Solone si oppose ad entrambi i partiti e pur potendo diventare tiranno, schierandosi con il partito di suo piacimento, preferì farsi odiare da entrambi salvando la patria e dandole ottime leggi.
Aristotele, La costituzione degli ateniesi.
In teoria, un liberal-libertario non può che essere soddisfatto della sentenza della Corte europea dei diritti umani. In pratica, non è proprio così. Cercherò di spiegare perché, sapendo che la materia divide e alimenta polemiche.
I giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per la violazione dei diritti di tre coppie omosessuali, e in particolare per l’articolo 8 della Convenzione europea: il diritto al rispetto per la vita privata e familiare. Ora tutti i 47 Stati del Consiglio d’Europa facenti capo alla Cedu (Convention européenne des droits de l'Homme) dovrebbero in teoria legalizzare l’unione tra persone dello stesso sesso, ma non per forza il matrimonio.
Che cosa significa, in concreto? Se guardiamo ai diversi paesi, la scelta è variegatissima. L’Italia, insieme a Grecia, Turchia, Cipro, Polonia, Bulgaria, Romania, Russia e Slovacchia, costituisce il gruppo dei paesi a minori tutele. Nei 4 paesi scandinavi, BeNeLux, Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo è previsto il matrimonio di coppie dello stesso sesso. In Irlanda, Germania, Austria, Cechia, Croazia, Slovenia, Ungheria, Svizzera e Malta, gli ordinamenti prevedono la tutela di “unioni civili” di diverse forme, distinte dall’equiparazione al matrimonio. Quanto ai diritti connessi, anche su questo l’Europa è un mosaico a colori. C’è chi garantisce adozione congiunta, riconoscimento dei figli del partner e fecondazione assistita nei matrimoni gay – Scandinavia, Islanda, Regno Unito, e Spagna – mentre nel blocco delle unioni civili i più avanzati sono Croazia, Slovenia e Malta, che prevedono sia l’adozione congiunta sia il riconoscimento dei figli del partner a chi è legato da una sola unione civile. La Francia ha sia unioni civili sia matrimonio gay, ma come il Portogallo non prevede adozioni, riconoscimenti e fecondazione assistita.
Chi qui scrive è un liberale libertario, di conseguenza evita lo scontro frontale che da anni divide il nostro Paese in due blocchi ideologici contrapposti. Dal mio punto di vista, iper-minoritario come si vedrà non seguendo bandiere di partito, le conseguenze della decisione di Strasburgo investono tre questioni fondamentali, che a questo punto la politica dovrà sciogliere in parlamento senza i rodei che hanno condotto a rinvii continui.
La prima questione riguarda il rapporto tra lo Stato e le persone. La seconda: i diritti. La terza: i costi.
Primo paradosso: per un libertario-liberista, è sacro il rispetto delle preferenze, identità, nature e gusti di genere, e delle convenienze economiche di ogni singolo individuo. Ma l’esito del processo che è in corso non è affatto una privatizzazione del matrimonio – per così dire – o dei rapporti di ogni altro tipo che gli individui vogliano liberamente porre in essere. E’ l’esatto opposto. Lo Stato diventa regolatore “a schiovere” di una panoplia di rapporti distinti e diversi, pretendendo per ciascuno di fissare regole e parametri, durate e rescissioni, tutele economiche sia reddituali sia patrimoniali, criteri di assegnazioni dei servizi sociali e via continuando. E’ l’esatto opposto della libertà individuale sognata dalla rivoluzione del costume incarnata dal movimento che rivendica parità e rispetto per ogni identità e scelta di genere. Ogni singolo tipo di scelta sarà infeudata a una griglia di definizioni statali. Direte voi: non c’è alternativa, nello Stato moderno. Non è affatto vero: basta anteporre la libertà di scelte contrattuali private, a cui riconoscere alcuni diritti fondamentali senza pretendere di dettare le regole per ciascuna di esse, si tratti di unioni di tipo amoroso, o di coabitazioni stabili per ragioni economiche. Se c’è un limite evidente nella battaglia pluridecennale per i diritti ai gay, è questa insistenza assoluta per la statualizzazione del loro riconoscimento. Sarebbe stato cento volte meglio approfittare del fatto che lo stesso matrimonio civile nel nostro ordinamento vede riforme che ne attenuano la tutela man mano che si va al divorzio express, per capire che la strada migliore era quella opposta: quella di meno e non più Stato per tutti. I privati stabiliscano contrattualmente quanti beni e redditi intendano condividere, quali strumenti finanziari a copertura o beneficio reciproco individuino, e lo Stato asssicuri il pieno rispetto “pubblico” delle libere intese. Solo la destatualizzazione del vincolo è libertà. A me, lo Stato che ficca il naso in camera da letto non piace (e nemmeno nei conti della spesa, ma su questo so che scattano reazioni immediate di altro tipo).
Secondo paradosso: i diritti. Ora sarà giocoforza decidere parlamentarmente un labirinto definitorio, sommando le istanze partitiche più diverse invece di compiere una scelta semplice e netta. Se esaminiamo lo stato attuale di elaborazione del disegno di legge Cirinnà, osserviamo che si dichiara di dover portare chiarezza nel riconoscimento di relazioni tra conviventi diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio. Ma poi si ricalca proprio la struttura delle disposizioni previste per il matrimonio, a cui segue la disciplina della convivenza di fatto, come legame a propria volta significativamente più debole rispetto a quello dell’unione civile. La convivenza di fatto è indicata più genericamente come persone unite stabilmente da legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, ma viene individuata rinviando alla “famiglia anagrafica”, includendo perciò anche rapporti non esclusivi ma carichi di implicazioni quanto a “diritti concreti” economici perché afferenti ad anziani soli, separati, disoccupati, sottoccupati, e via continuando. Oltre a questo, l’attenzione prioritaria data però alle unioni tra persone di sesso uguale determina gli espliciti rinvii normativi alla filiazione (in caso di morte del genitore naturale o adottivo unito civilmente con la persona dello stesso sesso), e si indica l’equivalenza, nell’applicazione delle disposizioni normative, tra “coniugi” e “unione civile”. Com’è evidente, o almeno a me pare così, in questo modo di procedere per giustapposizione normativa il rischio è quello di un’enciclopedia di Stato sui limiti e non sulla titela di ogni forma di libertà. E sorge un problema che, per me personalmente, non è questione religiosa, bensì civile ed economica: un paese a demografia negativa deve assolutamente tutelare i diritti delle libere unioni di ciascuno, ma non può e non deve dimenticare che la natalità nella famiglia naturale dovrebbe essere un patrimonio da riconoscere, tutelare e – oggi – da incentivare fiscalmente, invece di ostacolarlo come riesce selvaggiamente a fare il nostro fisco. Per questo resto curioso di capire come l’enciclopedia di Stato in arrivo comprenderà nelle sue fattispecie la famiglia “naturale” ex art.29 della Costituzione.
Terzo paradosso: chi paga? Qui entriamo in una terra incognita. Già mi è capitato di scrivere in presenza del divorzio express, che per conseguenza occorreva rivedere tutte le norme previste in precedenza per esempio sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, ammontate nel 2014 alla bellezza di circa 38 miliardi di euro. A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo cinque anni, almeno tre dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. E, in percentuali diverse, la pensione di reversibilità è ammessa per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento. Che vogliamo fare, estendere tali norme alle nuovi unioni una volta che ne prevediamo esistenza e tutela nell’ordinamento? Sommiamo alla reversibilità il diritto ai servizi sociali, alla sanità attraverso contributi individuali a copertura estesa ai componenti il nucleo riconosciuto, alle graduatorie per l’edilizia popolare e ai nidi e scuole materne? Si prevederà l’estensione dell’ISEE a unioni civili e convivenze anche meno forti? Un paese che da metà anni Settanta, per una sentenza della Corte costituzionale, ha abolito la famiglia naturale come unità di riferimento fiscale lasciando il contribuente individuale come unico soggetto d’imposta, farà convivere tale demenziale impostazione con un’estensione orizzontale e verticale di diritti economici incardinati su unioni diverse, ciascuna definita dallo Stato entro rigidi confini? A me sembrerebbe quanto meno molto discutibile.
Naturalmente, alla politica spetta risolvere al meglio ciascuno di questi problemi. Nessuno di essi è insolubile. Basta però adottare criteri chiari, perché sommando pezze a colori a scopi elettorali ne può uscire un caos che, oltre a essere discutibile per principio, è pure scassa-conti.
Oscar Giannino da www.brunoleoni.it - 23-07-2015