Prezzo del petrolio in picchiata


Se non poni la virtù su una base solida e stabile, come puoi pretendere che stia ferma sulle sabbie mobili?
Seneca, De vita beata


Due episodi, entrambi degli ultimi giorni, illustrano meglio di mille numeri le condizioni del settore petrolifero, afflitto da quotazioni del barile ostinatamente inferiori a 50 dollari: ieri un nuovo ribasso, che ha riportato il Brent a livelli che non toccava da gennaio (48,55$), quando arrivò al minimo da sei anni.
Il primo episodio riguarda la Sea King, una nave o meglio una gigantesca petroliera - categoria Very Large Crude Carrier (Vlcc), da 2 milioni di barili di capacità - che due settimane fa era salpata dalla Gran Bretagna verso la Corea del Sud, ma è stata improvvisamente rinviata al mittente quando si trovava al largo del Portogallo, con il suo carico di greggio del Mare del Nord: una storia non del tutto chiara, ma che non ha stupito i trader, perché se il respingimento di una petroliera resta un fatto insolito, capita ormai ogni giorno, in un mercato afflitto da un enorme eccesso di offerta, di vedere carichi di greggio che restano a lungo invenduti.
L'altro episodio arriva dagli Stati Uniti , dove dopo la stagione degli sconti Halliburton - uno dei colossi mondiali dei servizi alle società petrolifere - ha inaugurato quella dei pagamenti dilazionati: perfori oggi e paghi con comodo, chissà forse anche a rate. La società non ha voluto diffondersi in dettagli, ma ha confermato che era per questo tipo di politiche commerciali che aveva chiesto e ottenuto da BlackRock un finanziamento di 500 milioni di dollari: per difendere ad ogni costo il portafoglio ordine, andando in soccorso delle indebitatissime società dello shale oil, che dopo anni di soldi facili - anzi, facilissimi - stanno ormai perdendo il sostegno di banche e investitori. A loro volta i “fracker” non possono evitare di produrre a più non posso, spremendo il terreno fino all'ultima goccia pur di guadagnare qualcosa. In molti casi la bancarotta viene solo rinviata, mentre l'imperativo di perforare non fa che prolungare le condizioni di surplus che schiacciano il prezzo del petrolio.
La settimana scorsa - per la terza settimana consecutiva - il numero delle trivelle è aumentato negli Stati Uniti: ne sono state aggiunte 6 per la produzione di petrolio e 4 per il gas, secondo le statistiche di Backer Hughes. In totale sono 883, tuttora meno della metà dell'anno scorso. Ma la tendenza non è incoraggiante: secondo Jamie Webster, senior director di IHS Energy, bisognerebbe rimuoverne altre 200 per consentire alla produzione petrolifera Usa di diminuire di mezzo milione di barili al giorno, il minimo indipensabile, secondo la società di analisi, per poter sperare di smaltire l'eccesso di greggio sul mercato. Fino a marzo invece la produzione petrolifera degli Usa è cresciuta senza sosta, raggiungendo un record di 9,7 milioni di barili al giorno. Solo in maggio le statistiche governative hanno mostrato una diminuzione significativa, a 9,5 mbg.
Bisogna solo avere pazienza e aspettare l'arrivo di dati più precisi, ha dichiarato ieri Bill Thomas, ceo di Eog Resources, una delle maggiori - e delle più solide - società dello shale oil americano: «Vedremo declini di produzione significativi, mese su mese, nella seconda metà dell'anno».
Le condizioni finanziarie dei frackers stanno in effetti diventando sempre più precarie. E l'accesso al credito per molti è diventato proibitivo. Questa settimana il rendimento medio delle obbligazioni “spazzatura” del settore energetico è schizzato oltre l'11%, un livello stratosferico, superiore anche alle impennate dello scorso autunno. Per colpa delle petrolifere (ma anche delle minerarie, visto che il crollo delle materie prime è generalizzato), tutto il comparto high yield negli Usa ha raggiunto livelli di rendimento elevati, oltre il 7 per cento.
In luglio i junk bond energetici hanno perso il 5%, superati solo dal -8,6% del comparto Metals and mining: una performance negativa davvero da primato (solo le assicurazioni fecero peggio, nel maggio 2010). Sempre in luglio si è impennato - al traino, guarda caso, dell'energia - il ricorso al Chapter 11: a cercare protezione dalla bancarotta sono state in tutto 637 società, secondo Epiq Systems, il 77% in più rispetto a un anno prima e il massimo da tre anni. In tutto il mondo, segnala SandP, il mese scorso i casi di insolvenza sono raddoppiati: ci sono stati ben 64 default. «Il settore Oil and Gas è stato un grande driver», osserva la società di rating.

Il greggio Brent in un mese e mezzo ha perso circa 10 dollari per barile, scendendo sotto la soglia dei 50 dollari. Rispetto a un anno fa il prezzo è dimezzato e la recente ricaduta conferma come siano strutturali le condizioni di debolezza.
Diversamente dal passato, questa volta è chiaro: la causa principale della caduta è la finanza, in particolare quella americana.
Non si tratta dei soliti sospetti sui mercati a termine (futures), per i quali da sempre si discute, senza mai chiarire, dove finiscono le coperture assicurative e dove cominciano le speculazioni. Le prove, invece, riguardano l'enorme abbondanza di capitali che sono fluiti nel tessuto di imprese americane a partire dalla crisi del 2008, quando la Fed cominciò ad iniettare liquidità che poi portò i tassi di interessi vicino allo zero. L'entusiasmo per le nuove società che facevano la fratturazione assistita (fracking) ha contagiato tutti, come una moderna corsa all'oro. L'indebitamento è stato massiccio, e oggi con prezzi dimezzati, ci si chiede se è stata una bolla. Un anno fa si diceva che il costo marginale del greggio americano era fra i 70 e i 100 dollari, mentre oggi si parla di 30 dollari. Il numero di torri di perforazione (rigs), quelle che cercano nuovi giacimenti, è sceso da 1.900 a 800 in un anno, ma nelle ultime settimane è ritornato a salire, incremento che ha concorso all'ultima caduta dei prezzi.
Sta di fatto che la produzione di petrolio Usa dal 2008 ad oggi è salita di 4 milioni di barili giorno, oltre 9,5 vicino ai picchi assoluti dei primi anni 70. La dipendenza da importazioni petrolifere è così scesa ad oltre la metà di 10 anni fa. Proprio grazie al calo della dipendenza, il presidente Obama ha potuto mutare la politica estera in Medio Oriente. Pur di arrivare a un accordo con l'Iran, siglato lo scorso 14 luglio, si è disinteressato della reazione, finora durissima, da parte dell'Arabia Saudita. Questa, che ha spinto nelle ultime settimane ai massimi la sua produzione verso i 10,5 milioni barili giorni, non vuole fare posto al ritorno della produzione iraniana, attualmente ferma a 2,8 milioni barili giorno. Addirittura, per non intaccare le sue enormi riserve di quasi 700 miliardi di dollari e per rendere più sostenibile la sua strategia, sta ricorrendo a emissioni di titoli, sfruttando così proprio i bassi tassi di interesse. L'Iran è fermo a 2,8 milioni di barili, ma, dovessero le sanzioni essere tolte, cosa ancora tutta da verificare solo a fine anno, potrebbe velocemente aumentare di 0,5 milioni barili giorno e poi di un altro milione nel 2016. Impressiona sempre ricordare che nel 1979, prima della rivoluzione komeinista, la produzione di Teheran era di 6 milioni di barili giorno, con un obiettivo di 10-12 per superare i sauditi; nel frattempo la popolazione iraniana è più che raddoppiata a quasi 80 milioni di abitanti, la gran parte giovani, che hanno un disperato bisogno di esportare più petrolio.
Il 2 agosto del 1990 l'Iraq di Saddam Hussein invadeva il Kuwait; da allora il mercato petrolifero ha sempre risentito dell'assenza, o dell'instabilità, della produzione irachena. Negli ultimi mesi questa ha raggiunto nuovi record a 4,2 milioni barili giorno, anche questo un livello non toccato dalla fine degli anni '70. Finalmente, dopo 25 anni di stabilità, si intravede qualche risultato positivo delle dispendiose azioni militari Usa, da cui proprio Obama ha voluto uscire. Se non fosse che mancano circa 2 milioni di produzione della nostra vicina Libia, dove la situazione è disastrosa, i prezzi sarebbero più bassi di altri 10-15 dollari.
Rispetto al passato, quando era solo lo scontro Iran-Arabia Saudita a dettare le dinamiche di fondo del prezzo, oggi c'è anche la produzione dal fracking degli Stati Uniti a giocare un ruolo importante, prevalentemente, per nostra fortuna, al ribasso. Il sospetto che la finanza Usa abbia gonfiato i prezzi oltre i 100 dollari fino al 2014 è destinato a rimanere e rimarrà tale. Che abbia portato i tassi ai minimi, a vantaggio e che abbia inondato di capitali delle migliaia di aziende del petrolio americane, è una certezza. Ad essa occorre, una volta tanto, rendere merito, sperando che la bolla non scoppi.

EDITORIAQLE

28 agosto 2015


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