Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi.
Seneca, Lettere morali a Lucilio
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Mentre la Gran Bretagna si appresta ad affrontare le sfide della globalizzazione concedendo ampie autonomie locali, il nostro Paese preferisce la strada della conservazione. Il 20 settembre 1997 i sindacati tengono due imponenti manifestazioni, a Milano e a Venezia, contro l’ipotesi secessionista della Lega; non sembra che esista una giustificazione razionale all’iniziativa sindacale, se non proprio quella che deriva da ciò che la Lega contesta al sindacato: di essere, cioè, un dinosauro al servizio della sinistra politica. I mesi di settembre e ottobre 1997 sono caratterizzati dalle bizze di Rifondazione che non accetta la legge finanziaria preparata dal Governo, al quale chiede una serie di impegni: non toccare le pensioni, portare per legge l’orario di lavoro a 35 ore, trasformare l’Iri in un’Agenzia per l’occupazione del Sud. Il 9 ottobre Prodi, constatato il “giudizio negativo” del Prc sulla Finanziaria, rassegna le dimissioni. Il 14 ottobre Scalfaro rinvia Prodi alle Camere, grazie all’accordo raggiunto tra Prc e Ulivo su un’ipotesi di legge che ponga il traguardo delle 35 ore settimanali entro il 2001.
Dopo la vittoria al Mugello, il centro-sinistra incassa un successo ancora più significativo alle elezioni amministrative del 16 novembre 1997: Rutelli, Antonio Bassolino e Massimo Cacciari sono eletti sindaci a Roma, Napoli e Venezia, al primo turno con maggioranze schiaccianti; la destra vince in qualche piccolo capoluogo di Provincia del Sud; la Lega si impone in piccoli Comuni pedemontani del Nord. A Roma si presenta come candidato anche D’Alema. Il suo staff lo ha infatti convinto che deve uscire dalle vesti del “deputato di Gallipoli”, che deve imparare a parlare invece che mordere, a sorridere invece che ghignare, e nel percorso “rieducativo” viene inserita la prova di cimentarsi a Roma contro Rutelli e Fini, personaggi carismatici e sicuramente vincenti. Il lavoro fatto sul miglioramento dell’immagine dà i suoi frutti anche se, come previsto, elettoralmente D’Alema viene superato da entrambi i rivali.
Il mese di dicembre 1997 vede una sollevazione degli agricoltori: produttori di latte, coltivatori di riso e olive, per motivi diversi, vedono le proprie aziende minacciate da gravi crisi. I nodi di decenni di disinteresse verso i loro problemi e le scandalose concessioni a suo tempo fatte dal ministro dell’Agricoltura Filippo Maria Pandolfi alle lobby tedesca e francese vengono al pettine. La grossolanità con la quale personaggi come Scalfaro, il ministro dell’Agricoltura Michele Pinto e il primo ministro Prodi affrontano la questione è manifesta anche ai non esperti. La stampa rivela l’endemica incapacità di una visione che non sia faziosa o ignorante dei problemi, e i “grilli parlanti”, come al solito, non sono in grado di apportare un minimo di ragionamento che consenta di chiarire quello che c’è da chiarire. Da parte del ministero degli Interni si tollera che i produttori di latte, in agitazione da più di un anno, siano manganellati e picchiati. L’unico vero telegiornale nazionale, Striscia la notizia, mostra i manganellatori in azione contro uomini e cose. Fuori dal coro è Arturo Guatelli che, sul Corriere della Sera, racconta la vera storia: «Non scarichiamo le responsabilità sulle spalle degli iniqui regolamenti di Bruxelles, non prendiamocela con l’avidità agricola della Francia o della Germania, non inventiamo nemici inesistenti: se gli allevatori italiani stanno assediando con i loro trattori la città di Milano, la colpa è tutta dei vari Governi, tecnici e politici, che si sono succeduti dal 1984 in poi. Sono loro che hanno fatto opera di disinformazione sistematica, che hanno scelto la strada della diseducazione civica, che hanno messo in ginocchio l’Italia agricola più efficiente, quella che produce latte […] Il sistema delle quote, che ha lo scopo di contenere la produzione europea di latte, risale al 1984. Quando fu negoziato a Bruxelles, ministro italiano dell’Agricoltura era Filippo Maria Pandolfi. Fu lui, scegliendo come anno di riferimento il 1983, ad accettare una quota annua di nove milioni di tonnellate. Lo fece basandosi su dati statistici forniti dall’Istat. Dati sbagliati per difetto, ma che il ministero dell’Agricoltura e le autorità di Bruxelles presero per buoni. Gli allevatori italiani e le loro rappresentanze sindacali, la Coldiretti e la Confagricoltura, capirono subito che era stato commesso un errore grossolano. Ma le loro proteste affogarono nel mare della più bieca demagogia ministeriale. Filippo Maria Pandolfi assicurò che le multe non sarebbero mai state applicate all’Italia, un Paese il cui fabbisogno superava di gran lunga la produzione. Arrivò persino a dire che c’era un “accordo tacito” per escludere l’Italia dall’applicazione di eventuali sanzioni dissuasive. Perché la Coldiretti e la Confagricoltura finsero di credere alle sconsiderate promesse di Filippo Maria Pandolfi? Questo è il punto di partenza di una brutta storia, un vero e proprio imbroglio politico-amministrativo. Una storia che ha messo l’Italia in condizione di perenne inferiorità quando a Bruxelles dovevano essere prese decisioni agricole. I nostri ministri, non tutti disinvolti come Filippo Maria Pandolfi, avevano sulla bocca una sola richiesta, l’aumento della quota latte. Gli altri settori, dall’olio d’oliva al grano duro, venivano puntualmente sacrificati sull’altare dell’irrisolvibile problema del latte. Nessuno voleva ritornare sulle decisioni del 1984 e l’Italia si isolava nel sottoscala di una battaglia disperata. Ma le insistenze italiane cadevano nel vuoto anche per un’altra ragione: i ministri dell’Agricoltura non sapevano offrire le garanzie necessarie per dare credibilità alle cifre che ogni anno portavano a Bruxelles. […] All’Unione Europea, i Governi italiani trasmettevano dati fasulli con l’illusione che il “falso di Stato” potesse trovare favorevole accoglienza. Questa situazione di ridicola precarietà ha avuto il suo fortunato epilogo nel 1993 quando, in seguito a una indicazione politica del Consiglio europeo di Lisbona, venne aumentata del 10% la quota latte italiana. La produzione autorizzata passava da 9 a 9,9 milioni di tonnellate. Ma questo aumento era sottoposto a una verifica annua. Se voleva produrre più latte, l’Italia doveva mostrare buona volontà amministrativa mettendosi alla pari degli altri Paesi dell’Unione Europea. Questo vincolo vagamente amministrativo non fece altro che mettere piombo sulle ali dei vari ministri italiani dell’Agricoltura. I quali passavano il loro tempo a combattere in sede comunitaria contro i tentativi d’abolizione della quota supplementare, ottenuta nel 1993, dimenticandosi che l’agricoltura italiana non è costituita unicamente dai produttori di latte. Nessuno, tuttavia, ha mai pensato che fosse opportuno informare la pubblica opinione promuovendo un dibattito parlamentare. Altra colpa grave, la redistribuzione dell’aumento di 900mila tonnellate. A Bruxelles si è convinti che di quell’aumento si sia in buona parte appropriata la cosiddetta “lobby del Sud” rappresentata prima da Adriana Poli Bortone, poi da Walter Luchetti, due ministri di AN improbabili, pasticcioni e competenti solo in teoria. In pratica, due ministri assolutamente inadeguati. […] E arriviamo alle multe. Per gli esuberi di latte prodotti negli anni 1991-1995 l’Italia avrebbe dovuto pagare circa 7.800 miliardi. Ha però ottenuto uno sconto del 50%. I rimanenti 3.900 miliardi devono essere rimborsati in quattro anni, quasi 1.000 miliardi all’anno. Lo Stato se ne è fatto carico rinunciando ogni anno a circa 1.000 miliardi di benefici comunitari. In pratica, per pagare le multe dovute alla sua insipienza politico-amministrativa, l’Italia è costretta a penalizzare altri settori economici, non solamente agricoli. Adesso, il sistema dello Stato che si sostituisce agli allevatori non funziona più. La Corte di giustizia del Lussemburgo ha statuito che a pagare le multe siano i produttori di latte non in regola, l’intervento dello Stato è un’inammissibile “distorsione di concorrenza”. Decisione inappellabile che mette il Governo italiano con le spalle al muro e spinge gli allevatori sulla via del fallimento» (Guatelli, 1997).
Gli italiani però in questo periodo, più che alle quote latte, sono interessati al rigurgito giustizialista, che questa volta ha colpito Andreotti. Lo si accusa non di aver contribuito, da primo ministro, a ingigantire il già vertiginoso debito pubblico, ma di collusione con la mafia e di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli. Il processo per mafia termina con la sentenza della Corte di Cassazione, che conferma quella della Corte d’Appello di Palermo, il cui dispositivo, alla lettera, recita: «La Corte […] dichiara non doversi procedere nei confronti (dell’imputato) in ordine al reato di associazione per delinquere a lui ascritto al capo A della rubrica, commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione; conferma, nel resto, la appellata sentenza». Per l’omicidio Pecorelli, nello stesso 2003 la Corte di Cassazione annulla la condanna a 24 anni inflitta a Giulio Andreotti e a Gaetano Badalamenti dalla Corte d’Assise d’Appello di Perugia. Anche questi processi possono essere archiviati tra le vicende rimaste con più interrogativi che certezze.
Al comitato centrale di Rifondazione Comunista del 3 e 4 ottobre 1998 si consuma la scissione tra cossuttiani e bertinottiani. Questi ultimi annunciano la volontà di togliere il proprio consenso al Governo. Cossutta, che è invece favorevole a mantenere in vita l’Esecutivo Prodi, parla di «mutazione genetica del partito», annuncia la scissione e fonda il Partito dei Comunisti Italiani. Nella notte dell’8 ottobre lo staff di Prodi si muove freneticamente per assicurare i numeri necessari; Arturo Parisi è convinto di farcela, ma il 9 ottobre 1998, per un solo voto di scarto, il Governo Prodi è battuto in aula. Il 13 ottobre Scalfaro annuncia in diretta televisiva il reincarico a Prodi; l’accordo che va concretizzandosi dietro le quinte è che Prodi rinunci all’Ulivo e faccia riferimento a tutte le forze che hanno approvato il documento di programmazione economica (e quindi anche a Cossutta e all’Udr). Ma Cossiga non si fida di Prodi e, per una questione formale, fa annunciare da Clemente Mastella l’opposizione dell’Udr (Vespa, 1998). Il 15 ottobre, mentre sta recandosi da Scalfaro per rimettere l’incarico, Prodi legge sulla Repubblica il seguente titolo: «Crisi. Tocca a D’Alema». Nella realtà, la prima reazione di D’Alema alle sollecitazioni di Franco Marini e Cossiga è negativa; teme, infatti, di entrare in un’avventura dalle prospettive incerte: si tratta pur sempre della prima volta di un ex comunista. Scalfaro convoca D’Alema per il 16 ottobre, e su suggerimento di Cossiga, i due trovano l’accordo sulla formula prudente del preincarico esplorativo.
Il 21 ottobre 1998 D’Alema è primo ministro della coalizione Ulivo, Pdci, Udr, Indipendenti (21 ottobre 1998-22 dicembre 1999), anche se non cattura simpatie né tra la gente né nel Palazzo. Ci sarà anche un D’Alema II (22 dicembre 1999-25 aprile 2000), necessario per farvi entrare i democratici. A livello politico, la sua coalizione è fragile, essendo costituita da un insieme casuale di anime, quella postcomunista, quella postdemocristiana, quella della Curia. La sua operatività è poi indebolita dall’attivismo dell’opposizione, che ha iniziato la propria campagna elettorale per le amministrative del 1998 e, dopo l’accordo tra Berlusconi, Bossi e Fini, per le regionali del 2000. Gli attacchi a D’Alema e al suo Governo da parte dell’opposizione sono duri, ma non quanto quelli di un vero signore, Nichi Vendola, che nella sua rubrica Il dito nell’occhio del quotidiano Liberazione, nel 1999 bolla D’Alema come «goffamente demagogico», «con una spocchia da statista neofita», «con la disinvoltura di un giocoliere», «livido come i neon del metrò». Vendola non risparmia le sue critiche neanche ad altri noti personaggi politici: il ministro Fassino «blatera scempiaggini cingolate e mortali», il sottosegretario Umberto Ranieri «parla come un caporalmaggiore della Nato», Antonio Di Pietro «ha una caratura mussoliniana,», Lamberto Dini è un «noto venditore di tappeti», Armando Cossutta è «l’ipocrisia eletta a scienza, a metodo, a progetto politico» e di Emma Bonino, commissario europeo agli aiuti umanitari in Bosnia, sostiene che «ama la guerra condita con le citazioni di Gandhi» (Pansa, 2011).
2 maggio 2016
Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.