Non può comprarsi a poco prezzo ciò che ha un grande valore.
Seneca, Lettere morali a Lucilio
Ancora una volta correntisti, obbligazionisti e azionisti si sono fatti ingannare da "banchette" che offrivani interessi fuori mercati: Cassa di Ferrara, Banca Marche, Banca Etruria e Carichieti sono state salvate nell'ultimo giorno valido prima del bail-in. Dal primo gennaio 2016, nel caso in cui una banca finisca in dissesto, a contribuire al salvataggio saranno chiamati in prima battuta gli azionisti delle banca, poi i detentori di obbligazioni subordinate e senior e, in ultima battuta, i correntisti. In quest’ultimo caso, tuttavia, il rischio riguarda solo la liquidità superiore ai 100mila euro detenuta sul conto corrente. Ad azionisti e creditori sarà chiesto un contributo pari all’8% del passivo della banca in crisi. Oltre, interverranno le banche tramite il Fondo di risoluzione. Fuori dal rischio bail-in ci sono invece i correntisti fino a 100mila euro, i possessori di covered bond, e i debiti verso dipendenti, fisco, enti previdenziali e fornitori.
Parte una "nuova" stagione, con un nuovo management, per le quattro banche salvate dal Fondo di risoluzione italiano con un'operazione senza precedenti architettata da Bankitalia e Mef, con il placet della Commissione Ue. Oggi la Cassa di Ferrara, Banca Marche, Banca Etruria e Carichieti hanno riaperto anteponendo al loro vecchio nome l'appellativo di "Nuova", a seguito di un intervento da 3,6 miliardi deliberata dal Cdm di domenica pomeriggio. Un'operazione a carico del sistema bancario nel suo complesso, che ad esempio costerà a Intesa Sanpaolo 475 milioni di euro. Intesa è uno dei tre grandi istituti (con Unicredit e Ubi) che ha garantito la linea di liquidità immediatamente necessaria per avviare il salvataggio, che viene remunerata "a tassi di mercato" e ha scadenza massima di un anno e mezzo. "Ogni banca farà la sua parte nella misura in cui verrà richiesta dalla legge", ha detto invece il presidente del Consiglio di sorveglianza di Bpm, Piero Giarda. "La solidarietà implica a volte di rinunciare a una parte del proprio potere d'acquisto a favore di iniziative che sono necessarie. Poi se si faccia volentieri o malvolentieri è un'altra cosa".
All'indomani della definizione del salvataggio, dunque, l'istituto guidato da Carlo Messina ha comunicato che la banca finanzierà il Fondo di risoluzione con 1,33 miliardi di euro di prestiti. Anzitutto Intesa Sanpaolo erogherà a favore del Fondo di risoluzione un finanziamento da circa 780 milioni di euro, corrispondente alla quota di pertinenza di un finanziamento complessivo di 2.350 milioni di euro, che verrà rimborsato a dicembre 2015 con i contributi che saranno stati versati al Fondo dal sistema bancario italiano da tutte le banche (che comprendono i 500 milioni a valere su quest'anno più l'anticipo delle successive tre annualità). Al Fondo di risoluzione verrà concesso un secondo finanziamento da 550 milioni, pari alla quota di pertinenza di un finanziamento da 1.650 milioni, con scadenza a 18 mesi meno un giorno, a fronte del quale la Cassa Depositi e Prestiti ha assunto un impegno di sostegno finanziario in caso di incapienza del Fondo. Questa è la parte di impegno che hanno assunto solo le tre banche maggiori. Quanto agli oneri del salvataggio, includono un contributo straordinario al Fondo pari a circa 380 milioni di euro ante imposte, che impatteranno sul conto economico del quarto trimestre, in aggiunta ai circa 95 milioni relativi al contributo ordinario per il 2015 già spesati nel primo semestre dell'anno.
L'operazione varata ieri dal Cdm, come ha rivendicato Palazzo Chigi, non ricorre "a soldi pubblici o obbligazioni e depositi", che sarebbero coinvolti dal 1° gennaio prossimo con il pieno dispiegamento della direttiva Ue sul 'bail-in'. In questi quattro casi, infatti, a subire le perdite sono gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati, con l'azzeramento del capitale eroso dalle perdite di bilancio e dalla svalutazione delle sofferenze (nella bad bank ne confluiranno 8,5 miliardi, ma svalutate fino a 1,5 miliardi): circa 700 milioni. La restante liquidità, come visto, arriva dal sistema bancario e in minima parte in forma di aiuti di Stato prevista una revisione della disciplina fiscale per le "nuove" banche risanate.
L'operazione, in sintesi, prevede la creazione di una banca 'cattiva', una 'bad bank', che ha accolto la parte in difficoltà delle quattro vecchie banche: i crediti in sofferenza hanno subito una massiccia svalutazione da 8,5 a 1,5 miliardi di euro in modo da agevolarne presto la vendita sul mercato, come ha specificato Bankitalia. I crediti "saranno venduti a specialisti nel recupero crediti o gestiti direttamente per recuperarli al meglio". La parte "sana" delle banche è finita invece nelle banche 'ponte', che sfruttano le risorse fornite dal Fondo di risoluzione: 1,7 miliardi per coprire le perdite, 1,8 per la ricapitalizzazione e 140 milioni per l'operatività della bad bank, che però non ha la licenza bancaria. I fondi vengono reperiti dal sistema bancario, che in cambio riceve agevolazioni fiscale sulle imposte differite. Le quattro entità rinnovate, senza discontinuità operativa con i vecchi sportelli, hanno tutte, alla presidenza, l'ex dg di Unicredit, Roberto Nicastro. Dai comunicati di Bankitalia emerge la prima fila di manager: in Banca Etruria con Nicastro c'è Roberto Bertola, a Chieti Salvatore Immordino, a Ferrara Giovanni Capitanio e nelle Marche Luciano Goffi.
Quattro piccole storie di crisi bancarie. Quattro piccole banche locali. Tutte salvate dopo anni di commissariamenti e cavalieri bianchi in molti casi annunciati e poi dissolti. Se le 4 vicissitudini sono piccole in sé, sono tutte insieme un grave problema per l'intero sistema bancario e per il Paese. E' stato necessario mettere sul piatto un intervento sul capitale dei 4 istituti che vale oltre 2 miliardi. Soldi necessari per evitare clamorosi fallimenti. Tutte queste 4 realtà locali hanno molti tratti in comune: dall'intervento dei commissari, alle inchieste giudiziarie ma soprattutto hanno in comune la genesi delle loro disavventure.
Quel filo rosso è per tutte una gestione quanto meno allegra e disinvolta del credito. Prestiti a piene mani spesso decisi dai vecchi manager in assoluta solitudine e dati a clienti non meritevoli o peggio ad amici degli amici. La «sana e prudente gestione del credito» come recita il dovere di ogni banchiere non era di casa in quelle banche.
Il caso di Banca Marche è eclatante. Crollata sotto il peso di un buco di 750 milioni di perdite che hanno portato al commissariamento, si è infine alzato il velo sulla gestione dell'ex direttore generale Massimo Bianconi e sulla miopia dell'ex Cda. Lo dice quell'esplosione record delle partite creditizie incagliate salite da 760 milioni del 2011 a ben 2,4 miliardi del 2012.
Già nel 2011 Banca d'Italia sanzionò Bianconi, il Cda e il collegio sindacale per carenze nei controlli interni. Un primo segnale che le cose non funzionavano a dovere. Poi interventi sempre più drastici con la richiesta di un passo indietro del banchiere e soprattutto il passaggio al setaccio dei bilanci con quei crediti per oltre 2 miliardi tenuti in bonis, ma in realtà incagliati. Dopo un lungo tira e molla Bianconi lascia ma il danno è fatto. Non tanto e non solo in quelle svalutazioni sui crediti per un miliardo nel 2012, ma nella mole di crediti a rischio che restano in pancia alla banca: 3,4 miliardi di prestiti malati e capitale eroso.
Stesso copione per Banca Etruria. Risale al 2011 la violentissima esplosione dei crediti malati, con la banca che comincia a fare pulizia seria con forte ritardo. E male. Solo i crediti deteriorati netti infatti passano da 1 miliardo del 2011 a 1,6 miliardi già nel 2013. E sono quelli al netto delle rettifiche che si cominciano a fare pesantemente solo a fine del 2012. I crediti lordi sono a quote molto più alte: sono nel 2013 arrivano a pesare per oltre 2,5 miliardi. Moltissimo per una banca che ha impieghi totali per 6,8 miliardi. Oltre il 30% del portafoglio è in condizioni di cattiva salute. Cosa fa il vertice dell'Etruria nel cui Cda siede il padre del ministro Boschi? Decide in qualche modo di contrastare la pericolantissima situazione della qualità del suo portafoglio, compensandola con un'incetta senza precedenti di titoli di Stato. Una vera e propria scorpacciata che attirerà dure critiche da parte di Bankitalia. La banca passa così dal detenere BTp da un valore già alto di 2,1 miliardi addirittura a quota 7 miliardi nel 2013. Il portafoglio titoli triplica in un triennio e finisce per valere da solo la metà dell'intero bilancio della banca di Arezzo. Nessuna tra le banche commerciali ha una posizione così rilevante. Tanto che Banca d'Italia interviene e impone al Cda dell'Etruria di vendere almeno 2 miliardi di quel portafoglio. Già ma a cosa serve quella manovra? L'effetto primo è di far fare alla banca ricavi da trading per tenere alto il margine d'intermediazione. Dal trading arrivano infatti solo nel 2013 ben 130 milioni di ricavi, un terzo di tutti i ricavi dell'istituto realizzati quell'anno. Senza quell'operazione bocciata da Bankitalia il buco di bilancio nel 2013 sarebbe stato di almeno 200 milioni e non di soli 74 milioni come scriveranno a bilancio i vertici della banca. Solo se tieni alti i ricavi comprando e vendendo BTp puoi dissimulare agli occhi del mercato le pessime condizioni del portafoglio crediti, che continua a deteriorarsi a ritmi più alti della media del settore. Si prende tempo, ma la pulizia diviene inevitabile e porta le perdite solo nei primi 9 mesi del 2014 a 124 milioni. Con il capitale sceso a poco più di 500 milioni, sotto la soglia di Vigilanza, e che vale solo un terzo dei crediti netti malati ancora da svalutare, l'Etruria appare di fatto sulla via del dissesto. Inevitabile il commissariamento.
Per Carife il dissesto è figlio di due operazioni immobiliari fatte a Milano con ingenti prestiti e ambedue collassate. Vien da chiedersi il perché di quella concentrazione di rischio e soprattutto perché abiurare alla vocazione di banca del territorio. I depositi erano dei ferraresi ma gli impieghi (pericolosi) correvano altrove.
Il parere di Oscar Giannino
Il decreto legge di salvataggio di 4 tra le banche commissariate da Bankitalia, salvataggio in fretta e furia prima che entrino in vigore le norme europee sulla risoluzione delle crisi bancarie, mi vede tra i pochi fortissimamente critici. Sono in assoluta minoranza, rispetto al coro di sostegno unanime con cui il provvedimento è stato annunciato. E tra chi critica, meno ancora coloro che lo dicono in pubblico, per non rischiare la berlina. Desidero allora spiegare alcune delle ragioni della mia forte opposizione.
Ci sono due modi per farlo: il più serio sarebbe una lunga disamina dei coefficienti perduranti di bassa patrimonializzazione del sistema bancario italiano – e in particolare delle banche di cui parliamo ora – quando dal 2008 era chiaro a tutti che il patrimonio obbligatorio e i buffer aggiuntivi di capitale per affrontare i rischi dovevano salire; nonché dell’esplosione dei crediti deteriorati nel sistema italiano (tutto, tranne che una sorpresa, in un paese iperbancocentrico e a forte conduzione del credito secondo logiche relazionali invece che di merito); nonché sull’improvvisa tardiva emersione di molti episodi di malagestio bancaria in tutta Italia, per anni misteriosamente non colti dal radar di decine e decine di ispezioni Bankitalia e poi affiorati quando la vigilanza diventava della BCE. Ma ci vorrebbe un libro: un estesissimo e argomentato libro sulle collusioni – purtroppo – degli azionisti bancari, della politica, e purtroppo anche del regolatore in questi anni. Che non riguardano solo Mps o la Popolare di Vicenza, ma tre quarti d’Italia.
Il secondo modo è andare dritti al punto, con poche affermazioni motivate ma di fondo, giusto per far riflettere chi ne abbia voglia. Su almeno sei enormi bubbole contate in questi anni, insieme, da sistema bancario e politici (e non smentite con la forza dovuta dal regolatore). Scelgo ora questa seconda strada.
Primo: il sistema più sano al mondo. Quante volte lo avete letto sui giornali italiani, che c’era un motivo di fondo perché in ITA non c’erano crisi sistemiche bancarie come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda: e cioè che avevamo i miglior sistema bancario del mondo? Non era affatto vero. Era vero che avevamo meno bolla immobiliare degli spagnoli e degli anglosassoni. Ma sommavamo rischio di credito e rischio sovrano, vista la crescente mole di titoli pubblici in pancia alle banche, e ancor più nel post 2011. E vista la perdita di PIL eravamo comunque condannati a una massiccia esplosione di NPL - non performing loans, prestiti non performanti - (oltre 200bn di crediti deteriorati oggi, oltre 340 se li valutiamo in maniera più realistica, sommando quelli che nei bilanci bancari non rientrano ancora nella definizione “ristretta”). In un sistema troppo poco patrimonializzato, con azionisti scarsi di capitale fresco da immettere, gonfio di costi fissi (mattoni e dipendenti) non brutalmente razionalizzabili nella crisi, con un margine d’intermediazione tendente a zero, ROE e ROI negativo. E regole non scritte ma diffuse, di troppo credito agli “amici degli amici”.
Secondo: le banche italiane non hanno bisogno di aiuti. Questa seconda bubbola è stata raccontata quando sono partiti i piani di salvataggio-ristrutturazione bancaria sotto l’ombrello europeo con fondi anticipati e vigilanza rigorosa comunitaria nel post 2011, come in Spagna. Già allora era evidentissimo che qualcosa di analogo, su scala minore forse ma di analogo, era necessario all’Italia. Ci fu chi riservatamente segnalò e argomentò l’esigenza ai premier Monti e Letta. In entrambi i casi, si decise di soprassedere. Quirinale e Bankitalia, oltre naturalmente all’ABI, non volevano scatenare polemiche di facile presa politica, sul fatto che i governi d’emergenza avrebbero rappresentato in Europa il nostro paese come gravato da un grave problema sistemico. Un errore grave, quello di aver messo polvere sotto il tappeto per evitare la sorveglianza europea: pagato da famiglie e imprese con la gravissima restrizione di credito ancora in corso. Errore la cui gravità è stata confermata quando, entrata in vigore la vigilanza comune Bce sui maggiori istituti nazionali, improvvisamente sono emerse sistematicamente debolezze patrimoniali, con la necessità di aumenti di capitale a raffica tra metà 2013 e 2014 e 2015, senza che per questo evitassimo di risultare con diverse banche a rischio comunque elevato negli stress test BCE.
Terzo: noi non siamo come i tedeschi, che salvano le loro banche violando le regole. Vero, i tedeschi hanno ottenuto con le ragioni della forza eccezioni serie per le loro scassate Landesbanken politiche, hanno fatto pasticci inenarrabili come con la fusione Commerz-Dresden, hanno continuato a far leve finanziarie suicide come in Deutsche Bank, oggi alla resa dei conti. Ma il motivo per cui l’Italia non ha mai alzato la voce a Bruxelles contro questi salvataggi preferenziali, fuori dal naso e dall’occhio di una sorveglianza europea, è ben diverso da quello raccontato sui media: il motivo è che al momento giusto ci riservavamo di fare la stessa cosa.
Quarto: il silenzio di un anno sulla bad bank all’italiana. Gli osservatori più scafati delle vicende creditizie italiane sapevano da inizio 2015, che Bankitalia-governo-Abi si muovevano a Bruxelles per far passare nel corso dell’anno una versione italica di aiuti al sistema bancario, per consentirgli di cedere gran parte dei NPL senza però farlo a prezzi troppo bassi cioè di mercato (perché se no, come al solito, sarebbero state necessarie ricapitalizzazioni….). E comunque prima che entrasse in vigore il comune meccanismo previsto dalla direttiva europea varata a seguito della crisi cipriota prima e greca poi, quella che entra in vigore il primo gennaio 2016 e che è conosciuta come bail-in (con il coinvolgimento, nella risoluzione delle crisi, primariamente degli azionisti, poi degli obbligazionisti meno tutelati, fino ai depositanti oltre i 100 mila euro). Ma, per 10 mesi, sui media il silenzio su questo tentativo è stato pressoché assoluto. Ogni tanto usciva qualche dettaglio sul coinvolgimento di CDP o addirittura di Sace. Tutti coloro che hanno fonti a Bruxelles sapevano che alla Commissione Europea si era esterrefatti, di fronte al tentativo italiano di usare aiuti di Stato quando ormai c’era la doppia cornice della vigilanza comune BCE sui maggiori istituti di ogni paese, nonché della direttiva bail-in. Puntualmente, il penoso tentativo italiano è andato a scontrarsi con un no scontato: che il MEF ha ammesso solo la settimana scorsa, con una secca nota che non dava altre spiegazioni sul merito vero delle proposte avanzate. E sui media è partito il coro imbeccato dal sistema bancario, contro “i burocrati dell’Europa che su permettono di obiettare all’Italia che non ha mai chiesto aiuti”.
Quinto: il silenzio sul monito europeo nella vicenda Tercas. Lo stesso silenzio è stato riservato alle dure obiezioni europee espresse 9 mesi fa all’intervento di salvataggio nella banca teramana operata coinvolgendo il Fondo interbancario dei depositi, con la pretesa che fosse uno strumento “privato”. Quell’intervento non era privato perché orchestrato da Bankitalia, privo di un valido conto dei costi-benefici comparato, tale da giustificarne il ricorso rispetto a un’operazione condotta invece sul mercato e con criteri di mercato, e inoltre il Fondo serve a tutelare i depositanti delle banche, non gli azionisti. Tutti noi che seguiamo le vicende bancarie abbiamo in mano il documento europeo: ma nessuno quasi ne ha scritto, e fino a 2 settimane fa i media italiani continuavano a ripetere che per le 4 banche su cui si interviene oggi si sarebbe adoperato il Fondo interbancario. Invece ora bisogna cambiare retrospettivamente anche il modo in cui si è operato in Tercas. Che pena.
Sesto: il pasticcio attuale. La collusione ABI-governo-Bankit solo negli ultimi giorni ha dovuto prender atto che l’errore di non aver voluto un intervento sistemico vigilato dalla UE nel 2011-2012 non ha costituito base per vedersi approvata alla fine una scappatoia “nazionale”, all’ultimo secondo utile prima dell’entrata in vigore del bail-in. Ergo l’Italia la settimana scorsa ha recepito di corsa il sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie – che era stato apposta ritardato fino all’ultimo – con un’apposita unità costituita in Bankitalia. Si dirà a questo punto: bene caro Giannino, hai comunque ottenuto quel che vuoi, azionisti e obbligazionisti subordinati sono colpiti nelle 4 banche in cui si interviene. Ma non diciamo fesserie: il punto è che traccheggiando per anni abbiamo alimentato all’inverosimile l’aspettativa di salvataggi per tutti, rendendo sempre più comatosa la situazione di molte banche che si trovavano in condizione-limite, e che non sarebbero giunte a questo se regolatori e politica non avessero alimentato aspettative impossibili. In ogni caso, il salvataggio degli istituti delle Marche, Etruria, Chieti e Ferrara avviene ora con una modalità che rispetta le regole nuove e comuni solo per modo di dire. Primo: gli aiuti di Stato restano, vengono quantificati in 400 milioni nello stesso comunicato immediato rilasciato della Commissione UE. E in ogni caso la valutazione dei NPL delle 4 banche è fatta ” a tavolino”, non dal mercato. Poiché poi il finanziamento annuale del fondo – 500 milioni a carico dell’intero sistema bancario – ancora non è disponibile poiché occorreranno mesi per le delibere di ogni istituto, ed ecco che allora sono alcuni grandi banche italiane a metter capitale nelle 4 banche ognuna divisa tra good e bad bank, e poi quando sarà il Fondo subentrerà. Ma avremo impegnato più di 4 annualità del Fondo che serve alla risoluzione di tutte le crisi bancarie italiane: cosa faremo per le altre banche commissariate da Bankitalia? E perché mai – se non per un obbligo “di sistema” ordinato da politica e Bankit – devono metter soldi in banche fallite che non si vuol far fallire chi, come Unicredit, ha dovuto ora ora varare il secondo piano industriale in pochi mesi con tagli e cessioni sanguinosi? Ma dove sta scritto che non deve fallire mai nessuna banca, neanche le banche più piccole ergo senza rischi sistemici nonché peggio amministrate? Perché domani si dirà che l’intervento è a spese zero per i contribuenti, visto che le banche recupereranno 1 dei 3,2 miliardi dell’intervento varato oggi attraverso gravi fiscali cioè appunto a spese dei contribuenti? E che segnale è mai quello odierno, verso le fusioni sinora bloccate da solite questioni territorial-politiche tra grandi popolari investire dalla (buona, per me) riforma voluta dal governo: non è ovvio che le frenerà ulteriormente? E verso le quasi 400 BCC, che anch’esse avrebbero bisogno di una vera e propria ondata di fusioni e ripatrimonializzazioni?
Si fa quel che si è deciso oggi per evitare la paura dei depositanti, si dice: l’Italia della ripresa non ne ha bisogno e deve evitarla a tutti i costi. Siete sicuri che sia così? Oppure è per evitare che la gente inizi sul serio a farsi i conti e a guardare i bilanci bancari, per capire dove mettere i propri soldi, e di quali azioni e obbligazioni bancarie disfarsi? Chiedetevelo, prima di liquidare le mie sei tesi come “fesserie liberiste”.
Oggi siamo a un altro capitolo di una lunga storia di errori e omissioni, bubbole e collusioni. Ripeto: il conto lo hanno durissimamente pagato imprese e famiglie. Mi rendo conto, è più facile dar la colpa all’Europa. Ma non sta né in cielo né in terra: la colpa è di un sistema collusvo che non ha saputo e voluto guardare in faccia alla realtà, e non ha preferito famiglie e imprese agli azionisti bancari, e ai loro intrecci troppo stretti con la politica locale e nazionale.
EDITORIALE - 23 novembre 2015