Nel mese di aprile si è aperta una discussione su Il Sole 24 Ore riguardante la capacità dei capitalisti italiani, oggi, di rischiare. Ha aperto le danze un articolo di Cesare Romiti che ha lanciato i suoi strali contro le grandi società gestite dalle gerarchie manageriali. Romiti sostiene di preferire quel capitalismo familiare in cui è il proprietario dell'impresa che prende le decisioni più importanti.
«La verità - dice Romiti - è che nelle grandi imprese nessuno rischia niente. Tutti quelli che prendono decisioni incassano lauti stipendi e ricche stock option. Se le cose vanno male, al massimo sono licenziati, perdono lo stipendio, non un proprio capitale che hanno investito nell'impresa. Chi rischia di più, paradossalmente, è il piccolo azionista. E il concetto vale ancor più per le banche dove le fondazioni, che pure hanno il merito di aver permesso il riassetto del sistema bancario, sono autoreferenziali, non rispondono che a se stesse».
Oggi Romiti si trova un po' ai margini del potere finanziario. Messo in minoranza in Gemina, ha dovuto rinunciare alle leve di comando in Aeroporti di Roma (Adr), la più importante partecipazione della finanziaria. «Uscendo dalla Fiat, mi sono voluto cimentare in attività imprenditoriali investendo la liquidazione che mi fu concessa dopo tanti anni di servizio, ma, nel frattempo, mi sono accorto che solo accettando i compromessi con la politica si va avanti. Oggi, per esempio, non entrerei più in Adr. Così ora qualcuno potrà dire che nemmeno io sono capace di fare l'imprenditore».
Ma che cosa vuol dire essere imprenditore oggi in Italia? Per Romiti la distinzione è netta. «Nelle piccole e medie imprese c'è un azionista che tira fuori i quattrini e gestisce le scelte importanti. Guarda caso, quelle imprese funzionano bene. Nelle grandi ormai la figura dell'imprenditore non esiste più, gli ultimi a rischiare del loro sono stati Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli. I medi imprenditori a un certo punto smettono di crescere perché hanno paura di fare il salto, non vogliono scendere a compromessi con una politica che non rinuncia a essere invasiva».
«Si spiega così il patetico spettacolo offerto dall'establishment finanziario industriale politico di fronte alla prospettiva di uno sbarco degli americani di At&t e dei messicani di America Mòvil sul pianeta Telecom Italia. La crisi del capitalismo italiano è la crisi dei capitalisti. E quello che sta succedendo in Telecom deve far riflettere – sostiene Romiti - il sistema bancario si è assunto un ruolo di propulsore che non sa svolgere: non è quello il suo compito».
«Che cosa non ha funzionato nella privatizzazione della compagnia telefonica? Il nocciolino di azionisti stabili cui nel 1997 partecipò anche l'Ifil degli Agnelli insieme, tra gli altri, a Generali, Credit, Sanpaolo, Ina, AT&T e Unisource? La scalata di Roberto Colaninno e di Chicco Gnutti? La costosa acquisizione da parte di Pirelli e Benetton? Sono stati commessi tanti errori. A parte la fragilità del nocciolo, che era evidente, fu un errore, per esempio, cacciare Ernesto Pascale, un manager che in molti poi rimpiansero. Non si è mai capito se sia stato il presidente del Consiglio di allora Romano Prodi o il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi a pretendere la sua rimozione insieme a quella di Biagio Agnes. E poi Massimo D'Alema avrebbe dovuto usare la golden share nel 1999 per impedire l'Opa di Colaninno, tutta finanziata con i debiti che ancora gravano sul gruppo. Almeno Marco Tronchetti Provera e i Benetton dei soldi, pochi, ce li hanno messi. Più i Benetton che Tronchetti, per la verità.
E comunque a dar man forte al capitalismo nostrano arrivano sempre i patti di sindacato. La stampella che tiene in piedi un capitalismo che non esiste più».
Romiti non lo ammette, eppure i patti di sindacato, il mutuo soccorso del salotto buono della finanza erano l'arma vincente di Enrico Cuccia, il banchiere che è stato a lungo l'anima di Mediobanca e che aveva voluto proprio Romiti a capo della Fiat (ndr).
Sostiene ancora Romiti che anche nel caso Alitalia non si affacciano imprenditori italiani. «Preferiscono restare nel loro ambito dove sono bravi. Penso a Leonardo Del Vecchio o a Vittorio Merloni. Ma non fanno il salto anche perché hanno paura. Di che cosa? Di essere costretti a fare compromessi con la politica come è costretto a fare chi non rischia i propri soldi. E spesso sono gli imprenditori a chiedere la protezione della politica soprattutto quando si tratta di contrattare tariffe».
La risposta di Merloni non si fa attendere. Questo il suo commento.
Caro direttore, nell'intervista a Cesare Romiti, pubblicata su Il Sole 24 Ore del 15 aprile scorso, leggo il mio nome citato insieme a quello di Leonardo Del Vecchio come esempio d'imprenditori che «preferiscono restare nel loro ambito, dove sono bravi» e «non fanno il salto perché hanno paura di essere costretti a fare compromessi con la politica ». Ringrazio il dottor Romiti per il «bravo» che, bontà sua, mi attribuisce, ma mi sento in obbligo di fare, sull'argomento, qualche osservazione.
Anzitutto, mi riesce difficile comprendere quale «salto» Del Vecchio e io dovremmo fare, dal momento che Luxottica è leader mondiale nel suo settore e Indesit Company è numero due in Europa e quinto nel mondo. L'importante, per ogni impresa, è crescere nella propria dimensione di mercato. Ma non voglio limitare il discorso a due imprese; sono tante, Romiti ne sia certo, che raccolgono successi sui mercati mondiali e delle quali il Paese deve essere orgoglioso. La questione sta nei valori che ciascuna impresa applica nel suo operare. C'è chi si batte sul mercato aperto, sempre più globale, con le armi dell'innovazione e della qualità. C'è, invece, chi si preoccupa, con il sostegno della politica e delle istituzioni finanziarie, di procurarsi e di proteggere posizioni di rendita, in particolare nel mondo delle infrastrutture e dei servizi, e, in passato, anche nell'industria. È una distinzione che troviamo anche nel mondo del lavoro, tra chi sa che il suo posto si difende contribuendo alla competitività dell'impresa e del sistema, e chi lo percepisce come un'intoccabile rendita di posizione.
La mia impresa da più di trent'anni è costretta ogni giorno a convincere i consumatori ad acquistare i suoi elettrodomestici in Europa, in un regime di concorrenza che diventa sempre più aspro (e Romiti dovrebbe sapere che cosa significa la concorrenza cinese...); oggi produciamo 50mila pezzi al giorno e offriamo prodotti che consumano la metà di acqua ed energia rispetto a dieci anni fa: questo significa confrontarsi quotidianamente con la concorrenza, e rispondere alla sua sfida.
Nella mia carriera d'imprenditore ho avuto momenti di successo e momenti meno facili, ma compromessi con la politica non ne ho mai fatti, perché è mia ferma convinzione che l'imprenditore vero debba saper camminare, e imporsi sul mercato, con le proprie gambe. I compromessi cui allude Romiti, che tanti vantaggi hanno portato a taluni, che impropriamente si definiscono imprenditori e manager, hanno avuto come conseguenza di dover ora sopportare un sistema d'infrastrutture e di servizi che è il più caro e il più inefficiente d'Europa.
Nel 1985, la Confindustria aveva vinto la battaglia sulla "scala mobile" e aveva organizzato a Milano il "Convegno sul Futuro": c'era tanto ottimismo, tanti giovani, tante opportunità, tante premesse per fare le riforme e dare nuovo slancio al Paese. Prevalse invece la perversa alleanza tra politica, finanza e grande industria e perdemmo una grande occasione. Nel "Gattopardo", il Principe di Salina dice che l'Italia «è un Paese di aggiustamenti, non di rivoluzioni »; sarà anche vero, ma credo anche, nell'interesse del Paese intero, che il tempo degli «aggiustamenti» debba finire, e il più presto possibile.
Il 19 aprile Orazio Carabini mette a confronto le due tesi.
Sostiene Cesare Romiti (su Il Sole 24 Ore del 15 aprile) che la crisi del capitalismo italiano è la crisi dei capitalisti: non rischiano più, e quelli bravi come Merloni o Del Vecchio preferiscono "ritirarsi" nei loro settori perché hanno paura di dover scendere a compromessi con la politica.
Ribatte Vittorio Merloni (su Il Sole24 Ore del 18 aprile): «C'è chi si batte, come appunto Indesit o Luxottica, sul mercato aperto, con le armi dell'innovazione e della qualità; c'è invece chi si preoccupa, con il sostegno della politica e delle banche, di procurarsi e di proteggere posizioni di rendita, in particolare nel mondo delle infrastrutture e dei servizi e, in passato, anche dell'industria».
Fin qui le tesi di Romiti e di Merloni, in realtà, non sono proprio contrapposte. Ma il presidente della Indesit aggiunge che a metà degli anni 80 c'erano le condizioni per una svolta, soprattutto dopo il referendum sulla scala mobile del 1985. «Prevalse invece — conclude Merloni — la perversa alleanza tra politica, finanza e grande industria e perdemmo una grande occasione».
L'ex presidente della Confindustria non cita episodi specifici, ma non è difficile immaginare a che cosa si riferisca. Il bersaglio grosso sembra essere proprio la Fiat e il modo in cui, a quei tempi, ha scelto di stare sul mercato: la "tutela" di Mediobanca, gli accordi con i Governi del Caf (Craxi Andreotti Forlani), le modalità di privatizzazione dell'Alfa Romeo (anche l'americana Ford aveva fatto un'offerta all'Iri), la protezione dai concorrenti giapponesi. Vantaggi consistenti che tuttavia non hanno impedito al gruppo automobilistico di sfiorare il fallimento (con conseguente salvataggio) in almeno due occasioni.
Era anche l'epoca in cui le imprese private, nei settori delle costruzioni e delle commesse pubbliche, si spartivano gli affari con le imprese a partecipazione statale, seguendo regole codificate da un mondo parallelo di mediatori ufficiali e non. La concorrenza era un valore estraneo a quell'ambiente che fu travolto da Tangentopoli.
E il successivo periodo delle privatizzazioni ha portato a galla altre contraddizioni. Mentre si annunciava la liberalizzazione di importanti servizi pubblici (dall'energia alle tlc), i grandi gruppi privati tendevano ad accaparrarsi le posizioni di rendita degli ex monopoli. Gli Agnelli pensano di diversificare nelle tlc (Telecom) e nell'energia (Montedison), Carlo De Benedetti entra a sua volta nell'energia partecipando allo smembramento dell'Enel, i Benetton si buttano su autostrade e telefoni, insieme alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera. Tra gli investimenti piacciono anche le banche e i giornali che danno soldi e potere.
Sono tutti settori in cui il tasso di dipendenza dalle scelte politiche è elevato. La riscoperta del mercato e delle regole, che sembrava dover essere l'inevitabile prodotto di tangentopoli prima e delle privatizzazioni poi, rimane un'utopia. La barriera che prima divideva imprese pubbliche e private, ora divide le imprese che operano sui mercati aperti alla concorrenza internazionale da quelle attive nei settori protetti.
Merloni rivendica l'orgoglio delle imprese che non partecipano al gioco delle protezioni politiche: si può diventare un grande gruppo a livello mondiale senza compromettersi con la politica. La Fiat, che opera in un settore per molti versi simile a quello della Indesit, oggi ha scelto la stessa strada.
Quanto succede intorno a Telecom va esattamente in direzione opposta. A ogni cambio di maggioranza cambia anche la proprietà del gruppo telefonico perché le banche fanno venir meno il loro sostegno a chi aveva comprato a debito: Roberto Colaninno e Chicco Gnutti con l'appoggio del centrosinistra nel 1999, Tronchetti con il centrodestra nel 2001. Si ripropone quella «perversa alleanza tra politica, banche e grande industria» di cui ha parlato Merloni. Una melma da cui l'economia italiana farebbe bene a uscire al più presto.
Altre considerazioni in merito alla querelle
La vicenda Telecom ha indotto alcuni esponenti della coalizione di governo, non solo della sinistra radicale, a definire quello italiano un "capitalismo straccione". Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha parlato additrittura di "capitalismo impresentabile". E questo poiché sarebbe incapace o riluttante a mettere insieme una cordata di imprenditori nostrani per evitare a Telecom la stessa sorte già toccata nel settore delle tlc a Omnitel, Wind e Fastweb. Se guardiamo al passato, il Gotha dell'industria italiana non è stato esente da compromessi con la politica in taluni comparti o da collusioni fra affarismo e politica su altri versanti come ha rilevato Vittorio Merloni.
La definizione di "capitalismo straccione" non è peraltro inedita. Sennonché in passato la si era messa in campo per stigmatizzare un sistema economico chiuso a doppia mandata verso l'esterno, presidiato da forti barriere protezionistiche e assistito in vario modo dallo Stato, quale si era ereditato dall'ordinamento autarchico e corporativo del regime fascista. Tant'è che proprio queste tare originarie, ma date per congenite e imprescindibili dalla sinistra marxista, avrebbero finito, a suo dire, per determinare prima o poi la sclerosi del capitalismo italiano. Anche se poi, in seguito al "miracolo economico" e alla progressiva liberalizzazione degli scambi, l'estrema sinistra politica e sindacale non parlò più di un capitalismo cencioso, sorretto unicamente dalle stampelle dello Stato e dalle rendite di posizione sul mercato interno, essa non smise di sostenere che quello italiano fosse comunque l'anello più debole e vulnerabile del sistema capitalistico occidentale, in quanto lo considerava privo sia di salde fondamenta sia di concrete basi di legittimazione sociale.
Ma, se va riconosciuto che alcuni settori del capitalismo italiano non si erano affrancati del tutto dai peccati d'un tempo e altri ne avessero commessi di nuovi lungo la strada, per errori di valutazione (perdendo così il treno dell'elettronica) o per lotte interne di potere (come nel caso Montedison) è anche vero che la sopravvivenza di certi giudizi altrettanto impietosi quanto indiscriminati sull'establishment del mondo economico era dovuta a due ordini di motivi: da un lato, appunto, a un ostinato attaccamento a vecchi pregiudizi ideologici; dall'altro, alla refrattarietà, per motivi strumentali, a tener conto di una realtà di fatto ampiamente condizionata da vischiosità o da carenze di matrice politica allo sviluppo di un sistema più aperto e di adeguati capitali di rischio.
Non si poteva infatti deplorare, come pur era giusto in linea di principio, che le principali dinastie imprenditoriali si reggessero per lo più su relazioni fiduciarie infrafamigliari e su ristretti patti di sindacato (sotto la regia della Mediobanca di Enrico Cuccia), se nel contempo le coalizioni di centrosinistra badavano a mantenere, quando non a rafforzare, l'altra speculare armatura che blindava e teneva ingessata l'economia italiana (per non parlare di Coop, Mps, Unipol). Poiché, se si volevano eliminare certe "scatole cinesi" e sfrondare le ramificazioni di un sistema oligarchico, occorreva che lo Stato, a sua volta, rinunciasse a detenere, insieme alla proprietà di numerose aziende industriali e di servizi (ancorché non strategiche), pure il controllo dei principali istituti di credito. Su Alitalia e la decantata compagnia di bandiera è meglio alzare un velo di mestizia.
Quanto alla governance delle imprese, ancora agli inizi degli anni 80 l'unica novità consisteva nella riforma adottata nel '74, che aveva introdotto le azioni di risparmio e varato alcune misure intese a migliorare il livello qualitativo e quantitativo delle informazioni di bilancio. Ma non per questo si era giunti a garantire pienamente gli interessi e i diritti patrimoniali dei piccoli azionisti. Neppure si erano poste le premesse di un sistema più ampio e confacente di norme e strumenti operativi che agevolasse lo sviluppo di società finanziarie intermediarie e l'accesso al mercato di capitali. D'altra parte, come tutto questo sarebbe potuto avvenire quando una gran massa di risparmi privati veniva drenata, e avrebbe continuato a esserlo (ai tempi dei Governi Craxi, Fanfani e De Mita ma anche del consociativismo del Pci nel varo di leggi di spesa) da un'idrovora come quella dei titoli di Stato emessi per coprire il colossale buco nero dei conti pubblici, prodotto dalla classe politica della prima Repubblica anche per acquisire clientele di partito e consensi elettorali?
E come tante piccole imprese avrebbero potuto ampliare le loro dimensioni e crescere di statura, se la maggior parte degli istituti bancari, non tanto per i vincoli loro imposti dalla legge del 1936 (allentatisi con l'andare del tempo), quanto piuttosto per conservatorismo burocratico o per forza d'inerzia, continuavano a impiegare i pur cospicui mezzi finanziari di cui disponevano in base a criteri per lo più tradizionali, nei rapporti con le imprese, e quindi a puntare su garanzie di natura eminentemente patrimoniale, senza esercitare alcun ruolo effettivo di orientamento e di stimolo agli investimenti?
Sta di fatto che il passaggio da uno "Stato proprietario" a uno "Stato regolatore" è avvenuto soltanto nel corso degli anni 90 e così pure è accaduto per l'istituzione delle Authority, le liberalizzazioni pur parziali dei mercati e l'avvio da parte delle banche di strategie finanziarie innovative. Per di più, questo mutamento di scenario, imposto dal Trattato di Maastricht, ha incontrato lungo il suo percorso parecchie remore: tant'è che sono risultati spesso determinanti i severi richiami di Bruxelles.
In sostanza, se adesso c'è chi accusa il capitalismo italiano di inerzia per non aver tirato fuori dalla manica una coalizione di imprenditori pronta a rilevare il pacchetto azionario di Telecom, dimentica volutamente quale e quanto peso abbiano avuto, tanto nell'indebolimento del sistema Paese in termini competitivi che nell'essiccazione di molte risorse e potenzialità, anche certe prolungate renitenze di ordine politico a qualsiasi riforma strutturale e più di un ventennio di finanza statale allegra e dissipatrice. E dovrebbe comunque chiedersi se l'italianità delle imprese sia un motivo talmente preminente da far aggio, di per sé, sull'interesse della collettività, degli utenti e dei consumatori, a disporre di servizi più efficienti e di prodotti a prezzi più convenienti.
D'altra parte, arroccarsi nella difesa a oltranza (al punto di cambiare determinate regole del gioco a posteriori, in corso d'opera) di questo o di quel marchio nazionale, non solo risulta anacronistico in tempi di mercato globale e in un regime di concorrenza internazionale. Finirebbe per allontanare dall'Italia, ancor più di quanto non sia già avvenuto purtroppo finora, l'afflusso di investimenti esteri, con il pregiudicare la possibilità di ulteriori acquisizioni italiane all'estero, nonché per danneggiare l'immagine e l'affidabilità del Paese; giova osservare che i più corposi investimenti stranieri in Italia, negli ultimi dieci anni, sono rappresentati dall'acquisizione di gloriosi marchi nostrani.
Querelle tra dinosauri dell'economia e della politica
È ancora botta e risposta tra il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, e il presidente della Confindustria, Luca di Montezemolo sul capitalismo italiano. Bertinotti ha lanciato un'accusa netta: «La vicenda Telecom ci dice quanto il capitalismo italiano sia devastato». Immediata la replica di Confindustria, affidata a un comunicato: le parole del presidente della Camera «confermano il clima antiimpresa» dentro la maggioranza, inoltre Confindustria rivendica il merito della ripresa, avvenuta grazie allo sforzo del sistema industriale.
Da Bertinotti è arrivato un distinguo: «Confindustria ha replicato in modo frettoloso. Si confonde — ha precisato il presidente della Camera — un giudizio sul sistema capitalistico, la cui malattia mi sembra evidente, con la capacità imprenditoriale di singole aziende e guide d'azienda di ottenere performance di successo,che sono altrettanto evidenti. Ma tra i due fenomeni c'è una bella differenza».
L'accusa resta, quindi, anche se edulcorata con il riconoscimento del ruolo e del valore delle aziende che sono competitive. E stavolta la replica è arrivata in prima persona da Luca di Montezemolo. Nessun riferimento diretto alle parole di Bertinotti, «non credo che sia giusto né utile rispondersi attraverso la stampa o le interviste», ma una difesa del sistema imprenditoriale del nostro Paese:«Gli imprenditori italiani non agiscono nei salotti ovattati della finanza, ma nei mercati in giro per il mondo, a contatto con i clienti».
Piuttosto il presidente di Confindustria è ritornato sul clima antiimpresa che esiste dentro la maggioranza: «È molto difficile oggi fare impresa in Italia. Il nostro Paese vive di eccellenze, di aziende che vanno in giro sui mercati, la sfida selettiva ci porta in giro per il mondo, sapendo che vince il migliore. Questa è la risposta degli imprenditori italiani». A riprova delle difficoltà che esistono in Italia per chi vuole fare impresa, Montezemolo ha citato l'andamento degli investimenti esteri nel nostro Paese: «Sono ridotti al lumicino. E questo è preoccupante».
Il botta e risposta tra Bertinotti e Confindustria non ha lasciato indifferente il ministro del Lavoro, Cesare Damiano: «Non siamo né contro il lavoro né contro le imprese, lavoriamo perché cresca la competitività del Paese e non vogliamo che questo comportamento vada a scapito della tutela dei diritti. Serve una sintesi».
Mentre sulle stesse posizioni di Bertinotti si è schierato il capogruppo di Rifondazione alla Camera, Gennaro Migliore: «Non vedo un clima antiimprese. Semmai vedo una crisi profonda che attraversa il sistema delle grandi imprese italiane». E Migliore offre una sua lettura anche del ritiro di ATandT dalla partita Telecom: «Sta facendo politica a sua volta. Voleva pagare una certa cifra le azioni di Olimpia, con dentro anche la rete. Nel momento in cui parla di proteggere la rete in quanto asset strategico per il Paese vuol pagare un prezzo inferiore».
Montezemolo, invece, sulla Telecom ha preferito glissare con una battuta: «Che lingua parliamo oggi? Il messicano mi sembra una lingua molto popolare». Ma la sua posizione sui rapporti tra Stato ed economia l'ha ribadita più volte in questi ultimi giorni: troppa invadenza pubblica in vicende che dovrebbero riguardare solo il mercato. Un interventismo che va dalla Telecom ad altri settori, come i servizi pubblici locali. Nel dibattito sul capitalismo italiano, sul ruolo della politica e sulla necessità di competere, è intervenuto ieri anche Gilberto Benetton, in risposta a Bertinotti, dichiarandosi perfettamente d'accordo con Montezemolo.
COMMENTO CONCLUSIVO
La diatriba accesa da Romiti riteniamo sia caratterizzata da mezze verità e mezze bugie. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra hanno sempre avuto un fondo di anticapitalismo ideologico; ciò non ha evitato la creazione, negli anni, di un forte capitalismo di stato che andava a braccetto con il capitalismo privato quando si trattava di andare nelle stanze del potere per chiedere protezioni e favori.
Un economista anglosassone, negli anni novanta, scrisse che la corruzione era il lubrificante necessario per far funzionale l’economia italiana.
Il governo Berlusconi non aveva certamente una connotazione anti impresa, ma da un governo di centro destra la cultura liberale si sarebbe aspettata almeno l’avvio di riforme volte a trasformare l’Italia in un paese liberale:
l’abolizioni degli albi, la riduzione della burocrazia statale, la lotta al lavoro nero, elemento di grave distorsione della concorrenza in Italia, le liberalizzazioni, l’abolizione delle province e dei prefetti e una riorganizzazione significativa dell'amministrazione dello stato, una politica di miglioramento delle infrastrutture nelle aree d’eccellenza del Paese, una netta separazione tra potere politico e potere economico,
ma nulla di questo è stato avviato essendo il governo imbavagliato da partiti statalisti come Alleanza nazionale e Udc.
Il Paese ha avuto sempre cattivi governi e cattive gestioni dello stato; non bisogna dimenticare che L'Italia è l'unico paese moderno nel quale sono sopravvissuti partiti che, pur dopo abiure più o meno sincere, si rifanno al comunismo e al fascismo.
La fortuna del nostro paese poggia su una classe di imprenditori, liberi da condizionamenti, che con le armi dell’innovazione, della creatività e della capacità di rischiare creano valore per tutto il paese e su una classe lavoratrice che ha sempre fatto il possibile per sostenere e sviluppare le imprese per le quali lavorano.
Eugenio Caruso
26 aprile 2007