Chi ogni giorno ha saputo dare l'ultima mano alla sua vita non ha bisogno del tempo
Seneca, Lettere morali a Lucilio
In questo Sito ho illustrato spesso le opere morali di Seneca; ho tenuto per ultimo il De beneficiis perchè è l'opera di Seneca che ha avuto un gran numero di "recensioni", anche contrastanti; in questo articolo raccolgo, in parte, la voce dei vari "specialisti".
Scritto a partire dal momento del ritiro di Seneca dalla politica nel 62 d.C., il dialogo De beneficiis in sette libri è un trattato sul rapporto tra il dare e il ricevere e, contestualmente, sul criterio che deve regolare il comportamento e le relazioni tra gli uomini organizzati in società. Seneca lo individua nella voluntas o animus dandi beneficia, ossia nella ‘volontà’ o ‘intenzione’ di beneficare i propri simili. In questo concetto del dare beneficia il filosofo vede il motore di una società, quella imperiale, che egli ha voluto rifondare sul piano etico e politico quand’era precettore e poi ministro di Nerone, e di cui ora intende tramandare, quasi si trattasse di un suo personale beneficio alla posterità, i principi ispiratori.
Sebbene sia rilevabile soprattutto a partire dalla seconda metà
degli anni '80 un crescente interesse da parte degli specialisti per
il trattato Sui benefici di Seneca, lo studio pubblicato dalla Griffin (Miriam T. Griffin, Seneca on Society. A Guide to De
Beneficiis, Oxford University Press, 2013) risulta essere il primo a proporre un'esposizione organica e
completa di contestualizzazione storico-politica e filosofica
della complessa elaborazione teorica sviluppata da Seneca.
Con l'obiettivo di esaminare in dettaglio il De beneficiis,
l'autrice struttura l'esposizione in tre sezioni:
la prima, The
Subject-Matter of De beneficiis, presenta il tema dello scambio
di benefici e offre una contestualizzazione storico-filosofica;
la
seconda, Seneca's Treatise, fornisce un inquadramento
dettagliato del trattato di Seneca;
la terza infine, A Map of De
beneficiis, propone la sinossi di ogni libro del trattato.
La prima sezione ha il grande merito di allargare l'etichetta sotto
cui solitamente è catalogato il De beneficiis.
Rigettando il pregiudizio storico-filosofico secondo cui la
filosofia di età ellenistica e della prima età imperiale si
caratterizza per l'adozione di un punto di vista apolitico e
assume come oggetto privilegiato la morale, e mostrando
come si assista piuttosto a un allargamento del bacino dei
concetti attraverso cui si svolge la riflessione speculativa in tema
di politica, la Griffin presenta il trattato Sui benefici non solo
sotto il profilo di un contributo di etica pratica ma anche in
termini di teoria politica o filosofia politica. Il parallelo tra il De
officiis di Cicerone e il De beneficiis di Seneca mostra come,
sebbene entrambi i testi possano essere letti in termini di
continuità per il fatto di proporre un codice di condotta per le
classi dirigenti, lo sviluppo ulteriore della tematica dei benefici
in Seneca sia dovuto al mutato contesto del quadro politico e
all'inclusione del princeps nella dimensione di reciprocità che
dovrebbe caratterizzare la civilitas. La tradizione precedente
relativa alla trattazione sui benefici è analizzata con riferimento
a Senofonte, al corpus aristotelico e agli stoici più antichi. Viene
inoltre preso in esame anche il modo di esposizione della
tematica nella tradizione precedente, dove il tema poteva essere
oggetto di una trattazione autonoma oppure inserito in
trattazioni di questioni filosofiche più generali. Il De beneficiis risulta essere l'unico trattato pervenutoci facente parte della
prima categoria e per questo motivo risulta difficile prendere
posizione in merito all'originalità dell'opera. Tuttavia non è da
escludere uno sviluppo della tematica indipendente dalle fonti
greche in virtù del fatto che alcuni elementi in essa presenti sono
rintracciabili anche nel De ira e nel De clementia. La
connessione tematica tra questi tre trattati permetterebbe di
individuare una coerente e compatta dottrina
etico-sociale da parte di Seneca. Nell'ultima parte della prima
sezione Griffin analizza in modo puntuale la dinamica dello
scambio di doni come oggetto di trattazione filosofica in
relazione alle pratiche sociali dell'epoca. In prima istanza la
studiosa chiarisce che il fenomeno di cui Seneca tratta in termini
astratti non riguarda né il patronato né la dimensione degli
officia, in quanto la dinamica descritta mira anzitutto alla
continua instaurazione e creazione dei rapporti sociali piuttosto
che al semplice mantenimento degli stessi in maniera gerarchica,
e inoltre risulta funzionale all'orizzontalità delle relazioni stesse.
Griffin esamina quindi anche l'impatto e la rilevanza della
riflessione senecana per la società del primo impero. Sebbene il De beneficiis si presenti come una trattazione astratta dove i
rapporti umani sembrano descritti in modo idealizzato, la
studiosa mostra come Seneca non solo descriva i rapporti sociali
ma ne delinei anche la possibilità di miglioramento attraverso
l'esortazione alla modificazione della condotta individuale. L'inclusione nella
dinamica dello scambio di doni dell'imperatore, che può ricevere
benefici quali lasciti o eredità da parte dei cittadini, mostra
quanto la riflessione di Seneca sia radicata nel contesto in cui si
sviluppa: da un punto di vista teorico essa è l'adattamento di un
codice morale aristocratico di tipo repubblicano al contesto
imperiale, da un punto di vista pratico si mostra funzionale e
risponde all'esigenza di coesione sociale.
Nella seconda sezione l'autrice prende posizione rispetto al
trattato discutendone data, destinatario e titolo. Ne presenta
inoltre la struttura, la strategia pedagogica, il ruolo in relazione
alle altre opere filosofiche di Seneca e la fortuna fino al
Rinascimento. Dopo aver esposto un esauriente exursus circa le
difficoltà riguardanti la datazione delle opere senecane, Griffin
ritiene opportuno limitarsi a stabilire un lasso di tempo
plausibile, quello tra il 56 e il 64 d. C., entro cui collocare la
stesura del De beneficiis. Quanto al destinatario, Aebutius
Liberalis, la studiosa rileva che non vi sono ragioni di dubitare
dell'effettiva esistenza del cavaliere romano e delle
caratteristiche di generosità attribuitegli dal filosofo che lo
presenta anche come exemplum. La sezione dedicata alla
spiegazione del titolo contiene interessanti spunti teoretici sulla
dinamica dello scambio dei benefici nell'ambito della filosofia
romana: la scelta della parola beneficium non è da ricercare
secondo l'Autrice nella carenza terminologica del latino che non
permetterebbe la resa dell'equivalente greco di charis, ma
piuttosto nel fatto che Seneca intende sottolineare la rilevanza
dell'azione e dell'intenzione connesse con la pratica dello
scambio di benefici forzando l'uso corrente del termine e
spostandone il senso dall'oggetto di dono al soggetto donante.
La struttura del trattato così come presentata da Griffin emerge
con nitidezza e risulta costituirsi come segue: i libri I-III
indicano come dare, ricevere e restituire un beneficio; il IV libro
costituisce un inquadramento della tematica dello scambio di
benefici nell'ambito dei principi fondanti l'etica stoica; lo svolgimento della problematica nei libri V-VII,
presentandosi come simmetrica rispetto ai primi tre libri, ne
costituisce un approfondimento in quanto il livello teorico
dell'argomentazione filosofica presentato nel IV libro viene
ulteriormente sviluppato attraverso una serie di esercizi dialettici
che ne vedono l'applicazione alle casistiche e ai dilemmi morali.
Tale struttura rispecchia la concezione senecana dell'educazione
filosofica e ne rende trasparente l'intento pedagogico.
Griffin dedica un'ampia sezione del volume a
mostrare la corrispondenza di questo procedimento pedagogico
con quello presente nelle Lettere a Lucilio. L'Autrice rileva
inoltre come alcuni elementi della problematica dei benefici
siano ripresi da Seneca anche in altre opere, il che confermerebbe ulteriormente l'importanza
della tematica nell'ambito della riflessione filosofica senecana.
Il breve capitolo relativo alla fortuna successiva del De
beneficiis mostra come esso sia stato recepito soprattutto nel
corso del XIII e XIV secolo come un trattato sulla generosità del
principe e sia stato centrale in ambito educativo.
La terza parte è costituita da una puntuale sinossi di ciascun
libro accompagnata da note esplicative che forniscono
approfondimenti di tipo terminologico, storico, sociale e
filosofico e permettono di seguire in dettaglio e agilmente lo
svolgimento argomentativo messo in atto da Seneca.
In sostanza la Griffin ha individuato nel De beneficiis una sorta
di chiave di accesso agli atteggiamenti e alle pratiche in uso nella società romana di età imperiale.
Quello che sostanzialmente la Griffin ha inteso dimostrare è che Seneca, in quest’opera,
lavorerebbe come una sorta di sociologo ante litteram che analizza comportamenti e modelli ben
consolidati all’interno dell’elite colta di cui egli stesso fa parte. Il punto è però che i testi che la
studiosa cita per individuare riscontri fra i modelli elaborati all’interno del trattato e le pratiche
sociali effettivamente in uso si riferiscono a un periodo successivo rispetto a quello in cui Seneca
scrive. Non solo dunque i comportamenti cui si fa riferimento potrebbero già essere stati segnati e
influenzati dall’opera senecana, ma per di più bisogna considerare che, laddove la Griffin ha
pensato a una mera rappresentazione degli usi dei Romani, sembra piuttosto che sin dalle
prime battute del primo libro dell’opera il tono che l’autore sceglie sia prescrittivo piuttosto che
descrittivo.
Se infatti si deve parlare di analisi di pratiche e comportamenti in atto in quella che è la
rappresentazione interna alla società coeva, quelli che Seneca sin dai primi capitoli
dell’opera descrive, più che modelli virtuosi, sono modi di agire non funzionali ai quali, tramite la
riflessione filosofica, è necessario porre rimedio:
"
tra i numerosi e diversi errori di coloro che vivono alla leggera e sconsideratamente, direi, mio
ottimo Liberale, che ce ne sono due tra i quali non si può fare distinzione: il non saper dare e il
non saper ricevere benefici".
La messa in risalto degli errori apre immediatamente uno spazio che di
fatto giustifica l’esistenza stessa dell’opera:
"Bisogna insegnare agli uomini a donare di buon animo, a ricambiare di buon animo e a proporre
a se stessi questa grande gara: coloro che hanno degli obblighi di riconoscenza devono non solo
eguagliare materialmente e come disposizione d’animo, ma superare il benefattore, perché chi
deve ricambiare un beneficio non vi riesce mai, se non restituendo più di quanto ha ricevuto;
agli uni bisogna insegnare a non rinfacciare niente di quello che hanno dato, agli altri a
considerarsi debitori più di quanto hanno ricevuto".
Lo spazio dell’insegnamento, dunque, riguarda non soltanto quello che Rosa Rita Marchese ha
chiamato ‘lo scandalo dell’ingratitudine’, che si realizza ogni volta che un beneficato non ricambia
il dono ricevuto, ma l’atto stesso del donare. È infatti nel gesto fondativo del dare che Seneca
individua – in quella che doveva apparire ai lettori coevi come una vera e propria rivoluzione – il momento centrale del collasso delle relazioni. La soluzione proposta, in questo
senso, sta in una differenziazione binoculare delle prospettive di chi dona e di chi riceve, che si
devono regolare, in quella che si può definire come una vera e propria
‘riequilibratura del sistema’,
(il benefattore deve dimenticare di aver donato, mentre è solo il beneficato che se ne deve ricordare)
e su quella che Seneca stesso chiama la contentio honestissima, che si regola su un continuo rilancio
della posta del beneficium da parte di entrambi gli attori.
L'obiettivo polemico di Seneca è qui pertanto la dilapidazione infruttuosa che distribuisce a
casaccio senza tenere conto di chi riceve, vale a dire senza avere alcuna cura né della relazione che
si instaura con il beneficato né delle sue peculiarità o – per dirla in altri termini – della sua identità.
L’imperativo cui il filosofo mira consiste pertanto, dal punto di vista del benefattore, nel non
considerare il partner della relazione come una variabile indifferente. Si deve cioè uscire dalla
logica auto-centrata dello status di chi dona per apprendere come donare secondo modalità che non
siano meccaniche e, soprattutto, senza pretendere di ricevere qualcosa in cambio solo perché – senza alcuna accortezza – si è dato.
Se dunque, ad esempio, alcuni sociologi, come Marcel Mauss, hanno diretto tutti i loro sforzi
nell’illustrare l’universalità del meccanismo del dono o nel cercare di mostrare quanto il desiderio
di dare sia innato nella specie umana, Seneca sembra invece voler ribadire che la pratica
del beneficium deve essere necessariamente culturalizzata per potere innescare meccanismi
relazionali virtuosi. Il che significa, in altri termini, che, lungi dall’autorealizzarsi in maniera
naturale (e quindi universale), il dono si presenta come una pratica problematica che necessita di
una cura costante del proprio gesto, che può essere indifferentemente ora il gesto del ‘dare’, ora il
gesto del ‘ricevere’.
Il triplice obbligo di dare, ricevere, ricambiare, tuttavia, per Seneca viene presentato come un
oggetto complesso e dalla natura ibrida nella misura in cui si deve imparare a compierlo
spontaneamente. Secondo il filosofo, infatti, il contenuto della propria attività di praeceptor non è
semplicemente il dare, l’accipere e il reddere, bensì il libenter dare, il libenter accipere e il libenter
reddere.
Perché ci sia il beneficium, in altri termini, non è sufficiente la presenza dei tre momenti dello
scambio – che possono anche coincidere, peraltro, con i momenti dello scambio economico – ma è
necessaria anche la presenza di uno stato d’animo positivo che regoli l’alternanza delle
prestazioni e delle controprestazioni.
Detto in altri termini, il beneficium per Seneca non è un gesto naturale e irriflesso, né tanto
meno è la parte fissa di un rituale o di una cerimonia complessa; piuttosto è qualcosa che richiede
una compresenza paradossale di spontaneità (derivante dall’agire liberamente) e di riflessività (vista
come il risultato di un insegnare) che guidi tutti i momenti della relazione e dello scambio.
Una volta che gli attori sociali hanno imparato ad agire libenter, si può istituire, pertanto, la
contentio honestissima, vale a dire quella sorta di gioco a somma infinita in cui non è più possibile
– né desiderabile – realizzare ‘strategie di uscita’ proprio perché ogni momento della serie del dare-ricevere-ricambiare di fatto viene configurato come un rilancio e una riapertura della relazione. Se
infatti chi ricambia restituisce più di quanto ha ricevuto, di fatto chi riceve qualcosa in cambio di
quanto ha dato si viene a trovare ciclicamente (e virtualmente all’infinito) nella posizione del
beneficato riconoscente che si sente di conseguenza obbligato a diventare nuovamente
benefattore.
Perché si realizzi tale circolo virtuoso, tuttavia è necessario che
il dono venga completamente sottratto alla sfera economica venendo eticizzato e spiritualizzato. Il
punto però è che per Seneca la
natura intrinseca del beneficium, proprio perché contiguo al creditum, è fragile e dipende da fattori complessi di cooperazione fra il benefattore e il
beneficato.
Giova notare come, per spiegare come realizzare il beneficio perfetto, Seneca abbia spesso
bisogno di fare ripetuti riferimenti alla sfera economica. Esemplare è in tal senso il caso in cui, per invitare i suoi lettori a ‘scegliere’ i potenziali beneficati, si fa ricorso all’analogia
con il prestito da un lato e con la semina finalizzata al raccolto dall’altro:
"E non c’è da meravigliarsi che tra molti e gravi vizi nessuno sia più frequente dell’ingratitudine.
Ciò, secondo me, accade per più motivi. Il primo è che non scegliamo persone degne di essere
beneficate. Eppure, quando dobbiamo concedere un prestito, facciamo indagini sul patrimonio e
sulla vita del debitore, quando dobbiamo seminare, non gettiamo le sementi su un suolo troppo
sfruttato e sterile: i benefici, invece, più che darli, li buttiamo a caso".
Per di più, poco più avanti, si dichiara apertamente che il beneficium è un genus crediti:
"Sarei poi in difficoltà a dire se sia più turpe negare di aver ricevuto un beneficio o pretendere il
contraccambio; infatti, è un tipo di credito dal quale si recupera tanto quanto viene restituito
spontaneamente; dichiarare bancarotta poi è ignobile proprio per il fatto che, per liberarsi
dall’obbligo, non c’è bisogno di ricchezze, ma di una particolare disposizione d’animo; infatti,
considerarsi debitore equivale a contraccambiare il beneficio".
Applicando frettolosamente paradigmi antropologici alla lettura del passo appena citato si sarebbe
tentati di confermare l’idea in base alla quale nel mondo antico, e nelle società precapitalistiche
in generale, non sarebbe possibile distinguere la sfera dal dono da quella
dell'economia. Le cose, tuttavia, sono un po’ più complicate, dal momento che sappiamo per certo
che, già a partire dal IV sec. a. C., quando Roma diventa una potenza di primo piano nel
mediterraneo, si realizzano dinamiche che alcuni studiosi hanno paragonato a quelle contemporanee della ‘globalizzazione’ dei
mercati. Al di là delle analogie più o meno azzardate, comunque, c’è da dire che una delle
conseguenze di questo fenomeno consiste proprio nella giuridificazione, e dunque nella
tecnicizzazione, di pratiche, come quelle del prestito, del credito e del deposito, che prima erano
invece basate soltanto sul meccanismo di sanzione sociale regolato dalla fides e che, per l’appunto,
ritiene il dono come caratteristico delle popolazioni che «non sono ancora
pervenute al contratto individuale puro, al mercato in cui circola il denaro». Il dono sarebbe dunque, in una chiave per
molti versi evoluzionistica, una sorta di fase di passaggio dal cosiddetto ‘fatto sociale totale’ all’economia di scambio
monetario. Una inversione di tendenza rispetto a tale modello è però già in Polanyi, che ricorda come «in
realtà i debiti e le obbligazioni sono fenomeni primitivi che precedono l’esistenza dei mercati».
Il punto è però che laddove sarebbe facile vedere, sulla base di categorie lontane
dall’esperienza, dinamiche economiche analoghe a quelle contemporanee, in realtà, come è stato
mostrato recentemente, le categorie
e le matrici morali che i Romani stessi usavano – e manipolavano – per pensare le transazioni
contrattualistiche, creditizie e mercantili in genere erano proprio quelle dell’amicitia e spesso anche
della beneficentia. Non solo infatti l’accesso al credito poteva essere pensato come una forma di
beneficium, ma per di più poteva anche capitare che i faeneratores (chi prestava denaro) , ovvero una categoria di persone
che nella prospettiva del mos maiorum era particolarmente malvista, potevano, a determinate
condizioni (quando ad esempio permettevano dilazioni, o quando talvolta praticavano sconti sui
tassi di interesse), venire considerati benefattori.
All’interno di questo spaccato, in cui i traffici, i commerci, le forme di trasferimento dei beni
e delle monete vengono pensate sulla base di un immaginario che somiglia molto da vicino a quello
di qualsiasi gift society, l’area del credito e l’area del ‘dono’ possono pertanto apparire spesso
come contigue e confinanti. Diventa pertanto interessante comprendere, in questo senso,
l’operazione che viene compiuta da Seneca.
Bisogna capire principalmente di cosa parla Seneca quando parla di creditum. Se
infatti nella sua accezione economica il nostro ‘credito’, che dal latino creditum deriva, è una
«operazione e rapporto di scambio tra due persone o enti, consistente nella cessione di un bene
presente, specie denaro, da parte del creditore, contro la promessa da parte del debitore di una
controprestazione futura o rimborso della stessa somma accresciuta di interesse», il termine latino
non sembra invece implicare immediatamente alcun rimando diretto all’idea di interesse, che invece
doveva essere presente in quel particolare genus crediti che era la faeneratio.
Anche se esiste un uso tecnico di creditum, pertanto, il termine veniva tendenzialmente inteso,
anche all’interno del corpus giuridico, come il participio passato del verbo credere, e dunque ora
come un sinonimo di mutuum, ora come una generica ‘posizione obbligatoria
attiva’. Se dunque Seneca definisce, benché solo metaforicamente, il beneficium come un genus
crediti, è soltanto perché in fondo entrambe le pratiche, quella del ‘dono’ e quella del ‘prestito’,
oltre che permettere la circolazione dei beni, sono di fatto regolate, in seno alla cultura romana, da
dinamiche di scambio che generano, sia pure in modo diverso, forme di obbligo.
Prendiamo in considerazione il seguente passo tratto dal secondo libro del De beneficiis:
"Talvolta anche la persona stessa che viene aiutata deve essere ingannata, perché riceva, ma
senza sapere da chi. Arcesilao, si dice, pensò di dover aiutare di nascosto un suo amico povero
che gli celava la sua povertà e che, pur essendo malato, non gli confessava che gli mancava il
denaro per comprare l’indispensabile; a sua insaputa gli mise un borsellino sotto il cuscino,
perché quell’uomo tanto pudico da danneggiarsi potesse trovare piuttosto che accettare ciò che
desiderava. “Ma come? Non saprà da chi ha ricevuto?” " All’inizio non lo sappia, se questa è una
parte essenziale del beneficio; in seguito farò molte altre cose per lui, gli concederò molti
benefici, dai quali capirà chi è stato l’autore del primo". “Ma alla fine non saprà di aver
ricevuto”; io, però, saprò di aver donato. “È poco”, obietti. " È poco, se tu pensi di dare a
interesse; ma se pensi solo di dare, darai nel modo che gioverà maggiormente a chi riceve. Ti
accontenterai di te stesso come unico testimone; altrimenti non è fare il bene che ti piace, ma
che si veda che tu l’hai fatto". “Voglio comunque che lo sappia”. Allora è un debitore che cerchi
[…]. "
Seneca sta qui discutendo della possibilità di erogare doni in segreto al fine di preservare la ‘faccia’
del beneficato. L’esempio di Arcesilao, in questo senso, è per certi versi un caso limite di gratuità
assoluta, dal momento che, non essendo il donatario a conoscenza dell’identità del donatore, di fatto
non sarebbe più possibile usare il dono come operatore della relazione, e dunque come input che
attivi o rinsaldi un legame, proprio perché c’è il rischio che, non essendoci ‘riconoscimento’, non ci
sia neanche ‘riconoscenza’ da parte del beneficato.
Ovviamente è proprio questo che appare problematico agli occhi dell’adversarius fictus, che
qui rappresenta le istanze del senso comune e che, in piena conformità rispetto ad esse, protesta.
Bisogna però notare che, come avviene nella maggior parte dei casi in cui viene utilizzato lo
stilema dell’interlocutore immaginario, Seneca tenta di arrivare a una sorta di mediazione con le
istanze da lui rappresentate. Il problema della comunicazione con il beneficato è infatti facilmente
risolvibile con la adsiduitas, e quindi con l’iterazione del gesto del dono. Il continuare a donare, in
tal senso, farà sì che gli oggetti o le prestazioni erogate in maniera ripetuta si trasformino in spie e
segnali che, una volta decifrati, condurranno necessariamente il beneficato a scoprire l’identità del
benefattore; il che significa che, una volta che ciò sarà avvenuto, diverrà di conseguenza possibile
che chi si trova nella posizione, tipica di chi riceve, accetti con maggiore facilità la
relazione con la fonte del beneficium, senza per questo sentirsi sminuito o umiliato.
Quello che sta facendo Seneca, in altri termini – per usare una terminologia lontana
dall’esperienza dei Romani –, è rendere edotto il lettore circa le dinamiche di quello che i teorici
della pragmatica della comunicazione chiamano ‘comunicazione analogica’, vale a dire tutti quei
‘movimenti di intenzione’ e ‘segni di umore’ che piuttosto che fornire asserzioni denotative sugli
oggetti e sullo stato del mondo, sono finalizzati a definire la natura delle relazioni.
Ebbene, come sottolineano Watzlawick, Helmick Beavin e Jackson, donare «è senza dubbio
una comunicazione analogica». Seneca, in questo senso, – in netto anticipo rispetto ai teorici della
comunicazione contemporanea – dimostra di essere del tutto consapevole del fatto che chi riceve un
dono, a seconda della relazione che lo lega con il donatore, può giudicare ciò che riceve «un segno
d’affetto, un tentativo per corromperlo, un modo per contraccambiare una cortesia o un dono che ha
fatto», o anche – appunto – una iniuria o una contumelia:
"La disposizione d’animo del debitore dipende da quella del donatore e per questo non bisogna
donare con negligenza: ciascuno, infatti, deve a se stesso ciò che ha ricevuto da chi donava
senza rendersene conto; e non bisogna donare con lentezza, perché in ogni favore è molto
importante la volontà di chi lo fa, l’aver donato tardi significa non aver avuto per molto tempo
la volontà di farlo; e soprattutto, bisogna donare in modo da non umiliare: infatti, poiché per
natura le offese subite penetrano più in profondità delle buone azioni ricevute, queste vengono
rapidamente dimenticate, mentre quelle vengono conservate tenacemente nella memoria, che
cosa può aspettarsi chi, beneficandoci, ci umilia? Si è abbastanza riconoscenti nei suoi
confronti, se gli si perdona il suo beneficio."
Il donare apertamente e pubblicamente, in questo senso, sebbene dal
punto di vista del valore economico dei beni erogati sia perfettamente equivalente
all’atto del donare di nascosto, di fatto cambierebbe senz’altro la natura della relazione fra il
benefattore e il beneficato, schiacciando irrimediabilmente quest’ultimo nella sua posizione di
inferiore e, appunto, di debitore.
Quello che Seneca vuole fare vedere, in altri termini, è che, se non si sta attenti alle dinamiche
‘analogiche’ della comunicazione attivata dai nostri gesti, un beneficio può facilmente trasformarsi
in creditum (o addirittura in usura) e il donatore di conseguenza può trasformarsi nel creditore di un
capitale simbolico, creando così nel beneficato quella che Rosa Rita Marchese ha recentemente
chiamato la ‘vergogna della dipendenza’. "
Dinamiche disfunzionali di questo tipo sono state osservate in molte culture da molti etnologi,
i quali hanno messo in evidenzia la natura ‘velenosa’ del dono. Il fatto che comunque il beneficio
possa presentare una cifra ambivalente, per Seneca, è dovuto tuttavia a quello che viene indicato per
certi versi come un suo statuto ontologico debole. Il beneficium, infatti, sulla base di quanto ribadito
nel corso del trattato, non vive di vita propria, né – come si è visto – si realizza automaticamente
con il semplice gesto del dare.
Perché infatti l’atto del ‘dare’ inneschi la gratia nel beneficato è necessario che vengano
soddisfatte alcune condizioni. La prima richiede che, in associazione con il bene velle che spinge il
benefattore ad agire, venga necessariamente attivata una consapevolezza autoriflessiva sulle
conseguenze ‘analogiche’ dei propri gesti; la seconda invece consiste in quella che potremmo
considerare come una sorta di autoreferenzialità del dare. Il dare in altri
termini, per Seneca, deve essere finalizzato a se stesso e – almeno dal punto di vista dell’attore
sociale che ‘si connette’ rispetto alla relazione – deve essere necessariamente sganciato dall’attesa
del contraccambio (e dunque dal ‘calcolo’ della reazione obbligata del beneficato).
Come si è visto, dunque, donare, per Seneca, non significa semplicemente ‘dare’ meccanicamente
qualcosa. Allo stesso tempo, però, anche l’atto del ‘ricevere’ viene sottoposto, per tutto il corso
dell’opera, a una rimodulazione che ci permette, anche in questo caso, di parlare di una sorta di
processo di culturalizzazione. Tutta la seconda sezione del secondo libro infatti analizza ed elenca le
corrette modalità per accettare i benefici e si concentra sul problema dell’opportunità o meno di
accettare a seconda di chi sia il donatore.
Ciascuno, ogni volta che raggiunge l’obiettivo che si era prefisso, coglie il frutto della sua
fatica. Chi concede un beneficio che cosa si prefigge? Di aiutare colui al quale dona e di fargli
piacere. Se ha realizzato ciò che voleva e la sua disposizione d’animo si è comunicata al mio
animo, provocando una gioia condivisa, ha raggiunto il suo scopo. Egli, infatti, non voleva
ricevere da me un contraccambio, altrimenti non sarebbe stato un beneficio, ma un affare. Ha
navigato bene chi ha raggiunto il porto stabilito; un dardo lanciato da una mano sicura ha
eseguito il suo compito se ha colpito il bersaglio; chi concede un beneficio vuole che sia accolto
con piacere: ottiene ciò che vuole, se esso è bene accetto. Ma sperava anche in qualche
guadagno: allora non è stato un beneficio, la cui peculiarità consiste nel non pensare affatto a un
contraccambio. Ho accettato ciò che mi veniva donato con la stessa disposizione d’animo con
cui mi veniva donato: ho contraccambiato. Altrimenti la migliore delle cose è nella condizione
peggiore: per mostrarmi riconoscente mi rimetto alla fortuna. Se non sono in grado di
contraccambiare, perché essa mi è avversa, la mia disposizione d’animo basterà per rispondere a
quella del donatore.
Quello che Seneca qui propone fra le righe, in linea con uno degli obiettivi principali dell’opera, è
un modello che sia agibile e praticabile e che permetta di svincolare la sfera dell’azione etica dal
piano aleatorio e irrazionale della fortuna (che è pensata come co-occorrente e connaturata rispetto
alla negotiatio degli affari e dei contratti). Come infatti il donatore non deve dare a caso (proprio perché altrimenti – come avviene nel caso dell’imperatore Claudio – i suoi doni sarebbero
da ritenere dati non da una persona, ma dalla sorte), allo stesso modo il fatto che il beneficato non
abbia bisogno dei beni materiali per potere ricambiare non solo è in linea con il processo di
eticizzazione e spiritualizzazione già attivato nel primo libro dell’opera, ma è anche un modo di
alleggerire la pressione sociale che il beneficium esercita nei confronti di chi si trova nella posizione del beneficato, e di dargli a sua volta la possibilità di diventare un attore responsabile e
che ha la possibilità, e la libertà, di ricambiare. Come scrive Francesco Sampino, infatti, per
Seneca,
sganciare […] il beneficium dalla contingenza socio-economica significava invalidare il
presupposto logico per cui ad assumere il ruolo del benefattore doveva essere colui che si
trovava in una posizione in qualche modo di superiorità. In questa critica sovrastrutturale il
beneficium, da privilegio classista o comunque correlato a una posizione di potere, che il
filosofo si preoccupa in ogni caso di moralizzare fugando gli spettri dell’usura e dell’eccessiva
prodigalità, diviene potenzialmente strumento neutro e interclassista in grado di cementare i
rapporti interpersonali e sociali.
Oltre che un meccanismo di liberazione del beneficato, tuttavia, il ricambiare il gaudium con il
gaudium – e quindi il rispondere con uno stato dell’animus analogo ad uno stato dell’ animus della
persona con cui si interagisce – significa anche assumere un atteggiamento di collaborazione e – dal
punto di vista della pragmatica della comunicazione – di ‘conferma’ nei confronti del donatore.
La cooperazione fra beneficato e benefattore, tuttavia, non si realizza soltanto al livello della
definizione della relazione e dei ruoli del benefattore e del beneficato (per dirla in termini di
pragmatica della comunicazione, un ‘ecco come ti vedo’ che risponde ad un ‘ecco come mi vedo’),
ma funziona, ancora una volta, come un contributo a non trasformare il beneficio in credito.
Quello che ne viene fuori è dunque un percorso di reciprocità che non si realizza in maniera
meccanica, bensì sulla base di dinamiche complesse di riconoscimento e di rispetto reciproci
come spesso accade nel corso dell’opera, viene personificata nella voce dell’interlocutore
immaginario per essere nello stesso tempo superata, paradossalmente, proprio per mezzo della sua
integrazione all’interno della cornice stoica:
“Ma come? Non farò tutto il possibile per contraccambiare e non cercherò il momento e le
occasioni opportune e non sarò impaziente di colmare di beni colui dal quale ho ricevuto
qualcosa?”.
A fronte dell’obiezione sollevata dall’adversarius fictus, Seneca non nega che al dono possa fare
seguito un vero e proprio controdono non spiritualizzato; nega tuttavia che lo scambio di oggetti o
di prestazioni possa avvenire senza che ci sia la co-occorrenza o addirittura la precedenza del
gaudium e del sentimento di riconoscenza (la gratia) rispetto al movimento di ritorno, infatti […]
«[…] se non è possibile manifestare la
propria riconoscenza anche a mani vuote, l’esistenza stessa di un beneficio è seriamente compromessa».
Quello che accade quando il beneficato riceve senza gaudium è che – anche se il benefattore
ha rispettato tutte le condizioni affinché il suo gesto sia letto come un beneficium e non come un
creditum – il dono perde il suo valore e ritorna ad essere una semplice negotiatio dai contenuti
brutalmente obbligatori.
Come si è visto perché il beneficio rimanga tale è dunque necessario che
l’interazione fra il beneficato e il benefattore non sia disfunzionale, e che – appunto – i due partner
cooperino affinché la relazione non si sposti sul versante spersonalizzante della proporzionalità
economica e dell’obbligo giuridico.
Il gaudium che accompagna il momento del ricevere comunque non basta perché
Seneca è del tutto consapevole di quanto la prospettiva possa risultare del tutto controintuitiva
rispetto ai modelli condivisi dal lettore, e proprio per questo introduce la persona dell’interlocutore
immaginario:
“Il mio voto non gli nuoce [scil. al benefattore]”, si obietta, “perché io gli auguro allo stesso
tempo il pericolo e il rimedio”.
La voce del senso comune guarda ai fatti e alle cose, senza tenere in alcun conto la dimensione
interiorizzata e intenzionale dell’animus e della voluntas. Ciò che conta per l’interlocutore
immaginario, in altri termini, non è tanto il processo, quanto l’esito finale.
La lezione senecana, comunque, consiste proprio nel problematizzare il modello dello
scambio di beneficia e nell’introdurre il principio dell’autoresponsabilità e della riflessività in ogni
singolo segmento della serie degli scambi, realizzando così un paradigma paradossale in cui diventa
possibile che chi non abbia contraccambiato diventi in realtà colui che veramente contraccambia e,
viceversa, colui che nei fatti ha contraccambiato in realtà non lo ha fatto perché non ne ha avuto
l’intenzione.
All’interno di questo modello controintuitivo la cura dei particolari è importante e nessuno
degli anelli intermedi della serie del triplice obbligo di ‘donare-ricevere-ricambiare’ deve essere
trascurato nelle sue implicazioni analogiche:
"Con ciò non dici di non avere colpe, ma di averne meno che se gli augurassi il pericolo senza
augurargli il rimedio. È cattiveria gettare qualcuno in acqua per tirarlo fuori, abbatterlo per
risollevarlo, imprigionarlo per liberarlo; non è fare il bene metter fine a un torto e non è un
merito liberare da un male che aveva provocato proprio chi l’ha fatto cessare."
Il desiderio eccessivo di ricambiare, dunque, viene esplicitamente bollato come un inhumanum votum che nasconde un moto interiore ben più inconfessabile:
"Prima di tutto, se io ti sorprendo a metà del tuo voto, tu sei già un ingrato; io non ho ancora
sentito che bene gli vuoi fare, però so che male vuoi che gli capiti [scil. al benefattore]. Tu gli
auguri preoccupazioni, paure e qualcosa di peggio. Desideri che abbia bisogno del tuo aiuto: e
questo è a tuo vantaggio. Non vuoi soccorrerlo, ma sdebitarti: ma chi si affretta così vuole
essere già libero, non liberarsi dal suo debito."
Seneca insiste particolarmente sull’uso del termine solvere, che indica, appunto, il desiderio del beneficato di liberarsi dalla relazione e
dall’obbligo. Tale desiderio tuttavia finisce per spostare il beneficium su un versante che non è più il
suo, dal momento che di fatto cambia il valore del vincolo che intercorre fra i partner.
Per comprendere il senso di questo mutamento potremmo citare la distinzione – divenuta
ormai classica – che Hirschmann fa fra le forme di legame che sono caratterizzate rispettivamente
da exit (vale a dire dalla possibilità di uscita), voice (ovvero dalla dimensione del dibattito e della
protesta) e loyalty (lealtà). Come la sociologia contemporanea unanimemente riconosce, la
possibilità di ‘uscire’ da una relazione caratterizza la sfera d’azione ‘contrattualistica’ del mercato,
laddove la voice e la loyalty sono invece tipiche rispettivamente dell’ambito dello Stato e, infine,
del dono.
Ebbene, se si applica questa prospettiva ai testi appena citati, si comprende come quello che
Seneca voglia dimostrare è che il desiderio eccessivo di ricambiare un dono colloca
automaticamente il dono stesso in un ambito che coincide – appunto – con la sfera di azione
impersonale, obbligatoria e anaffettiva, del creditum, in cui è necessario rispondere con
l’equivalente per sdebitarsi e, soprattutto, per troncare e ‘sciogliere’ una relazione che invece,
nell’ottica ideale della contentio honestissima, dovrebbe virtualmente perdurare all’infinito.
Come si è visto dagli esempi raccolti la riflessione senecana sul beneficium sembra mettere alla
luce una dinamica fortemente problematica e complessa da realizzare. Innanzitutto il dato che
pare balzare agli occhi consiste nel fatto che ciò che il filosofo romano propone non è tanto – come
ha pensato Miriam Griffin – una sociologia, e quindi una semplice descrizione di pratiche già in uso
nella upper class romana, quanto piuttosto un percorso di acculturazione, vale a dire – elemento
su cui forse sarebbe opportuna una ulteriore riflessione – una romanizzazione di un particolare
segmento di quella teoria ‘non indigena’ che era l'etica degli Stoici.
Tale acculturazione, nel mostrare dinamiche e ‘strategie’ controintuitive rispetto al senso comune della cultura romana, necessita di un
particolare spazio precettistico che, diversamente da come teorizzato da Mauss e dai suoi seguaci a
proposito del dono, non sembra assegnare alcuna naturalità al beneficium, che – paradossalmente –
diventa naturale e spontaneo solo quando è appreso per mezzo della pratica e dell'assunzione di
percorsi autoriflessivi riferiti sia al dare che all'accipere.
Un altro elemento estremamente peculiare sembra poi l'insistenza con cui Seneca ci
descrive un beneficium che viene rappresentato non solo come un oggetto ibrido e paradossale –
tratti, questi, che in fondo ricorrono, in relazione al dono, in molte delle culture studiate dagli
antropologi – ma anche come qualcosa la cui natura intrinseca è estremamente fragile e
metamorfica, proprio perché dipende da una serie estremamente complicata di variabili che sono
determinate dalla capacità che gli attori in gioco hanno di cooperare, di meta-comunicare
analogicamente sulla relazione e, in definitiva, di ‘riconoscersi’. Come si è infatti visto a partire dai
passi citati in questa sede, basta a volte un minimo errore – come ad esempio il desiderio eccessivo
di restituire – perché il beneficium collassi, ritornando così a essere assorbito dalla sfera
economica, coercitiva e anaffettiva del creditum e del debito monetario, sfera questa che – come si è
visto – gli studi più recenti di sociologia del mondo antico hanno descritto come estremamente
contigua rispetto a quella del dono.
Il beneficium, in altri termini, risulta essere un corpo che rischia sempre di non riuscire a
staccarsi da quella sua oscura ombra disfunzionale che è il creditum. Perché questo distacco sia
perfettamente realizzabile è sempre e comunque necessaria la luce dell’insegnamento
e la pratica di uno stoicismo che deve essere calato nella quotidianità delle pratiche
e che ad esse si deve adeguare.
13 aprile 2016
Eugenio Caruso