La Cina sta oggi affrontando molti dilemmi. Anzitutto, dopo trent’anni di rapido sviluppo, l’effetto marginale della crescita economica continua a diminuire. In secondo luogo, l’efficienza del sistema attuale non ha tenuto il passo con la crescita. Infine, lo sviluppo dell’economia e della società rende meno tollerabile il divario tra ricchi e poveri, come pure il più intenso conflitto tra ambiente e progresso economico. Questo è il riflesso della discordanza fra domanda e offerta sociale, cioè la discrepanza fra aspettative e risultati, che può avere ripercussioni sulla stabilità della società cinese. Le riforme sono una priorità per il governo di Pechino: è in gioco non solo il consenso politico interno al Partito, ma anche quello della società civile, del mondo economico e della comunità accademico-intellettuale.
In questo contesto, la cosiddetta “riforma dell’offerta” è diventata una priorità politica nazionale, emersa per la prima volta nel corso di una riunione del Gruppo centrale di Guida per gli Affari economici e finanziari presieduto dal presidente Xi Jinping, che si è svolta il 10 novembre 2015. In seguito, Xi ha parlato più volte di questa riforma, sia durante il vertice del G20 che nel discorso pronunciato in occasione dell’incontro dell’apec (Asian Pacific Economic Coperation).
Ma cosa significa in sostanza questa riforma? “Offerta” e “riforma” sono parole molto comuni, che in passato sono state utilizzate in molti rapporti ufficiali. L’espressione “economia dell’offerta” (supply side economics) sarebbe stata coniata dal giornalista Jude Wanniski nel 1975, ma secondo Robert D. Atkinson (l’autore di Supply Side Follies, il noto volume critico uscito nel 2006), venne usata per la prima volta da Herbert Stein, un ex consigliere economico del presidente Nixon. Il tecnicismo del concetto, come pure la sua cattiva traduzione in Cina, hanno creato qualche confusione man mano che questo si diffondeva nel paese.
Eppure ciò non ha fatto che aumentare la curiosità del pubblico. Il modo in cui espressioni straniere, specialmente in campo politico, vengono tradotte letteralmente in Cina, è molto significativo, anche quando ci sono piccole differenze. A volte le distinzioni del numero di parole o la loro disposizione possono implicare significati completamente diversi o importanti segnali di cambiamento. Ciò ha subito spinto funzionari, ricercatori, uomini d’affari ad analizzare immediatamente il nuovo concetto, in modo da non fraintendere la vera finalità principale della nuova strategia del governo.
Ancor più degno di nota è tuttavia un altro dibattito, suscitato dal crescente interesse per questo concetto neoliberista in relazione alla situazione attuale della Cina. L’economia dell’offerta è una teoria macroeconomica secondo la quale la crescita può essere stimolata maggiormente dagli investimenti di capitale e dalla riduzione delle barriere alla produzione di beni e servizi. Fin qui tutto bene. Ma Ronald Reagan ha fatto dell’economia dell’offerta un suo cavallo di battaglia, tanto che negli Stati Uniti i commentatori spesso la considerano sinonimo di Reaganomics, ovvero della dottrina neoliberista che mira all’indebolimento del potere del governo. Da cui la famosa frase dell’ex presidente americano: “Il governo non è la soluzione del nostro problema, il governo è il problema”.
Il neoliberismo, in effetti, è notoriamente associato con le politiche economiche introdotte non solo da Ronald Reagan negli Stati Uniti, ma anche da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, i cui sostenitori sono favorevoli a norme generali di liberalizzazione economica (come le privatizzazioni, le deregolamentazioni e il libero scambio) allo scopo di rafforzare il ruolo del settore privato nell’economia.
I fautori del neoliberismo in Cina avevano pensato che questa fosse un’ottima occasione per giustificare la sua applicazione alle particolari condizioni del paese e per potenziarne gli effetti sul mercato interno. Così, si erano schierati decisamente a favore delle privatizzazioni e delle deregolamentazioni. Avevano criticato le imprese statali, i mercati finanziari nazionali e gli interventi amministrativi, pretendendo che il mercato funzionasse secondo le proprie leggi e il potere della burocrazia venisse ridotto. E avevano creduto che l’adozione di politiche neoliberiste fosse l’unico modo per garantire lo sviluppo sostenibile del paese.
I suoi critici, ovviamente, la pensavano in modo del tutto diverso. Secondo loro, l’idea che tutti i sistemi esistenti dovessero essere sovvertiti non era soltanto assurda, ma anche pericolosa. Assurda, perché la Cina si era sviluppata rapidamente in un trentennio grazie a modelli e metodi propri, e questo aveva già dimostrato che il neoliberismo non era l’unica “regola aurea” dello sviluppo. Inoltre, molti paesi occidentali avevano sofferto crisi economiche e
finanziarie, provocate proprio dagli effetti del neoliberismo. I critici temevano
che la cosiddetta “economia dell’offerta” fosse soltanto un artificio proposto
con motivazioni sospette, il cui vero scopo era quello di ingannare le alte
sfere; tale ragionamento arrivava addirittura a ipotizzare che questa dottrina
servisse ad alimentare una cospirazione per rovesciare il governo.
Il 14 dicembre del 2015, il
Comitato permanente del politburo del Partito comunista cinese convocò una
riunione per analizzare e discutere la situazione economica nel 2016. Questa
fu la sua ultima riunione prima della Conferenza annuale sull’economia, e in
quell’occasione vennero anticipate le linee programmatiche per il 2016 che
la Conferenza avrebbe poi adottato. Tutti prestarono molta attenzione a quella
riunione, nel cui comunicato finale si parlava spesso di “offerta” (supply)
come pure di “riforma” e di “riforma dell’offerta”, mai però di supply side.
Letteralmente, in cinese, il senso era quasi lo stesso. L’aggiunta o meno del termine “side” non avrebbe dovuto determinare una vera differenza d’interpretazione. Se si tiene conto, tuttavia, della sottile semantica della lingua cinese, qualsiasi politica o concetto formulati dagli alti dirigenti del paese viene controllato e analizzato più volte, con molta precisione; per questo qualsiasi nuovo concetto o nuovo termine o parola mancante, specialmente nel caso di una parola chiave, fa in effetti una certa differenza.
Secondo le convenzioni degli annunci programmatici in Cina, ciò potrebbe indicare che il concetto di supply side non era pienamente appropriato e andava adattato. Ma, ovviamente, un nuovo concetto appena proposto non poteva scomparire in un tempo così breve, altrimenti l’autorità di chi lo aveva formulato sarebbe stata probabilmente indebolita. Qualche nuova formulazione, ancora in una fase preliminare di discussione, stava probabilmente per emergere.
In seguito, i massimi esponenti del governo tirarono le somme delle quattro giornate di lavori della Conferenza economica annuale conclusa il 21 dicembre del 2015: un evento molto importante perché avrebbe rivelato quale valutazione della situazione economica attuale del paese veniva data dai dirigenti cinesi e quale strategia e politica macroeconomica sarebbero state formulate e adottate l’anno successivo. Ci si aspettava, insomma, che fosse stabilito un obiettivo di crescita per il 2016. Prima della Conferenza, l’attenzione delle autorità si era concentrata sulle questioni economiche di portata nazionale. Durante i lavori, fu preso l’impegno di introdurre misure a sostegno delle riforme e dell’innovazione per garantire una crescita economica stabile nel 2016; dopo la Conferenza furono annunciate nuove strategie, nuove politiche e nuove formule.
Quando il messaggio della Conferenza fu trasmesso al pubblico, si scoprì che l’espressione preferita era ora “riforma strutturale dell’offerta” come innovazione decisiva per guidare e accompagnare lo sviluppo economico: una scelta dinamica per rafforzare la competitività su scala nazionale dopo la crisi finanziaria globale del 2008 e il presupposto indispensabile per adattarsi alla “nuova normalità” dei processi di crescita. La Conferenza aveva preannunciato una rapida riforma nel campo delle procedure burocratiche, degli investimenti, dei prezzi, dei monopoli, dei contratti di concessione (franchising), dell’acquisto di servizi da parte del governo e degli investimenti all’estero. Il processo di riforma sarebbe comunque rimasto sotto il controllo dello Stato, in modo da assicurare la continuità e la stabilità delle politiche macroeconomiche.
In effetti, la riforma dell’offerta può essere una riforma strutturale, e una riforma strutturale può essere una riforma dell’offerta. Ma in realtà molte persone, fra cui alcuni ricercatori universitari, come pure molti funzionari, non sanno che cosa sia l’economia dell’offerta, né la riforma dell’offerta, strutturale o meno che sia.
La politica non è mai semplice, né lo sono le persone e le cose a essa collegate. L’aggiunta dell’aggettivo “strutturale” indica una netta distinzione fra la politica cinese e l’originaria supply side economics, chiaramente vicina al neoliberismo. Questo è il primo passo fondamentale per rimuovere polemiche e sospetti sul piano ideologico. La “riforma strutturale dell’offerta” è in qualche modo un concetto nuovo in campo economico.
Il governo cinese ha sempre mirato al “progresso nella stabilità”. Qualsiasi politica dovrebbe pertanto contemperare questi due obiettivi poiché quando l’uno è incompatibile con l’altro, è destinata a fallire. Se tuttavia il significato di “progresso” è chiaro, quello di “stabilità” è piuttosto indistinto. Mentre il “progresso” può essere infatti misurato in base a indicatori quali il pil o l’indice dei prezzi al consumo, la stabilità può riferirsi all’ambito economico, a quello politico e sociale o anche a quello ideologico, il che aumenta le difficoltà di elaborare politiche adeguate.
Dopo un trentennio di rapida crescita, Pechino intende sempre aggiornare la sua peculiare teoria dello sviluppo con caratteristiche cinesi. E a questo scopo cerca di assimilare le teorie economiche “occidentali”, senza però copiarle. Anche qui siamo di fronte a un dilemma, perché le teorie economiche di successo hanno per lo più superato verifiche empiriche, ma possono anche evolvere e adattarsi alla situazione, che è sempre in mutamento. L’economia, insomma, dev’essere pratica mentre l’ideologia è per definizione più idealistica. Il mondo reale si trova sempre ad affrontare il problema di combinare l’aspetto pratico con quello idealistico, e questo è un dilemma particolarmente grave per un paese come la Cina di oggi.
La vera riforma “strutturale”, tuttavia, dovrebbe iniziare da una modifica della mentalità. Le riforme oggi riguardano innanzitutto il modo di osservare e di pensare: il predominio dell’ideologia, infatti, potrà anche accrescere i consumi, ma rischia di diminuire l’efficienza delle riforme e dello sviluppo.
Wan Zhe (capo economista della China National Gold Corporation).
www.aspeninstitute.it - 29 agosto 2016