Non curatevi della fortuna, non le ho dato nessun' arma in grado di colpire l'animo.
Seneca, De providentia
Non è raro che in politica internazionale grandi e piccole potenze convergano su certe istanze o assumano comportamenti somiglianti. Federico il Grande, addirittura, aveva parlato di condanna all’espansione come effetto della ricerca di dominio, nel caso delle grandi potenze, e di sopravvivenza per le altre. Complementare a questa lettura è l’idea secondo la quale le medie potenze tenderebbero invece a essere degli attori appagati, promotori dell’uguaglianza tra Stati e del rispetto del diritto internazionale: lontane, insomma, dalle logiche della power politics e, forse per questo, in qualche misura isolate dal resto della comunità internazionale. Entrambe le tesi sono state strumentali rispetto a certe politiche estere. Tuttavia, la posizione centrale che i “mediani” occupano nella gerarchia internazionale determina effettivamente vincoli e opportunità peculiari, che sono di particolare interesse nel caso dell’Italia - media potenza per definizione, secondo la nota lettura che ne diede Carlo Maria Santoro all’inizio degli anni Novanta - e all’attuale ruolo geopolitico del Mar Mediterraneo.
Quando le potenze principali non hanno interesse o non si trovano nelle condizioni di intervenire dinnanzi a crisi come quelle che oggi solcano l’Africa dal Maghreb alla Libia e, attraverso il Mediterraneo si riflettono sull’Europa, il potere bilanciato dei mediani - forti a sufficienza da fronteggiare autonomamente minacce anche significative, ma non tanto da minacciare lo status quo - potrebbe costituire una risorsa rilevante per il sistema internazionale. Nella situazione attuale, perciò, l’Italia costituisce non solo l’avamposto dell’Occidente, ma il candidato naturale ad agire da stabilizzatore della regione mediterranea.
Il fallimento del disegno di Washington di creare un “Grande Medio Oriente” a partire dalla trasformazione dell’Iraq in una democrazia, l’eccesso di entusiasmo che ha accompagnato le prime fasi delle Primavere arabe e, soprattutto, la leggerezza con la quale alcuni paesi occidentali hanno deciso di sovvertire - per iniqui che fossero - gli assetti interni della Libia, rappresentano alcune tra le premesse della cosiddetta “emergenza migrazione” alla quale è legata la spaccatura umanitaria e politica lungo il fianco meridionale dell’Unione Europea. Dinnanzi ai migranti in fuga da miseria e violenza, il bisogno delle società europee di proteggere i propri livelli di benessere e sicurezza ha reso evidenti - ove già non lo fossero - i limiti materiali e ideali della politica estera di una cosiddetta potenza civile. Il principio di sussidiarietà, sempre invocato e davvero cruciale quando si parla di unione politica, si è infatti sgretolato all’erompere della polemica sugli aspetti distributivi e gestionali di questioni di natura a tutti gli effetti transregionale. Proprio la solidarietà europea verso i vicini e verso un paese fondatore come l’Italia è del resto svanita quando, per evidenti ragioni geopolitiche, sono venuti meno il vincolo atlantico e il supporto militare ed economico degli Stati Uniti.
In politica internazionale, giusto e utile coincidono raramente. Nel caso delle medie potenze, però, alcuni studi empirici hanno mostrato come che questa concomitanza contribuisca alla stabilità e alla sicurezza internazionali. Qualora l’Italia abbandonasse le recriminazioni verso lo scarso supporto di Bruxelles e affrontasse i problemi contingenti - i quali, va detto, si inseriscono comunque in un più ampio e durevole fenomeno di spostamento di individui e gruppi da certe aree del globo verso altre - attraverso una strategia autonoma, ossia nazionale, di controllo navale del Mediterraneo migliorerà infatti sia la propria sicurezza nazionale sia, indirettamente, il suo standing militare nell’UE e nella NATO. Una politica del genere, del resto, non porrebbe problemi di implementazione a governi di diverso colore perché coerente con i principi di pacifismo e umanitarismo sui quali si basa la narrativa strategica del paese dalla fine della seconda guerra mondiale: aspetto non secondario guardando alla sostenibilità della scelta nel medio/lungo termine.
La messa in sicurezza dei tanti chilometri di coste della penisola italiana non è comunque un tema nuovo, soprattutto perché legato a un fattore come la geografia prima ancora che alla specifica nozione di sicurezza emersa dopo la guerra fredda. D’altro canto - e va detto - ciò impatterebbe sull’ordine interno dello Stato anche più profondamente che in politica estera: in primo luogo, inserendosi nel complesso rapporto tra migrazione e organizzazioni criminali nel Mezzogiorno; secondariamente, perché le caratteristiche del complesso militare-industriale (dalle acquisizioni di mezzi all’addestramento del personale) andranno definite coerentemente con lo scopo di un efficace pattugliamento delle acque di rilevanza strategica.
I comportamenti degli Stati Uniti e dell’UE lasciano all’Italia il margine necessario ad assumere l’iniziativa nella regione. Proprio per questo, però, è opportuno domandarsi se anche sul versante interno il contesto sia altrettanto favorevole. Che posizione occupa, insomma, la definizione di una strategia marittima nell’agenda dei decisori politici italiani? A giudicare dall’ultimo Libro Bianco sulla Difesa pare marginale. Negli anni a venire, infatti, il potere aereo e l’integrazione dell’Italia in una certa dottrina di guerra tecnologica sono visti ancora come prioritari rispetto allo sviluppo di altri comparti delle forze armate. Il dibattitto non vede per ora emergere posizioni univoche e certo risulta molto complesso. Partire da un analisi obiettiva delle principali questioni di sicurezza che concernono la regione mediterranea è comunque essenziale affinché il processo decisionale produca scelte efficaci.
Ecco quindi allora alcuni criteri di massima per un’analisi razionale del ruolo che potrebbe avere l’Italia e della stabilità del Mediterraneo: anzitutto, prendere atto che questioni di sicurezza di cui le migrazioni costituiscono solo il punto apicale vanno affrontare in ultima istanza individualmente; secondariamente, guardare al Mediterraneo come al giardino di casa propria assumendosi quindi di necessità le responsabilità anche militari che ne derivano e, infine, indirizzare parte delle risorse economiche, sociali e cognitive del paese verso la costruzione di mezzi e infrastrutture navali in grado di incrementare da sé la sicurezza nazionale. Questa miscela politica pare infatti la via più promettente per portare l’Italia non fuori dall’Europa, ma – attraverso il perseguimento dei suoi interessi di media potenza, di penisola e di Stato mediterraneo – al centro di una rinnovata rete di relazioni diplomatiche, economiche e culturali nella regione.
Marco Valigi da www.aspeninstitute.it - 2 ottobre 2015