La strage di Monaco del 1972 è stata rapidamente ascritta alla classe dei massacri adolescenziali: come quello compiuto da Anders Breivik, in Norvegia, lo stesso 22 luglio, ma del 2011, con 77 vittime. O come quello compiuto da Tim Kretshmer, il diciassettenne che nel 2009, vicino a Stoccarda, uccise 15 liceali con un fucile mitragliatore. Per non parlare di tutti gli episodi simili capitati negli Stati Uniti: dove le armi, possibilmente da guerra, sono molto più facili da ottenere che in Europa.
Se proprio volessimo rassicurarci, si potrebbe aggiungere che a Monaco l’emergenza è stata gestita professionalmente da forze dell’ordine già allenate a sventare in silenzio, come si dovrebbe fare, minacce simili. Anche gli errori commessi – bloccare i trasporti per ore e in un’intera regione, così amplificando inutilmente un crimine poi rivelatosi isolato – potranno essere corretti in futuro, quando si formeranno protocolli per l’emergenza migliori degli odierni.
Ma in realtà c’è ben poco di rassicurante in tutto questo. La verità è che stiamo lentamente imparando a convivere con il terrore: e lo facciamo per tentativi ed errori, come certi Paesi – per tutti Israele, sin dalla nascita – hanno fatto prima di noi. Günther Wallraff, l’autore di Faccia da turco (1985), osserva che «a mettere un’intera città in ginocchio» non è stato il diciottenne Ali Sonboly, poi suicidatosi, ma «un’isteria collettiva, di popolazione e social media», che ha creato un collegamento con l’Isis poi rivelatosi inesistente.
Walraff ne conclude che «dobbiamo imparare dagli israeliani, che vivono con una minaccia costante e non se ne lasciano governare. Tel Aviv è una delle città più vivaci del mondo, più di Berlino». Ma non sfugga il presupposto sottostante a questa conclusione. Contro il nuovo terrorismo, iniziato l’Undici settembre e messo in atto da terroristi suicidi, le misure di sicurezza possono servire al massimo a limitare i danni.
Non solo la sicurezza assoluta non esiste, ma l’unica cosa che può rassicurare i cittadini non sono le promesse dei governi, ma il calcolo delle probabilità: di fatto, ognuno di noi ha più probabilità di essere colpito dal fulmine che dal terrorismo. A conclusioni non più consolanti giungeva poco dopo l’Undici settembre lo storico Charles Townshend (Terrorism, 2002, trad it. del Mulino La minaccia del terrorismo, 2004). Alternative come la guerra preventiva contro l’Iraq, che ha generato l’Isis, servono solo a farci rimpiangere Saddam Hussein.
Naturalmente governi e politici, anche se si convincessero che dobbiamo imparare a convivere con il terrore, dovrebbero guardarsi bene dal dirlo: dopotutto, li eleggiamo per risolvere problemi, o almeno per fingere di risolverli, quando sono pressoché irresolubili. Governi e relative opposizioni, dunque, fanno benissimo a salmodiare il mantra della sicurezza. Del resto, potrebbero mai fare altro?
In un contesto mediatico che amplifica il problema sino all’isteria, peraltro, non sarebbe male se i governi distinguessero due piani di azione. Il primo è quello della risposta pubblica, rassicuratrice: controllo degli obiettivi sensibili, maggiore presenza delle forze dell’ordine sul territorio, ulteriori restrizioni al commercio di armi. Il secondo piano è quello della risposta silenziosa ed efficace: intercettazioni, infiltrazione di agenti, collegamento fra intelligence, azioni militari mirate…
Le misure del primo tipo partecipano al gioco mediatico e alle sue dure leggi: il terrorismo viaggia sui social media, e bisogna saperli usare meglio dei terroristi. Anche qui, però, servirebbe una professionalità nuova. Ad esempio, se si superasse la retorica dell’emergenza, e si ammettesse il carattere strutturale del nuovo terrorismo, si potrebbe persino cominciare a parlarne come dei disastri naturali: evitando la consueta caccia ai responsabili ed eliminando tutto il sovrappiù di panico e di odio.
Le misure del secondo tipo non possono sottrarsi al controllo democratico e giudiziario ma non vanno reclamizzate, nonostante i governi abbiano bisogno come il pane di successi spettacolari. Occorrerebbe, da parte dei politici o anche solo dei loro spin doctor, un aplomb e un senso di responsabilità di cui i vari «imprenditori della paura» in giro per il mondo, da Donald Trump in giù, sono la negazione diretta e puntuale.
Chiedere alla politica di dire la verità è evidentemente troppo. Pensare che il buonsenso si faccia strada in menti ottenebrate da Facebook sarebbe altrettanto vano. Ma il già citato Townshend ricorda che al dibattito vero su questi temi partecipano solo due categorie di persone: intellettuali e giuristi. Appartenendo a entrambe le categorie, mi viene spontaneo concludere che dire la verità tocca a noi. Con tutti i rischi d’impopolarità che ne conseguono.
Mauro Barberis
www.rivistail mulino.it - 19 agosto 2016