Si volge ad attendere il futuro chi non sa vivere il presente
Seneca, Lettere morali a Lucilio
L’industria agroalimentare italiana è uno dei settori più rappresentativi del made in Italy, non solo per il fascino da sempre esercitato a livello internazionale dal cibo italiano, ma anche per l’importanza economica del comparto. L’Italia infatti vanta la leadership europea nelle produzioni di nicchia protette da marchi come DOP e IGP e genera, anche grazie a queste attività, un valore economico complessivo di oltre 260 miliardi di euro (il 17% del PIL nazionale), con 3,3 milioni di addetti (il 13% dell’occupazione del Paese) e un export di 34 miliardi di euro.
Le eccellenze sono un ottimo punto di partenza, ma questo settore – come molti altri dell’economia nazionale – ha bisogno di maggior coordinamento e di crescita dimensionale. A tale scopo è necessario un investimento di sistema sui brand e sulle filiere più importanti, senza dimenticare di affrontare le sfide, i dubbi e le contraddizioni che attraversano l’industria. Il primo nodo da sciogliere riguarda la definizione di made in Italy, fondamentale per la sua tutela. Questa etichetta deve coprire solo i prodotti interamente realizzati in Italia o anche quelli che sono oggetto di trasformazione? Se norme più stringenti possono essere utili per proteggere i marchi dalla concorrenza sleale, non è nemmeno possibile penalizzare alcune industrie di trasformazione – si pensi ad esempio al caffè – fortemente associate con l’Italia e con lo stile di vita italiano.
Un altro problema da risolvere è come affrontare l’italian sounding dei prodotti stranieri: in alcuni casi questo fenomeno può essere una minaccia, ma – se opportunamente distinto dalla contraffazione vera e propria – si può trasformare in un aiuto per accrescere la desiderabilità dei prodotti italiani. Altro punto è, poi, l’equilibrio giusto fra produzioni a chilometro zero e alimenti destinati all’esportazione.
L’aspetto distributivo in ogni caso è determinante sia per risolvere le contraddizioni dell’industria agroalimentare italiana, sia per garantire sopravvivenza a un settore caratterizzato per la stragrande maggioranza (il 95% dei casi) da imprese medie o piccole. La mancanza di gruppi nazionali della grande distribuzione presenti a livello globale può essere uno svantaggio compensato solo in parte dai nuovi canali che si stanno affermando, come l’e-commerce. Per la vendita e la permanenza sui mercati internazionali è infatti fondamentale una certa massa critica o comunque un buon coordinamento fra attori piccoli e medi. La sfida del settore diventa così quella di recuperare le distanze con altri Paesi nella capacità sistemica di raggiungere i mercati più lontani, senza però penalizzare l’iniziativa individuale di tante imprese alimentari che negli ultimi anni ha contribuito al raggiungimento di importanti primati, ad iniziare dai recenti record nelle esportazioni di vino.
17 aprile 2016
Editoriale da www.aspeninstitute.it