I contratti aziendali possono far bene a imprese e sindacati.


Gran vantaggio del trono è che il popolo è costretto a sopportare, anzi lodare gli atti del re.
Seneca, Tieste

Per il governo Renzi sono filate lisce come l’olio, le due tradizionali assemblee annuali di fine maggio che sono termometro dell’economia nazionale, quella di Bankitalia e quella di Confindustria. Della prima, molti hanno scritto che è finita l’epoca di via Nazionale che fa le bucce ai governi. La seconda, a Milano per ribadire l’importanza di EXPO, non riservava in realtà sorprese. Perché Confindustria non ha fatto mistero nei mesi di considerare una vera benedizione insperata misure assunte dal governo come la rilevante decontribuzione fino a 8mila euro l’anno che, insieme al contratto a tutele crescenti, traina la rilevante sostituzione di contratti di lavoro in atto da marzo, riducendo quelli atipici. Sia pur con pochissima evidenza ancora di occupazione aggiuntiva.
La polemica su Renzi, che ha disertato ieri la platea confindustriale per recarsi a Melfi a ottenere il deciso sostegno di Marchionne, non coglie in realtà l’evidente dato di fatto. Sia la Fiat uscita 2 anni fa da Confindustria, sia la Confindustria in quanto tale, entrambe sostengono Renzi con più forza di quanto faccia qualunque altro soggetto economico-sociale del nostro paese. Ed è esattamente quel che non va per nulla a genio a un pezzo di sindacato, Cgil e Fiom, e a un pezzo di sinistra, dentro e fuori il Pd. Il sostegno delle imprese viene vissuto come una sorta di tradimento della missione storica della sinistra. Il che rappresenta la miglior conferma di uno dei migliori passaggi della relazione di Giorgio Squinzi a Confindustria, quando ha lamentato la tenace persistenza di un pregiudizio ostile all’impresa nella vita politica e pubblica del nostro paese. Anche nei provvedimenti di questo governo, ha detto Squinzi nella sua unica zampata critica a Renzi, riferendosi alle nuove norme sul falso in bilancio, ecoreati, all’IMU sugli imbullonati e via proseguendo: non si può dire che abbia torto.
Al di là del bilancino politichese, il rapporto Fiat-Confindustria con il governo Renzi da una parte e col sindacato dall’altra descrive il grande bivio di fronte al quale è l’economia italiana. Con 9 punti di Pil da recuperare sul 2007 e il 30% di investimenti in meno, tutte le stime serie convergono sul fatto che, malgrado euro e petrolio deprezzati e i tassi bassissimi, e pur in presenza di decontribuzione e Jobs Act, restiamo afflitti da un tasso di ripresa inferiore solo a quello di Cipro e Grecia, tornata in recessione. Sperare nel mega piano Juncker d’investimenti è affidarsi a promesse sulla carta, mentre l’Unione Europea è a un millimetro dal default greco. Con le maxiclausole fiscali da disinnescare nella prossima legge di stabilità, inutile pensare a un governo che tagli le tasse. Di conseguenza, resta da tracciare una via diversa proprio nelle imprese e sui posti di lavoro, per convergere insieme sul recupero di produttività, sul miglior utilizzo degli impianti, dei turni, degli orari e delle pause di lavoro. Incardinando su questi risultati misurabili, di efficienza, merito e produttività, il più degli aumenti salariali rispetto a quelli tradizionalmente definiti a livello centrale nei contratti nazionali di lavoro.
E’ su questa ragione, che avvenne tre anni fa la rottura tra Confindustria e Fiat. La prima crede ancora nei contratti nazionali, ma ha virato sempre più decisamente verso contratti aziendali integrativi. La seconda ha stipulato un contratto aziendale in deroga, che proprio ora diventa esecutivo con 600 milioni di euro di miglioramenti retributivi triennali, e con una parte mobile salariale – dovuta a indennità di obiettivi di efficienza per ogni singolo stabilimento, e di merito anche per singolo lavoratore – che prevale su quella fissa.
E’ venuto il tempo di sanare quella divisione. Per questo Squinzi ieri ha chiamato il sindacato a un grande round di confronto sulla contrattazione decentrata. Che accetti un tasso di salario variabile molto più spinto di quello sin qui praticato. Senza creder di poter applicare alle piccole e piccolissime imprese le stesse regole di quelle grandi o multinazionali. Ma contemporaneamente liquidando il vecchio rito centralizzato del contratto nazionale: che andrebbe lasciato a garanzia dei diritti e dei minimi retributivi, non del più degli andamenti salariali.
Esistono nella nostra legislazione contraddizioni arcaiche. Una di queste riguarda il welfare aziendale. Conviene alle imprese e ai dipendenti, accordarsi su misure aziendali che offrano al lavoratore mense, prestazioni sanitarie, asili nido e ciò che il welfare statale non offre. Per i lavoratori il vantaggio è evidente, e le imprese risparmiano fiscalmente rispetto al cuneo fiscale sulla retribuzione lorda. Ma il paradosso di questo “modello Luxottica” è che, secondo la vigente normativa fiscale, la piena deducibilità per il welfare aziendale si applica se viene concesso per unilaterale liberalità dell’impresa, ma non se è contemplato in accordi collettivi. Una norma che deriva da una parte dalla vecchia ostilità al “paternalismo” d’impresa, e dall’altra è figlia del timore pubblico di perder gettito.
Ma il punto centrale è quello che, legando salario e andamento delle aziende, investe frontalmente storia e struttura della rappresentanza sindacale da una parte, e d’impresa dall’altra. Un sindacato che accetti questa sfida sarà fatto di più rappresentanti aziendali che trattano i migliori contratti nelle loro imprese, e meno professionisti a vita delle segreterie confederali. Allo stesso modo, contratti aziendali e territoriali svuotano di significato le grandi associazioni settoriali nazionali di Confindustria, i loro direttori generali e funzionari, per spostare il baricentro sulle territoriali e settoriali locali. Tra le imprese manifatturiere della prima territoriale in Italia di Confidustria, l’Assolombarda guidata da Gianfelice Rocca, i contratti aziendali dal 2011 al 2014 sono passati dal 28 al 42% delle imprese iscritte.
E’ questa la strada da battere. La Cisl ieri ha risposto positivamente. La Uil è singolarmente ormai “doppia”. Da una parte in imprese come Fiat è decisamente e orgogliosamente in prima fila nella battaglia per le intese aziendali, dall’altra con Barbagallo alla segreteria nazionale sembra esser tornata a toni di decenni fa. La Cgil resta contraria a livello nazionale, tranne poi – va detto – trattare seriamente, fuori dai riflettori mediatici, in molte realtà territoriali e aziendali, soprattutto in settori diversi dalla meccanica (Fiom) ma talora anche lì. L’ostacolo, ripetiamo, non è solo tra i sindacati. Proprio a radio24 un imprenditore attivo nel settore dei call center raccontava come i suoi colleghi continuino a preferire i livelli bassi nazionali del contratto dei telefonici, rispetto a intese aziendali misurate prioritariamente sui livelli di qualità e valore aggiunto del servizio offerto alle imprese clienti.
Non è una rivoluzione facile da seguire per i media disattenti, non passa attraverso decreti legge e voti parlamentari. Può nascere solo dall’ansia condivisa di far meglio ciascuno il proprio mestiere. E dall’orrore condiviso – imprese e lavoratori insieme – verso degenerazioni che continuano ad avvenire. Come il caso di Davide Gabrieli, dipendente scolastico condannato a 2 anni di reclusione per aver sottratto 197 mila euro di fondi pubblici alle scuole che amministrava nel trevigiano, e licenziato perciò senza preavviso, come prescrivono le norme vigenti. Peccato che il giudice del lavoro di Treviso abbia deciso di reintegrarlo, e ora lo Stato gli dovrà pagare anche gli stipendi pregressi non versati. Ecco: non è questa la cultura dei diritti del lavoro di cui abbiamo bisogno, per la ripresa dell’Italia.


Oscar Giannino da www.leoniblog.it - 02-06-2015

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