Privatizzare senza ambiguità


Forse che chiederai chiarimenti quando uno ti dice: rimedio alle offese è l'oblio.
Seneca. Lettere morali a Lucilio

Privatizzazioni in cambio di flessibilità. Se il governo Renzi davvero rimette mano al dossier privatizzazioni è una buona notizia. Dovendo tornare a dismettere proprietà dello Stato, sarebbe però opportuno farlo con meno ambiguità che nel recente passato.
Con Renzi primo ministro, lo Stato ha quotato in Borsa Poste Italiane e ridotto la sua partecipazione in Enel. Però non si può dire che Renzi abbia «privatizzato». L’idea stessa di privatizzazione presuppone il venir meno del controllo pubblico su una certa azienda: non è il caso né di Poste né di Enel.
La parola «privatizzazione» nasce negli Anni Ottanta, per descrivere una scelta politica letteralmente inventata dai governi della signora Thatcher. Se per settant’anni lo Stato si era dedicato a comprare imprese fondate e sviluppate dai privati, talora in ossequio a un disegno ideologico, talora semplicemente per scongiurare le ripercussioni di una bancarotta, per la prima volta le metteva sul mercato. Ci si era accorti che la proprietà pubblica era un fattore di burocratizzazione. Lo Stato padrone scongiurava per definizione il rischio di fallimento: e pertanto i gestori pro tempore delle sue aziende di tutto si preoccupavano, fuorché di rendere più efficienti i processi e di provare a fare innovazione. Le priorità erano altre: cioè rispondere ai bisogni della politica, si trattasse di assumere quelle persone o di aprire uno stabilimento in questo piuttosto che in quel luogo.
Negli Anni Novanta, il nostro Paese ha privatizzato molto, coi governi di centro-sinistra, ma non sempre bene. Talvolta abbiamo assistito a privatizzazioni finte: lo Stato cedeva sì il controllo, ma a una società a sua volta controllata, tipicamente la Cassa Depositi e Prestiti. La politica ha spesso mantenuto la quota di controllo. L’ingresso di azionisti privati ha comunque avuto effetti positivi, costringendo le ex partecipazioni statali ad adeguarsi agli standard di un’economia di mercato. Ma lo Stato azionista scoraggia chi voglia entrare in un certo settore e fargli concorrenza. Il privato teme un competitor che è di proprietà dello stesso soggetto che fa le regole del gioco. Per questo, le privatizzazioni italiane spesso hanno fruttato quattrini, ma non hanno creato quelle condizioni di concorrenza che preludono a maggior innovazione e prezzi più bassi per il consumatore (fa eccezione la telefonia, dove non a caso l’ex monopolista venne venduto integralmente).
È opinione comune che uno dei maggiori problemi dell’economia di mercato sarebbe l’eccessivo orientamento al breve termine. Le privatizzazioni a metà creano incertezza. Segnalano ai mercati che lo Stato ha bisogno di soldi, ma che non rinuncia all’idea di dettar legge sul futuro di un certo settore. È normale che pertanto attraggano azionisti interessati a profitti di breve periodo. Vendendo senza rinunciare a comandare, la politica chiama in soccorso proprio quei capitalisti che adora odiare.
È possibile che ricominci il solito film. Renzi vuole incassi da privatizzazioni per intaccare il debito, così che Bruxelles, rassicurata sulla serietà delle sue intenzioni, gli consenta di fare più deficit. È l’approccio del bulimico alla finanza pubblica: vomitare di mattina per abbuffarsi di sera, pesandosi prudentemente a mezzogiorno. Ci sono diete migliori.

Alberto Mingardi www.leoniblog.it - 21 marzo 2016

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