunga, non permette l'ingresso in nuovi mercati, l'introduzione di nuovi prodotti o lo sviluppo di nuove competenze.
Una leadership valida cercherà l'ottimizzazione del rapporto ricavi/costi, operando sia sul fronte dei ricavi che su quello dei costi; la storia economica insegna che una leadership che riorganizza un'impresa solo sulla base dei costi lo fa perché non è in grado di elaborare una valida strategia industriale.
2. Il reengineering
Quando si parla di reengineering è opportuno sgombrare il campo da incomprensioni e valutazioni errate; per lavoratori e sindacalisti, reengineering è sinonimo di licenziamenti, di cassa integrazione guadagni o di prepensionamenti. Spesso, purtroppo, essi hanno ragione perché questa è la realtà con la quale si sono scontrati; ma, questa realtà, se, talvolta, è giustificata da modifiche strutturali di un particolare settore produttivo, spesso è la risultante di incapacità gestionali e/o imprenditoriali.
Reengineering è, invece, un processo di riorganizzazione delle attività di un'impresa, volto, sia al miglioramento delle prestazioni in ogni ambito delle sue funzioni, sia alla valorizzazione delle capacità intellettive del personale.
Imprenditori e manager sono spesso insoddisfatti del modo con cui sono gestite certe attività, come la programmazione della produzione, l'introduzione di nuovi prodotti, i rapporti con i fornitori, i rapporti interaziendali; i costi possono essere troppo alti, i tempi di risposta elevati, la qualità insufficiente, le relazioni burocratizzate.
La risposta a questi problemi è sempre stata un programma di riduzione dei costi, di accelerazione dei tempi e di miglioramento della qualità: a un problema puntuale, una risposta puntuale.
Da alcuni anni ci si è resi conto che le risposte puntuali non innovano a sufficienza, a volte, creano nuovi problemi e non prevengono il riformarsi di incrostazioni. Pretendere che le persone lavorino di più e meglio in processi spezzettati e spesso arcaici è inutile; la risposta giusta è invece ripensare l'azienda per processi orizzontali e riprogettare i processi ponendosi precisi indici di performance.
Le persone lavorano di più e meglio se vedono il risultato finale di quello che fanno e se gli strumenti e i processi utilizzati sono aggiornati e razionali.
Tradizionalmente le imprese sono state organizzate per compiti: il lavoro di un impiegato inizia dai fogli di carta che arrivano sulla sua scrivania e finisce con quelli che passa ad altri impiegati, ma questo modo di concepire i compiti frammenta le responsabilità, allunga i tempi, non utilizza l'intelligenza disponibile e genera burocrazia.
Ci si può, invece, organizzare per processi, mettendo insieme tutte le persone che influenzano un risultato: il caso tipico è il ciclo: ordine - consegna - incasso. Le imprese che hanno riprogettato i propri processi hanno ottenuto miglioramenti durevoli di costo, di performance e di qualità.
Riprogettare i processi non è semplice perché l'impresa si scontra con una mentalità gerarchica, poiché, inevitabilmente, sposta o elimina i confini fra una funzione e l'altra, fa lavorare le persone in gruppi di lavoro, invece che all'interno delle tradizionali funzioni aziendali, sposta il potere decisionale ai livelli più bassi dell'organizzazione, abolisce la necessità di coordinamento; è quindi una rivoluzione aziendale che, come tale, viene osteggiata da chi ha potere.
Bisogna quindi ripensare l'impresa:
- affidando le responsabilità ai process owner, invece che ai capi funzionali,
- dando valore ai risultati complessivi di un processo e non alle misure intermedie della quantità di lavoro svolta da ciascuno,
- integrando i partner esterni (fornitori, agenti, distributori) nei propri processi aziendali e viceversa.
Riprogettare i processi aziendali richiede, a priori, la volontà di ottenere miglioramenti notevoli nelle performance, dato che non si fa una rivoluzione per ottenere miglioramenti incrementali.
Il meccanismo operativo, per la transizione da una gestione per funzioni ad una per processi, passa attraverso quattro fasi.
- Definire quali sono i processi aziendali.
- Far comprendere a tutta l'organizzazione l'importanza dei processi orizzontali.
- Misurare i risultati attuali dei processi in termini di rilevanza per il cliente finale
- Riprogettare i principali processi, per ottenere i risultati desiderati.
Quando un team di progetto analizza come si opera nel modello per funzioni, scopre, immediatamente, che vi sono due tipi di attività; quelle che generano un valore effettivo per i clienti e quelle che servono per coordinare e controllare. Sembrerebbe facile abolire le seconde, ma se esistono qualche ragione c'è; bisogna invece riprogettare il processo in modo da minimizzare i trasferimenti da una persona a un'altra, addestrare le persone a svolgere compiti allargati e che possano richiedere competenze diverse, utilizzare le tecnologie informatiche e di telecomunicazioni al massimo del loro potenziale, delegare le responsabilità.
Tutto questo significa utilizzare un principio di base anti tayloristico; mentre con la gestione per funzioni si è cercato di far funzionare le imprese pensando che le persone siano stupide o inaffidabili e che quindi debbano svolgere compiti semplici ed essere coordinate e controllate con complicati processi gestionali, si scopre che le imprese funzionano meglio se alle persone (che stranamente si rivelano intelligenti) si dànno compiti complessi governati da processi semplici, ma progettati ad hoc.
Spesso un'attività di reengineering si conclude con un soddisfacente decremento dei costi o un miglioramento delle performance aziendali, e poi tutto funziona come prima. In questi casi non si è colta l'opportunità di ripensare da zero il funzionamento dell'impresa, di rivedere i rapporti con i partner esterni, di cambiare compiti e ruoli del personale. Fare, seriamente, del reengineering è un'impresa, veramente, ardua.
3. L'empowerment
Come detto, le imprese stanno riscoprendo il valore delle persone, e, in particolare, il fatto che persone istruite, motivate e informate sanno prendere bene molte più decisioni di quanto non si pensi; naturalmente, così facendo viene messo in crisi il ruolo decisionale, di coordinamento e di controllo di tutti i livelli gerarchici superiori.
La delega delle decisioni il più vicino possibile all'operatività è chiamato "empowerment".
L'empowerment comporta inevitabilmente che alle persone vengano date molte più informazioni, in modo che possano operare sulla base di dati precisi:
- il venditore deve sapere qual è il margine generato dal suo cliente, quanto costano gli stock necessari per servirlo, qual è, e quale potrebbe essere il programma di produzione, quali sono i programmi di marketing;
- il capo reparto deve sapere chi sono i suoi clienti (anzi, è bene che li conosca personalmente), quanto rendono le vendite, quali danni fanno i prodotti difettosi presso i clienti, quali sono i programmi produttivi di ciascun cliente importante.
Appena si incomincia a responsabilizzare le persone, in modo allargato, si scopre che queste possono avere molte idee valide su come migliorare la situazione, anche con interventi a monte o a valle della loro specifica responsabilità. Inoltre, si scopre che le persone così responsabilizzate incominciano a dialogare fra di loro, senza bisogno di stimoli o di coordinamento, per risolvere i problemi o cogliere le opportunità. Prima o poi si formano dei team informali dedicati ai processi fondamentali (da ordine a consegna, da vendita a incasso, da programma di acquisto a programma di produzione, a esempio) e l'impresa è praticamente obbligata ad avviare un piano di reengineering volto a realizzare un'organizzazione per processi.
Con la delega di responsabilità è naturale che debba essere sviluppato anche un sistema di incentivazioni individuali e collettive, basate sui risultati ottenuti, non sull'attivismo individuale; poco alla volta le persone, così responsabilizzate, acquisiscono modi di pensare e di agire da "professional" e non da dipendenti, il che mette ulteriormente in crisi la gerarchia, che non riesce più ad esercitare il proprio potere.
Saltano i vecchi concetti di "span of control", tutti comprendono che sono i clienti a pagare lo stipendio, il senso di appartenenza alla propria famiglia professionale e al proprio team di processo acquista più peso che la fedeltà al proprio capo.
4. Il Benchmarking
Nel paragrafo 1., è stata fatta questa affermazione: da qualche parte c'è qualche impresa che fa meglio qualcosa e le tecniche di benchmarking ci possono aiutare a scoprirlo.
La ricerca di confronti con il mondo esterno può rivelarsi uno strumento molto importante, perché permette di comprendere quanto si dista dai concorrenti o dagli specialisti di una determinata funzione, ed, eventualmente, di condurre le azioni correttive atte al miglioramento del proprio vantaggio competitivo. Giova osservare che le imprese partecipanti a un meeting di benchmarking non sono necessariamente dello stesso settore industriale.
Imprese che hanno effettuato programmi di benchmarking riportano miglioramenti di redditività e, in un certo senso, anticipano il giudizio del mercato, perché comprendono, tempestivamente, e, analiticamente, dove sono migliori o peggiori dei concorrenti.
Le ragioni per le quali si iniziano programmi di benchmarking sono talvolta poco lodevoli:
- il vertice aziendale non si fida dei collaboratori e cerca dei modi per pungolarli verso interventi di maggior efficienza; uno di questi modi è di dimostrare che qualcun altro ha indici di efficienza migliori;
- i collaboratori vogliono dimostrare al vertice di essere "a posto" dal punto di vista dell'efficienza o dell'utilizzo di moderne metodologie di gestione.
La realizzazione corretta di un programma di benchmarking richiede il rispetto di alcune regole.
1. Assicurarsi che si stanno confrontando "mele con mele"; questo può sembrare semplice, ma generalmente richiede analisi approfondite per effettuare i necessari aggiustamenti nei dati rilevanti.
2. Arrivare a un livello di dettaglio che renda ovvio e consequenziale l'intervento necessario; limitarsi a rilevare che il costo della manodopera in un certo stabilimento è più elevato di quello di …, non è particolarmente utile.
3. Puntare all'obiettivo prospettico e non a quello attuale; tenere conto, quindi, del fatto che anche i concorrenti miglioreranno.
4. Assicurarsi di avere una visione complessiva dei costi e del valore per il cliente; tagliare costi in una parte del sistema ha poco senso se questi vengono solo trasferiti altrove.
5. Focalizzarsi sull'identificazione dei punti di debolezza, ma anche dei punti di forza, altrimenti il benchmarking potrebbe rivelarsi uno strumento di auto commiserazione.
6. Assicurarsi di avere qualche risultato pratico di successo, nel programma di benchmarking, per garantirne l'accettazione in azienda.
7. Assicurarsi che le valutazioni siano oggettive e basate su analisi affidabili; l'evidenza di eventuali deficienze verrà altrimenti rifiutata dalla struttura.
8. Dedicare adeguata attenzione ai sistemi di motivazione e di incentivazione per il raggiungimento degli obiettivi.
9. Assicurarsi un adeguato coinvolgimento del top management.
10. Misurare e controllare, nel tempo, il progresso verso il target e aggiornare periodicamente gli obiettivi.
I programmi di benchmarking più facili da realizzare sono quelli interni, nei quali si mettono a confronto le performance di unità della stessa impresa (questo vale, per lo più, per grandi imprese); non è inusuale scoprire significative differenze di efficienza, non spiegate da oggettive disomogeneità. In questi casi, gli interventi correttivi sono facili e immediati.
Più difficili da realizzare sono i programmi di benchmarking che coinvolgono imprese diverse, anche se, stranamente, si constata che le imprese sono, generalmente, disposte ad aprirsi e cioè sono disponibili a parlare delle proprie performance con esterni, talvolta anche con concorrenti.
La presenza di imprese a rete consente di effettuare con maggior facilità i programmi di benchmarking competitivo; le imprese coinvolte sono, infatti, orientate a creare valore insieme e quindi interessate a un miglioramento delle performance, che derivi dall'assemblaggio degli elementi di eccellenza che ciascuna impresa è un grado di comunicare e di mettere a fattor comune.
I programmi di benchmarking sono, a volte, impostati male per intrinseche difficoltà. Le imprese tendono, infatti, ad organizzarsi per processi (invece che per funzioni, come visto precedentemente), mentre il benchmarking tende a confrontare attività elementari, e quindi funzioni. È pur vero che i processi sono specifici di ciascuna realtà aziendale, e che quindi sono più difficili da confrontare rispetto alle attività funzionali, ma non è mai una buona ragione fare qualcosa solo perché è facile farlo, se ha minore rilevanza rispetto a qualcosa che richiede, invece, un impegno maggiore.
Impostare correttamente il benchmarking richiede l'aver presente che il limite teorico del costo di qualsiasi attività aziendale è zero: un processo gestionale ben progettato potrebbe autogestirsi senza carte o personale. Il limite teorico del costo di produzione è praticamente il valore della materia prima contenuta nel prodotto.
L'atteggiamento mentale giusto è quello di immaginare quale è il minor rapporto costo/performance teoricamente raggiungibile e poi ingegnarsi a realizzarlo; spesso, invece, ci si accontenta di porre come traguardo aziendale l'indice già raggiunto da qualcun altro. Scopo del benchmarking è sì imparare dai migliori, ma non è, necessariamente, raggiungere le performace di un concorrente, ma confrontarsi sempre con il futuro e con le proprie ambizioni.
5. Disintegrazione verticale delle aziende
Un modo intelligente per superare un periodo negativo o di crisi delle economie mondiali è cogliere l'occasione per ristrutturare l'impresa; a esempio si può pensare all'impresa come a un insieme di centri di business e non come un insieme di funzioni e centri di costo. Il reparto produttivo, la rete commerciale, la funzione amministrativa, il sistema logistico, possono essere pensati tutti come centri di business; infatti esistono operatori che si concentrano unicamente su tali attività e che forniscono prodotti o servizi per terzi, con profitto.
Citiamo due casi esemplificativi.
- Nel settore degli apparati elettronici e di telecomunicazioni si sono affermati gli specialisti della produzione per conto terzi: Motorola e Cisco, a esempio, non hanno interesse ad avere all'interno dell'impresa la produzione, perché i volumi produttivi sono molto variabili e quindi gli stabilimenti sarebbero sempre in posizione di carenza o eccesso di capacità. Meglio affidarsi a terzi, che possono compensare i cicli negativi di un produttore con quelli positivi di un altro.
- Nel settore amministrativo si stanno affermando gli specialisti che fanno, per le grandi imprese, quello che il commercialista fa per le piccole, e cioè tenere la contabilità e preparare il reporting. Uno specialista ha sistemi informativi che può mettere a disposizione di varie imprese, personale qualificato con buone prospettive di carriera nella propria funzione, costi normalmente non elevati (perché ha stipendi più bassi e un maggior controllo del funzionamento). Oggi, inoltre, è possibile mettere a disposizione dell'impresa le informazioni di cui ha bisogno producendole a distanza (la cosiddetta modalità ASP: Application System Provider), il che permette di ridurre ulteriormente i costi di struttura (affitti, licenze d'uso dei software).
L'impresa può essere ripensata come un aggregato di centri di business che si possono esternalizzare. Idealmente, l'imprenditore può costruire la propria impresa facendo fare il progetto dei prodotti a una società di ingegneria, facendo produrre presso terzi, facendo accordi con specialisti per la vendita e l'assistenza. Ma anche la contabilità, la gestione di paghe e stipendi, il sistema informativo, la gestione degli uffici e del parco macchine possono essere forniti come servizi da parte di specialisti.
In alcuni casi l'imprenditore può addirittura vendere parti della propria azienda agli specialisti ottenendo in cambio, sia liquidità, che può investire per acquisire un concorrente o semplicemente per crearsi una riserva che gli consenta di superare la crisi senza dover aumentare l'indebitamento, sia un servizio migliore a minor costo.
L'impresa non è più, necessariamente, un aggregato di centri di costo che devono stare sotto lo stesso tetto; può essere una partnership di imprenditori diversi, che hanno in comune lo scopo di creare valore. Questo modo di concepire l'impresa è sempre esistito nella piccola e media impresa, che non avendo capitali o competenze sufficienti per fare tutto ha impostato il proprio modo di essere all'insegna della terziarizzazione.
Oggi il concetto si estende, per necessità, anche alla grande impresa, facilitato dal fatto che con l'informatica e le telecomunicazioni è diventato possibile fornire servizi alle imprese senza necessariamente stare sotto lo stesso tetto; anzi è molto più efficiente farlo da lontano, in quanto, così, si possono sfruttare sinergie fra business differenti.
La terziarizzazione dell'impresa offre anche l'opportunità di creare nuovi imprenditori; quello che prima era un reparto o una funzione aziendale può essere venduto a uno specialista, che diventa imprenditore in quel particolare settore. Non è difficile creare una nuova impresa utilizzando parti di un'impresa esistente; bisogna volerlo e saperlo fare.
6. Evitare la trappola della complessità
Le imprese crescono, normalmente, per piccoli passi secondo uno sviluppo, detto incrementale; un impianto viene aggiunto a quelli esistenti, si lancia una nuova versione di un prodotto, si apre un nuovo mercato. Ogni decisione sembra appropriata, nel momento in cui la si prende; ogni euro di fatturato in più contribuisce a migliorare il margine lordo e, se anche fa aumentare i costi fissi, il bilancio complessivo sembra positivo.
Un altro modello di sviluppo, che potrebbe essere utile, ma che nasconde, però, grandi pericoli, è quello di sfruttare le marginalità. Si può vendere con sconti a clienti che non possono pagare il prezzo pieno, si può saturare la capacità produttiva con prodotti che non pagano gli ammortamenti, ma dànno un contributo ai costi fissi, si può utilizzare il personale eccedente per produzioni di minor pregio.
Di queste decisioni si vede l'effetto positivo immediato, ma si trascura spesso l'effetto indiretto successivo, che può essere negativo: i clienti "normali" pretendono lo stesso prezzo degli altri e si perde sulla politica del prezzo di equilibrio, alcuni impianti diventano dei colli di bottiglia e bisogna, quindi, investire per ampliarne la capacità produttiva, a scapito, probabilmente, degli oneri finanziari, il personale, impiegato in attività marginali, che esce per limiti di età, deve essere sostituito per poter far fronte agli impegni, perdendo l'occasione di tagliare i costi del personale.
Sia le decisioni di tipo incrementale, che quelle di tipo marginale portano ad avere molti prodotti, molti impianti, grandi magazzini, molti clienti, tutti con forti interazioni e, quindi, a una gestione con un elevato grado di complessità. D'altra parte, può essere arduo ripercorrere a ritroso la strada percorsa, perché l'eliminazione di qualche elemento comporta una perdita di margine, e non permette, contestualmente, di ridurre il costo complessivo del sistema. In breve, quando un'impresa ha imboccato la strada della crescita, potrebbe trovarsi a dover gestire una maggiore complessità, compito per il quale l'impresa potrebbe non essere preparata, inoltre la situazione nella quale, conseguentemente, viene a trovarsi l'impresa potrebbe non consentire un arretramento, se mai un ulteriore potenziamento.
È necessario un approccio di tipo discontinuo per scoprire come aumentare i profitti riducendo, al contempo, la complessità. Un modo pratico per analizzare un'impresa è di ripensare da zero come la si costruirebbe se si avessero tutti i gradi di libertà: quali impianti tenere aperti e quali chiudere, quali prodotti eliminare, quali clienti abbandonare. Successivamente si può immaginare come potrebbe essere la struttura necessaria per gestire solo la parte ritenuta utile del sistema aziendale e calcolare quali costi, ricavi e circolante si otterrebbero nella nuova configurazione; normalmente si constata che il profitto potrebbe essere molto più alto.
L'aumento della complessità della gestione, che può rientrare in una logica imprenditoriale, a piccole dosi, diventa illogico quando se ne considera l'insieme. Se anche a tavolino si possono calcolare nuovi schemi di funzionamento, nella realtà si scopre che non si possono chiudere gli impianti perché non sono stand alone, ma sono collegati ad altri, oppure che non si può chiudere uno stabilimenti vetusto perché, in un momento di euforia, è stato localizzato in quello stabilimento un impianto nuovo e redditizio.
Se proprio è impossibile eliminare qualche elemento l'esperimento sarà servito per capire l'importanza dei piani, sia nell'assetto produttivo che nella definizione dei prodotti; se non si può chiudere qualcosa, almeno si ha un'idea di cosa si dovrebbe fare e tendere a quel target con gradualità.
Il tema della complessità comprende anche un dilemma classico: è meglio fare investimenti graduali e tenere sempre aggiornato lo stabilimento, oppure fare investimenti a gradini? La tendenza degli imprenditori è per la gradualità, ma la discontinuità offre l'opportunità di investire un giorno in un impianto world class, oppure di non investire per niente, se il business non è più profittevole.
Rimane il problema di come liberarsi delle incrostazioni non produttive che sono state identificate attraverso l'analisi dei costi diretti e indiretti della complessità; il modo migliore sarebbe avere idee di espansione vincenti che permettano di assorbire il personale in eccesso, ma una tale raccomandazione è poco agibile perché le idee vincenti non vengono a comando, e i manager che si sono lasciati illudere dalle trappole delle decisioni incrementali non avranno probabilmente idee vincenti in altri campi. Avere comunque ben presente quanto della propria impresa è inutile serve per avere un obiettivo chiaro per il futuro. Senza un obiettivo chiaro e senza la consapevolezza che la complessità costa, l'impresa può trovarsi intrappolata e nell'impossibilità, di andare avanti, o di tornare indietro.
7. La logistica integrata
La distribuzione fisica dei prodotti è passata, in meno di dieci anni, da essere la cenerentola aziendale a essere un'attività primaria; è bastato chiamarla logistica integrata e ci si è accorti che.
- Rappresenta un costo complessivo spesso maggiore di quello della produzione in senso stretto; in quanto nella logistica devono essere compresi i costi di trasporto e stoccaggio, di svalorizzazione dei prodotti obsoleti o costruiti in eccesso rispetto alla domanda del mercato, di amministrazione e gestione degli ordini, di flessibilizzazione della produzione.
- Può consentire enormi risparmi rispetto alle modalità di gestione tradizionale, purché venga trattata scientificamente e con investimenti specifici; l'investimento più importante è nelle risorse specialistiche, che devono essere di prim'ordine e non residuali, come, tradizionalmente, è stato nella maggior parte delle imprese.
- Può essere un business, purché sistemi di gestione e impianti vengano condivisi fra più operatori. La logistica integrata parte dal presupposto che, in mercati a rapida evoluzione, sia illusorio cercare di prevedere la domanda e sia invece molto più utile organizzarsi per rispondere tempestivamente a qualunque esigenza del cliente; ciò comporta una serie di cambiamenti nel sistema logistico aziendale.
- Spostare il punto di personalizzazione degli ordini il più a valle possibile e nel momento più vicino possibile alla scelta del consumatore finale.
- Progettare prodotti e cicli di produzione per una costruzione modulare.
- Annullare i tempi morti lungo tutte le fasi del ciclo per mezzo di un utilizzo esteso dell'informatica, delle telecomunicazioni e della conoscenza istantanea di tutte le variabili da parte degli stakeholder. La compressione dei tempi interessa sia i flussi fisici (dai produttori di componenti fino al consumatore finale) sia i flussi informativi (tutti gli operatori hanno istantaneamente le informazioni su vendite, ordini, giacenze, impegni di capacità e programmi di produzione e di approvvigionamento).
- Impostare tutto il rapporto con i clienti su ordini piccoli e frequenti.
- Utilizzare in modo esteso Internet anche per evitare che le manipolazioni dei dati, fatte da ciascun elemento della catena, abbiano un effetto di amplificazione delle variazioni del mercato.
- Utilizzare una parte della capacità produttiva per prodotti standard e una parte per prodotti personalizzati secondo richieste specifiche del mercato.
- Dare al cliente la possibilità di scegliere fra prodotti disponibili subito, prodotti approvvigionabili, con tempi certi, senza extra costi e prodotti disponibili a brevissimo tempo con extra costi.
- Spostare la responsabilità della gestione delle scorte là ove è più efficace, indipendentemente dal rapporto storico fornitore-cliente.
I campioni mondiali della logistica sono le aziende distributive statunitensi con un sistema di fornitura mondiale.
La chiave di volta delle loro performance è pensare in ore invece che in giorni, essere in grado di rispondere rapidamente agli attacchi della concorrenza, considerare la notte come un tempo utile per processare gli ordini, impegnare i fornitori in termini di capacità disponibile da "riempire" in base alle specifiche domande della clientela, influenzare i clienti a ordinare prodotti fatti con le materie prime approvvigionate in anticipo, e infine utilizzare un potente sistema informatico che operi in real time.
Un sistema di logistica integrata non ha bisogno di essere gestito da un'unica organizzazione; tutti gli operatori che vi partecipano devono essere legati da rapporti di partnership, in quanto la performance di ciascuno influenza quella di tutti gli altri.
Anche nella logistica, come in tutti gli altri processi aziendali, occorre tentare di raggiungere i limiti teorici; se il tempo teorico per produrre e trasportare un prodotto fino al cliente finale è di poche ore, tale tempo deve essere l'obiettivo, tutto il resto è spreco.
8. Brand equity
Un aspetto che sembrerebbe di secondaria importanza nella gestione d'impresa è il "brand management"; a volte inconsapevolmente, un'impresa raggiunge l'eccellenza e diventa una brand company. L'entusiasmo di un nuovo business, le capacità della leadership, l'energizzazione diffusa, l'identità e l'immagine aziendale, la sensibilità nel trattare i clienti, la creatività, la qualità dei prodotti o dei servizi possono fare di un'impresa, anche se piccola o media, un'impresa di marca in un particolare settore, anche piccolo.
È noto che talvolta un'impresa vale più del patrimonio netto. Questo può accadere se, nell'azienda, vi sono asset che hanno un valore, ma che non generano flussi di cassa. Un asset in grado di provocare questo accadimento favorevole è proprio il marchio: se i prezzi riconosciuti dai clienti o le quantità vendute sono superiori a quanto sarebbe "normale", vuol dire che il marchio ha un effettivo valore (brand equity). A volte l'imprenditore si chiede a quanto potrebbe vendere il marchio, per scoprire che l'impresa è interamente giustificata dal brand equity, e che la gestione corrente non aggiunge valore, anzi, eventualmente, tende a distruggerlo.
Il valore del marchio è particolarmente elevato nei prodotti di consumo e di moda, oppure in tutti quei casi in cui l'ombrello di un marchio noto e affidabile rassicura il consumatore. Per mantenere e far crescere questo valore intangibile ci vogliono, sia investimenti di immagine e comunicazione, sia una continua coerenza tra la qualità e le performance promesse implicitamente (dal marchio) e quelle realizzate effettivamente.
L'investimento per mantenere o far crescere il valore del marchio non può essere capitalizzato, come ogni altro investimento, perché i criteri contabili lo considerano una spesa corrente, ma, esso è altrettanto reale; ne consegue che riduzioni di queste spese corrispondono a disinvestimenti.
Aumentare i profitti riducendo le spese relative al brand equity corrisponde a una diminuzione del valore dell'impresa e crea, nell'imprenditore, la pericolosa illusione di far bene.
Il valore del marchio non è facilmente misurabile, quindi, occorre fare ogni sforzo per analizzarne l'effetto sulla competitività dell'impresa, così come vanno analizzati tutti i costi di asset immateriali che, apparentemente, non sono finalizzati a un risultato immediato.
Bisogna stare attenti a quelle azioni di breve termine che, impercettibilmente, distruggono il valore del marchio: svendite, inserimento nella gamma di prodotti poco distintivi e a basso prezzo, comportamento dell'impresa appiattito sulla concorrenza, a esempio. Il valore del brand dipende anche dalle azioni della concorrenza: un premium price non è mai sostenibile infinitamente, e cullarsi nell'illusione che gli investimenti fatti in passato possano avere rendimenti prolungati nel tempo è un grave errore.
Poiché il valore del brand è normalmente immisurabile anche se reale, e gli investimenti per aumentarlo hanno rendimenti a lungo termine (se sono fatti bene), è meglio che gli imprenditori siano lungimiranti e familiari con questo tipo di impresa; se così non è, vi saranno forti pressioni a realizzare investimenti che abbiano rendimenti sul breve, e che porteranno, gradatamente a erodere il valore del brand.
Nel caso in cui un'impresa, che, per ragioni storiche e culturali, abbia raggiunto il livello di impresa di marca, si renda, poi, conto di una mancanza di cultura nella difesa del brand è preferibile vendere il marchio a chi saprà trattarlo e difenderlo per quello che vale, prima che comportamenti gestionali poco accorti portino alla liquefazione del suo valore.
9. La globalizzazione
Quasi tutti i settori industriali hanno concorrenti situati ovunque nel mondo, almeno per una fase del business system (principalmente la produzione o l'acquisto di componenti).
Considerando che le condizioni operative sono disomogenee nei vari paesi, l'unica certezza che l'imprenditore di un particolare settore ha è che, probabilmente, restare ancorati al proprio mercato di origine ha buone probabilità di non essere più, nel tempo, la scelta vincente.
Ciò nonostante, la maggior parte degli imprenditori preferisce investire e competere in Italia o, al più, sul mercato europeo, in paesi, dei quali conosce le situazioni, nei quali può controllare l'operatività senza lunghi viaggi e con i quali esiste una lunga storia di eventi positivi.
Manager e imprenditori italiani cercano di convincersi che, dopo tutto, l'Italia e l'Europa sono ancora un buon posto per investire, perché la produttività è elevata, i mercati di sbocco sono vicini, il made in Italy è molto apprezzato, in Italia sono localizzate le basi operative di fornitori di macchine e impianti; tutti questi ragionamenti sono fatti per auto convincersi e per non dover affrontare le difficoltà dell'operare in un contesto globalizzato.
La globalizzazione imporrebbe infatti una serie di azioni di non facile attuazione; bisognerebbe infatti:
- disaccoppiare le fasi "a monte" del business system (acquisti, progettazione esecutiva, produzione), da quelle "a valle",
- trasferirsi, per un certo periodo di tempo, in qualche paese di nuova industrializzazione,
- deindustrializzarsi, almeno parzialmente, in Europa,
- operare in joint venture con qualche operatore locale,
- pensare di servire consumatori diversi da quelli europei (e cioè milioni di consumatori caratterizzati da un reddito molto basso).
Quando poi il manager o l'imprenditore fossero riusciti a omologare un valido management locale potrebbero "tornare a casa" con la convinzione che l'impresa continuerà a competere parlando, magari, un'altra lingua, eventualmente, anche con altri soci, ma almeno con un futuro più sicuro.
Il vertice di un'impresa, generalmente, non ha nessuna voglia di delocalizzarsi, e, quindi, affronta il problema della globalizzazione terziarizzando una parte delle produzioni a fornitori localizzati in paesi in via di sviluppo, meglio se privi di una capacità autonoma di sviluppo. Per un po' va bene, ma si rinuncia al contributo creativo di partner di valore, che invece esistono in paesi di nuova industrializzazione, e che, prima o poi, "vestiranno" i propri componenti in modo da competere anche con prodotti finiti; in questi paesi, peraltro la domanda è già più robusta che nei paesi in via di sviluppo.
Se si presenta la possibilità di acquisire un operatore localizzato in qualche paese in via di sviluppo, si valutano in modo esagerato le opportunità derivanti dall'acquisto o dal controllo dell'impresa, pur di non dover affrontare il problema della delocalizzazione.
Questi comportamenti non sono, evidentemente, logici, ma per valutare le opportunità e i rischi conseguenti alla globalizzazione bisogna, prima di tutto, ricondizionare i propri schemi mentali; ciò può essere fatto andando a conoscere i paesi nei quali probabilmente emergeranno i competitors del futuro.
10. La gestione della Qualità
Degli strumenti dell'impresa moderna un discorso a parte, sia pur sintetico, merita il cosiddetto Total Quality Management. La Qualità totale è, oggi, una filosofia trasversale a tutte le funzioni aziendali (per questo motivo la indichiamo con la q maiuscola); essa è, infatti, la metodologia con la quale deve essere affrontata la vita in azienda.
Il concetto di Qualità ha subìto una grande evoluzione; nei primi anni '50, i giapponesi utilizzarono le teorie di Deming e soci per la ricostruzione della loro struttura industriale puntando, sostanzialmente, all'ottimizzazione dei processi di produzione. Particolare cura veniva rivolta ai controlli effettuati per ridurre il numero di difetti che si presentavano nell'arco del processo di produzione, dalla materia prima o dal semilavorato al prodotto finito.
In Italia, la Qualità diventa la parola d'ordine degli anni '80, quando le aziende si rendono conto che l'attenzione ai dettagli genera affidabilità e quindi vantaggio competitivo e iniziano a farsi certificare secondo le norme Iso 9000.
Mentre l'Occidente rincorreva i giapponesi nell'adottare i principi della Qualità, questi avevano posto gli obiettivi della Qualità più avanti, adottando il metodo di produzione just-in-time. Il metodo consiste in una procedura organizzativa in grado di consegnare il prodotto finito, prelevandolo direttamente dalla catena di montaggio, invece di mandarlo ad ampliare il livello delle scorte in attesa della vendita. L'industria automobilistica Toyota fu la prima a convincersi della validità di due principi: la Qualità resta un'arma competitiva molto potente, ma la possibilità di una consegna immediata di un prodotto ordinato quasi "su misura" può diventare fonte di notevole vantaggio competitivo.
La Qualità, subisce un'importante evoluzione e, oggi, abbraccia tutti gli aspetti operativi di un'impresa, si parla, infatti, di Qualità totale, ed essa non è più monopolio del sistema produttivo giapponese. Con l'evoluzione dei principi della Qualità, cambia anche il rapporto tra management e dipendenti: dall'organizzazione basata sul "controllo" del lavoro si è passati, oggi, al principio del "consenso".
Il Total Quality Management (Tqm), è una disciplina che, oggi, abbraccia l'intera organizzazione, dalle relazioni tra gli stakeholder, alla produzione; essa ha comportato l'immissione nell'organizzazione aziendale di gerarchie flessibili, lavoro di squadra, auto-regolamentazione dei lavoratori, utilizzo di strumenti per quantificare il successo e per realizzare un continuo miglioramento dei compiti e dei processi. Il Tqm dovrebbe essere l'obiettivo finale d'ogni impresa, che dovrà essere però consapevole che il processo d'attuazione richiede tempo, impegno e risorse.
È necessario sottolineare la situazione di ritardo dell'Ue rispetto ad Usa e Giappone nell'applicazione della Qualità come strumento di competitività dell'apparato produttivo. D'altra parte, non si può dimenticare l'importanza che ha avuto l'introduzione della Qualità nello sviluppo dell'impresa europea, specialmente dal 1994, quando è stata effettuata una prima importante revisione delle norme Iso.
Le esigenze poste dalla revisione del 1994 pongono, infatti, in evidenza quattro aspetti innovativi.
- Il baricentro passa dalla Qualità del prodotto alla Qualità dell'organizzazione.
- La Qualità non interessa solo la produzione, ma si rivolge anche al settore dei servizi, nell'accezione più ampia.
- Ci si è resi conto che nella logica per processi è necessario coinvolgere tutta la struttura degli stakeholder.
- L'attenzione si è spostata dal "sistema di Qualità" alla "gestione del sistema di Qualità", ponendo l'accento, quindi, più che sul controllo sul miglioramento continuo.
Dopo questa revisione delle norme, le imprese che non avevano colto il senso e il significato della Qualità e che avevano vissuto la certificazione come un fatto cogente che aveva richiesto l'introduzione di procedure e di burocratizzazioni, iniziano ad avere la percezione dei vantaggi ottenibili in termini di efficienza, efficacia, competitività e customer satisfaction.
È interessante notare che le nuove norme sulla Qualità (le Iso 9001:2000) stimolano, ancor più delle revisione del 1994, l'adozione dell'approccio per processi, come mezzo di facile identificazione e gestione delle opportunità di miglioramento delle imprese di produzione e di servizio. Per la prima volta, viene riconosciuto il ruolo centrale della leadership, non più chiamata a svolgere un ruolo basato su comando e controllo, ma investita di precise responsabilità.
La Qualità, rotte le barriere delle costrizioni, della burocratizzazione gestionale, della diffidenza del personale dirigente e operativo, è, oggi, a tutti gli effetti, uno strumento fondamentale per la competitività delle imprese.
In sintesi, giova osservare che la gestione della Qualità può, quindi, articolarsi in due modelli.
L'approccio "tradizionale", determinato da logiche di puro orientamento al presidio della qualità negativa (i difetti) del prodotto o del servizio, è sostanzialmente orientato a criteri di conformità (specifiche, norme, leggi, direttive) e di controllo (presidiato da funzioni specifiche, come il responsabile della Qualità).
L'approccio "integrato", più orientato alla soddisfazione degli stakeholder, si basa sui principi e sui meccanismi del Total quality management. Dai presidi e dai controlli del prodotto o del servizio ci si focalizza sulla gestione e sul controllo dei processi aziendali. I clienti diventano sempre meno consumers e sempre più prosumers, cioè richiedenti prodotti o servizi personalizzati; la Qualità è sempre più un modello di gestione dinamica e proattiva e sempre meno un requisito del prodotto o del servizio (Merli, 1999).
Per approfondire le caratteristiche che dovrebbero distinguere l'impresa moderna si rimanda al seguente successo editoriale: L'impresa in un mercato che cambia.
Bibliografia
Kotler P., Il marketing secondo Kotler, Il Sole 24 Ore, 1999.
Merli G., Nuovi paradigmi del management, Il Sole 24 Ore, 1999.
NOTE
- Secondo il cross-functional management della qualità totale giapponese.
- La lean production è stata introdotta dalla Toyota; è un sistema di produzione che impiega una modesta quantità di risorse aziendali, combina i vantaggi della produzione artigianale con quella di massa, consente di produrre un'ampia varietà di prodotti, impiega squadre di dipendenti multi-specializzati, è fortemente automatizzata, opera con un gran numero di sub-contractors, responsabilizza i lavoratori, che sono stimolati ad individuare eventuali anomalie nel processo di produzione. Alla squadra è affidato il compito della manutenzione di macchinari e impianti posti sotto la sua responsabilità.
- L'autore ha potuto osservare personalmente questo tipo di operazione, come direttore marketing di una grande impresa. I direttori operativi facevano carte false per favorire il trasferimento di propri collaboratori poco produttivi nei servizi aziendali, per poi fare battaglie tra loro per non farsi accollare il valore relativo del costo dei servizi.
Tratto da
Eugenio Caruso Come vincere le sfide della concorrenza. Le fonti del vantaggio competitivo Tecniche Nuove, 2003