Le politiche economiche dagli anni novanta al nuovo millennio


Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi.
Seneca, Lettere morali a Lucilio


Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Copertina




In tutto l'arco degli anni novanta il leitmotiv della cronaca economica italiana è stata scandita da due teoremi la new economy e la privatizzazione delle aziende di stato; su questo secondo teorema le più brillanti menti hanno detto la loro in un pendolamento tra facili entusiasmi e accorati avvertimenti di cautela. C'è chi afferma che le organizzazioni pubbliche sono immortali, chi ha già decretato la morte dello stato padrone, chi si accontenta di parlare di tramonto e chi invece parla di rinascita. Infatti, molti dei nuovi capi dell'industria di stato affermano che, se nel Paese si creassero condizioni di competitività, non ci sarebbe alcun bisogno di ricorrere alla privatizzazione delle aziende pubbliche; affermazione che rimanda ai criteri in base ai quali venne creata l'Iri. Si vorrebbe, cioè, in un perenne circolo vizioso, rinnovare la strategia dei "campioni nazionali" nei settori strategicamente più importanti e ricchi, come energia, trasporto, comunicazioni, riportandoci agli anni più bui dell'intervento pubblico, quegli anni settanta nei quali si assistette al disastro dei "campioni nazionali". Obiettivamente va osservato che un evento di sicura valenza degli anni novanta è stato l'estromissione dalle aziende pubbliche dei vecchi boirdi espressione dei partiti, (i vari Viezzoli, Necci, Fabiani, Tedeschi, Agnes, Pascale) e la sostituzione con un nuovo management (Demattè, Bernabè, Cimoli, Tatò, Gros-Pietro, Passera, Spaventa, Visentini, Celli). Questo evento segna sicuramente una svolta, perché pone al nuovo management l'obbligo di eliminare le incrostazioni parassitarie, di rompere il ciclo storico del "ruolo sociale" dell'impresa pubblica, di rendere efficienti aziende che sono fondamentali per il sistema economico di qualunque Paese, di svincolare l'azione imprenditoriale dal potere politico, di puntare su una gestione economica, e, fondamentalmente, di far discendere, capillarmente, dai dirigenti, ai quadri, agli impiegati, agli operai il senso della nuova sfida, l'acquisizione della cultura imprenditoriale. Di converso, occorre ammettere che dopo le vendite di tranche di azioni di Enel, Eni, Telecom Italia e Finmeccanica il processo della completa privatizzazione si è bloccato. Si adduce la scusa della perdita di valore delle azioni quotate e degli eventuali minori introiti per lo stato, dimenticando che la privatizzazione non è solo una questione di bilancio, ma, principalmente, un fattore di moralizzazione dell'economia di un Paese.
Anche con i governi Berlusconi, l'ostilità di An verso le privatizzazioni sembra imporsi sui settori più liberisti del centro destra. Lo stato continua a mantenere un controllo sull'economia del Paese grazie alle golden shares in mano al ministero dell’economia. Certamente Enel, Eni, Finmeccanica non sono più i dinosauri della prima repubblica, spesso sono imprese gestite con criteri di notevole efficacia, eppure esiste sempre una latente diffidenza nei confronti di una completa privatizzazione.
La liberalizzazione di poste e telecomunicazioni
Tra il 1996 e il 1997 matura una delle maggiori riforme della storia economica italiana, quella del comparto delle telecomunicazioni, che ha avuto nella legge Maccanico il suo primo punto di approdo (Maccanico, 2001). Il legislatore, a quell'epoca, doveva affrontare due problemi, il grave ritardo con il quale l'Italia si stava muovendo nell'attuazione delle direttive comunitarie riguardanti la liberalizzazione del settore e una sentenza della Corte costituzionale, che, nel dicembre del 1994, aveva sancito che la legge Mammì non tutelava il pluralismo nel settore radiotelevisivo. La sentenza poneva a ogni operatore il limite del 20% di possesso sul totale delle reti Tv nazionali; ciò significava che Rai e Mediaset avrebbero dovuto cedere una delle tre reti televisive. Proprio per tentare di districare il groviglio di interessi della Rai e di Mediaset, Prodi sceglie per il ministero delle Poste e telecomunicazioni (successivamente ministero delle Comunicazioni), Antonio Maccanico, gran tessitore di accordi e ben visto dall'opposizione. Maccanico, assunto il ministero, si rende conto che ogni operazione in cantiere potrà essere condotta solo dopo la creazione dell'Authority; inoltre la sentenza della Corte costituzionale impone che venga approvata, urgentemente, una legge di proroga del regime transitorio. Con il cosiddetto Lodo Maccanico governo e opposizione trovano l'accordo, sia per una proroga della legge Mammì, che per il recepimento delle direttive comunitarie sulle Tlc. All'inizio del '97, inizia il cammino del decreto legge sull'Authority e sulla privatizzazione di Telecom. Il primo atto sulla strada della privatizzazione è l'allontanamento di Ernesto Pascale e di Biagio Agnes dalla Stet, la finanziaria del gruppo, e la nomina del nuovo consiglio di amministrazione, con Guido Rossi alla presidenza. Il secondo atto è l'ottenimento del consenso di Bertinotti, che si sente rassicurato dal possesso da parte dello stato della golden share, che, nella realtà, si rivelerà un'arma spuntata per le velleità veterocomuniste di Rifondazione. La storia di Telecom Italia inizia nel 1994, quando, dopo quindici anni di commissioni parlamentari ed estenuanti discussioni, anche in Italia viene creato un unico gestore telefonico pubblico; dai cinque che erano in precedenza nasce Telecom Italia e, un anno dopo, Telecom Italia Mobile. Nel 1997, come già visto, viene creata l'Authority delle telecomunicazioni e varata la "legge Maccanico" che definisce le regole della competizione. Il primo gennaio 1998 è il D-day per la telefonia europea; la deregulation, a lungo discussa, fa il suo debutto in dieci paesi dell'Ue. L'ultimatum di Bruxelles prevede la completa liberalizzazione di infrastrutture e servizi e il risultato, nel giro di due anni, è una riduzione media delle tariffe residenziali del 40% e di quelle affari del 25%. Nel 2000, in Italia, oltre cento aziende offriranno servizi alternativi a Telecom. Le modalità della privatizzazione erano state decise dal governo Ciampi; il controllo della Telecom, nella quale sarebbe confluita la Stet, sarebbe dovuto passare a un nucleo stabile, a maggioranza italiana, prevalentemente finanziario. Prodi, presidente dell'Iri, «Aveva timore soprattutto della Pirelli, mi pare» (Meccanico, 2001). Prodi, consiglia di partire con un nucleo stabile di riferimento già dall'inizio, ma non si ha il coraggio pieno e salta fuori quel "prevalentemente finanziario", che significa banche ex pubbliche, cioè i soggetti meno adatti per una politica industriale innovativa nel campo delle telecomunicazioni. Nel collocamento sul mercato della Telecom fu molto difficile raccogliere il nocciolo stabile, costituito dalla Ifil degli Agnelli e da banche, mentre ci fu un grande entusiasmo tra i piccoli investitori. Il nucleo stabile dimostra subito una forte inconsistenza dovuta dalla mancanza di competenze nel settore. Rossi si dimette e al suo posto viene nominato Gian Mario Rossignolo, con esperienza ai vertici del gruppo Fiat; vengono fatte cadere tutte le opzioni per far entrare nel nucleo di controllo un partner straniero di grosso spessore. Ammette Maccanico: «Il nucleo stabile prese questa società complicata, concessionaria pubblica, di dimensione mastodontica, facendola fibrillare per diversi mesi in modo non sostenibile: manager che andavano e venivano, Vito Gamberale che passava e ripassava, la telefonia mobile che fu incorporata in Telecom e poi scorporata di nuovo» (Maccanico, 2001). L'altro fronte di attività, per Maccanico, è quello della costituzione di un'Authority unica per Tlc e Tv, contro il parere di gran parte del Parlamento, che preferisce due Authority indipendenti. Nello scontro per la presidenza, prevale il nome di Enzo Cheli, magistrato della Corte costituzionale, che si impone, come soluzione di mediazione tra i candidati delle varie correnti del governo. Sul versante delle Poste, la trasformazione dell'Ente in S.p.A., la scelta di Corrado Passera e l'utilizzo della rete di sportelli più diffusa sul territorio nazionale per entrare, a pieno titolo nel settore del credito, si rivelano la strada giusta per rilanciare un "baraccone" alla mercé dei sindacati, dell'indisciplina e dell'inefficienza.
La privatizzazione di Telecom Italia
Nel gennaio '98 al vertice di Telecom arriva, come già visto, Gian Mario Rossignolo, che, grazie all'ampio mandato del consiglio di amministrazione, dovrebbe chiudere la crisi di leadership, apertasi con le dimissioni di Guido Rossi. A metà giugno, Lucio Izzo, l'economista che il ministro del tesoro Ciampi ha voluto nel consiglio di Telecom, in virtù della golden share, chiede al management le ragioni per le quali il preconsuntivo esponga un calo del 10% dell'utile netto, mentre nel prospetto illustrativo della privatizzazione era stato promesso un aumento, senza contare che le azioni Telecom, dalla quotazione iniziale, hanno subìto una lenta ma inesorabile discesa. La ragione della crisi viene individuata nella demotivazione del personale, nell'assenza di chiare indicazioni strategiche e, sostanzialmente, nella mancanza del "manager giusto". A metà ottobre del 1998, l'Ifil, propone a Franco Bernabè di lasciare l'Eni, oramai ristrutturata, e di accettare la nomina ad amministratore delegato di Telecom. Il 23 ottobre Rossignolo viene esonerato e al suo posto nominato Bernardino Libonati, uomo del ministero del tesoro. Il 13 novembre, Bernabè scioglie le riserve e il titolo guadagna in un giorno più del 5%. Il 15 dicembre 1998, l'assemblea dei soci convalida la nomina. Il primo obiettivo della strategia del nuovo amministratore delegato è rimotivare il personale, «il secondo obiettivo è stato quello di preparare l'azienda alla competizione. Il mercato si stava aprendo ma Telecom non sentiva ancora i morsi della competizione», il terzo preparare l'azienda ai nuovi scenari che vedono, in previsione, la telefonia mobile scalzare quella fissa (Roddolo, 2000).
Bernabè avvia il rinnovamento creando strutture snelle e dinamiche, rifocalizzando le strategie sul core business e accelerando le dismissioni delle attività non strategiche. A differenza dell'Eni, Bernabè trova un management non ostile ma favorevole al cambiamento; dopo solo due mesi le azioni si apprezzano del 50%. All'inizio del '99, il ministro Ciampi annuncia l'intenzione del tesoro di vendere la quota di Telecom ancora in sue mani allo scopo di consolidare il nucleo di controllo. Il 3 novembre 1998, la lussemburghese Bell, controllata da un gruppo di bresciani, riuniti attorno a Emilio Gnutti e Roberto Colaninno, annuncia di avere il controllo di Olivetti. All'inizio del '99, iniziano a circolare voci di una possibile scalata di Telecom da parte di Olivetti. Questa è stata risanata ed è tornata con i bilanci in nero dopo la cura Colaninno, che ha chiuso la partita dei computer e aperto quella delle telecomunicazioni con Omnitel e Infostrada. La Consob interroga l'amministratore delegato della società di Ivrea e Colaninno, il 21 febbraio, annuncia la decisione di lanciare un'offerta pubblica di acquisto (Opa) sul 100% delle azioni ordinarie Telecom, un'operazione da 100.000 miliardi di lire offerti parte con azioni della controllata Tecnost e parte in contanti. Colaninno aveva cercato e trovato l'appoggio di un gruppo di imprenditori bresciani, di alcuni banchieri della City e di Mediobanca. La notizia scuote il mondo finanziario ma viene vista con favore. Il presidente del consiglio, D'Alema, dichiara «Apprezzo il coraggio di un gruppo di imprenditori che vogliono acquistare Telecom, mentre prima lo stato aveva dovuto chiedere per piacere che qualcuno comprasse lo 0,6% di quello che poi si è rivelato un gioiello». A marzo, Bernabè e Colaninno illustrano le rispettive strategie contendendosi l'appoggio degli azionisti. A fine aprile Bernabè annuncia una fusione con Deutsche Telekom, operazione non vista con entusiasmo dal board di Telecom e osteggiata dai media e dagli analisti. La società telefonica tedesca è ancora pubblica, è gravata da pesanti debiti, è burocratizzata e soffre di elefantiasi. Bernabè non vuole perdere e contatta i mercati di mezzo mondo per trovare appoggi. Alla resa dei conti gli azionisti si trovano, da una parte l'offerta di 117 miliardi dell'Olivetti, a 11,5 Euro per azione, dall'altra la fusione italo-tedesca. Il 21 maggio gli investitori premiano, seppure di misura, Colaninno; a sorpresa Franco Bernabè esce sconfitto. Si concretizza il maggior takeover mai realizzato in Europa. Contro l'ipotesi del nocciolo duro detenuto dai "soliti noti" e la fusione con il pachiderma tedesco il mercato ha preferito l'approccio dinamico e aggressivo di Colaninno. Con l'acquisto di Telecom, Olivetti vende Omnitel e Infostrada.
La liquidazione dell'Iri
Il 30 giugno 2000, segna la data dell'ultima assemblea dell'Iri; ma altri precedenti di liquidazione dovrebbero mettere in stato di allerta. A otto anni dalla sua liquidazione, l'Efim è ancora vivo e vegeto, così come sopravvivono più di quattrocento enti inutili "dichiarati" liquidati, tanto che è stato creato il più inutile degli enti inutili l'Ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti (più di trecento impiegati e trenta miliardi di costi). L'Iri non interromperà la tradizione e sarà ancora in vita per anni, magari con una diversa ragione sociale.. Afferma Paolo Glisenti; «Quella del commissario liquidatore è diventata una delle professioni più stabili e meglio remunerate» (Glisenti, 2000). D'altra parte, la vitalità degli enti inutili posti in liquidazione è impressionante se si pensa, a esempio, che l'Unione edilizia nazionale, messa in liquidazione nel 1923, è ancora in vita. Gli enormi costi legati alla liquidazione di enti dichiarati disciolti sono, ovviamente, a carico del contribuente, che, rallegrato dalla notizia della liquidazione di questo o quel soggetto pubblico, non sa che, proprio da quel momento, quel soggetto pubblico inizia una nuova vita non più da dinosauro ma da piccolo e invisibile parassita. Se il contenitore Iri è stato posto in liquidazione, il tesoro ha ereditato, tra le più importanti, la proprietà della Rai, il controllo di Finmeccanica, la Finmare, la Fincantieri, la Tirrenia, l'Alitalia. Queste nuove società si aggiungono alle già controllate Enel (31,2%), Eni (30,3%), Ferrovie (100%), Poste (100%), Anas (100%), Sace (100%), Azienda tabacchi (100%), Poligrafico (100%) e a una grande quantità di altre partecipazioni. Nel 2011 il tesoro si configura come una delle più ricche conglomerate del pianeta.
Liberalizzazioni, falsi obiettivi e resistenze
La corte di giustizia europea ha avviato più volte procedure di infrazione contro l'illegittimità del tesoro a godere del privilegio delle golden share, ma lo stato, pur di mantenerle, altrettante volte ha apportato correzioni alla norma, che consentirebbe di salvaguardare «gli interessi vitali dello stato» nell'economia. Alcuni affermano che sia errato parlare di privatizzazioni ma che sarebbe più corretto porsi, prima, l'obiettivo delle liberalizzazioni. Ebbene, vediamo cosa succede su questo fronte. È dal 1980 che naufragano tutte le leggi volte a riformare gli ordini professionali, ostacolate, principalmente da destra, ma anche da sinistra, cosicché il nostro Paese resta imbozzolato e prigioniero delle corporazioni professionali, che operano in evidente contrasto con le leggi europee. Gli ordini, privilegiando la logica del recinto, dell'operatività di piccolo cabotaggio nel proprio porticciolo, si sono opposti alla costituzione di società di capitale, impedendo la creazione di grandi studi di consulenza. Il risultato è che le più importanti commesse di consulenza vanno a società straniere, con una perdita, da parte dei nostri professionisti, di cinque-seimila milioni di euro all'anno. Ma è noto che gli ordini professionali sono un importante bacino di voti. Afferma Amato «esistono in Italia soggetti privati, organizzati in una forma giuridica che la legge ha riconosciuto come idonea a farsi carico di un interesse pubblico … quelli che io chiamo gli ermafroditi», a esempio gli ordini e gli albi, nel campo delle professioni. «Ancora oggi, in Italia, molti professionisti e gli ordini nei quali sono associati, rivendicano con orgoglio la loro diversità dalle imprese. …. Questa concezione riflette un'idea della stratificazione sociale tipica della piccola borghesia del secolo scorso che riteneva vili le attività commerciali. … Io vorrei che in queste strutture ci fosse meno medioevo e più XXI secolo» (Amato, 2000). Gli ordini operano secondo la filosofia della riserva; stabiliscono le tariffe minime, controllano, attraverso le commissioni d'esame, l'accesso alla professione, stabiliscono il numero chiuso, non accettano il principio della libera concorrenza. In questo scenario, i commercialisti boicottano la riforma universitaria imponendo cinque anni di studio per tenere la contabilità di una piccola azienda e i notai difendono una professione medioevale, sconosciuta nei paesi anglosassoni. I commercianti si schierano contro la liberalizzazione delle licenze e la flessibilità degli orari di apertura e chiusura degli esercizi e sono tra i più strenui difensori dei diritti corporativi che solo lo stato può garantire. Ma è noto che i commercianti sono un importante bacino di voti. Tutta la pubblica amministrazione resiste arroccata su arcaiche strutture organizzative e su una cultura basata sulla difesa dei diritti, più che sul riconoscimento del merito, che la riforma Bassanini ha tentato invano di scardinare; la proposta di verificare il livello di professionalità degli insegnati, della riforma Berlinguer, è stata violentemente censurata dal mondo della scuola, lo stesso è accaduto per la riforma Gelmini. Rutelli, quando, da sindaco, ha tentato la liberalizzazione delle licenze ai tassisti romani, ha dovuto recedere di fronte alla cupa resistenza del corporativismo tassinaro della capitale; la stessa umiliazione è toccata a Letizia Moratti, sindaco di Milano. Nel Berlusconi quater il ministro Brunetta, tra mille difficoltà, con decreto legislativo, crea la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CiVIT) come autorità indipendente, dotata di potere di auto-organizzazione e piena autonomia finanziaria, al fine di garantirle l'indipendenza e l'autorevolezza necessarie per fare da arbitro tra PA e cittadini ed assicurarne la trasparenza. Si tratta di una proposta dell'opposizione, fatta propria dal ministro Brunetta, e scritta in collaborazione col politologo e deputato del Pd Pietro Ichino. Brunetta in un’intervista dichiarerà: «Su questi punti ho impostato la mia azione riformatrice della PA: a) Restituire prestigio a chi serve le amministrazioni centrali e locali. b) Valutare la produttività in modo da premiare chi lavora più e meglio. c) Rendere lo Stato una casa di vetro, dentro la quale il cittadino possa sempre guardare con fiducia e soddisfazione. d) Dare voce non solo ai cittadini elettori ma anche ai cittadini consumatori di beni e servizi pubblici.» (Bruneta, 2011).
Virtù e vizi dell'economia del Paese
Un modesto risanamento dei conti pubblici si realizza nel periodo 1999-2003. Eliminato l'inconveniente del ripianamento dei debiti delle aziende di stato, ridotti gli interessi da pagare sul debito pubblico, ridimensionato il meccanismo delle tangenti, nel 1999, il deficit del bilancio pubblico è stato pari all'1,9% del pil (contro il 2,8 del 1998), il più basso dal 1961. Resta enorme il debito pubblico, nel 1999, pari al 114,9% del pil, si tratta di un livello molto lontano da quel 60% richiesto dal trattato di Maastricht, ma si nota, pur sempre, una tendenza alla riduzione (il vizio di attingere alle casse dello stato non tenderà però a diminuire; nel 2015 il debito sarà pari al 132,7% del Pil): Giova comunque sottolineare che se il debito pubblico è molto elevato, molto basso è, invece, l’indebitamento delle famiglie e delle imprese ponendo l’Italia tra i paesi che, complessivamente, sono i meno indebitati d’Europa e gli italiani i più forti risparmiatori del pianeta. La commissione europea, approvando il piano di stabilità italiano 2000-2003, insiste sui soliti punti: l'Italia deve avere maggiore determinazione nel ridurre la spesa previdenziale, nel liberalizzare il mercato, nell'aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, mentre il fondo monetario internazionale invita l'Italia (e altri paesi dell'Ue) a ridurre la pressione fiscale (che, invece, nel 1999, è salita al 43,3%), per accelerare lo sviluppo. La crescita del pil continua a scendere 5,7% negli anni sessanta, 3,6% nei '70, 2,2% negli '80, 1,3% nei '90 e sarà dello 0,42% nel periodo 2000-2010. Questo andamento negativo è, anche, il risultato del basso tasso di partecipazione della popolazione alla forza lavoro: il 41,5% contro valori ampiamente superiori al 50% di tutti gli altri paesi industrializzati. La Borsa di Milano, favorita dalla privatizzazione delle imprese pubbliche (tra il '93 e il 2002 la cessione al mercato di azioni di aziende pubbliche vale 208 mila miliardi di lire e rappresenta più del 60% del Mib 30) e dal trasferimento del risparmio dai bot alla Borsa, vede una notevole espansione della sua capitalizzazione. La Borsa, nel 1999, diventa la quarta, in Europa, per volume di scambi, scavalcando Amsterdam e Zurigo, dietro Londra, Parigi e Francoforte. Fatto ancora più interessante è che il nuovo mercato della Borsa di Milano è secondo in Europa, per capitalizzazione, segno che l'aver, in parte, tolte le briglie all'economia del Paese, ha portato alla nascita e alla crescita di soggetti nuovi nei settori più innovativi, anche se la crisi del 2008 colpirà, impietosamente, soggetti economici privi di solide basi industriali e nati sull'onda della pura speculazione. Un elemento negativo resta la bassa competitività; secondo Business international ed Economist intelligence unit, l'Italia figura solo al ventitreesimo posto. In testa l'Olanda, seguita da Gran Bretagna e Stati Uniti. Non si può tacere, inoltre, che, negli anni '90, la cosiddetta politica dei redditi ha creato in Italia una situazione macroeconomica che desta preoccupazioni (AA.VV., 2001); la quota di reddito nazionale lordo dovuta al lavoro è calata dal 56% del 1980 al 40,1% del 1999, mentre sono aumentate le quote dovute a pensioni e rendite (31,3%) e profitti netti (28,6); l'economia del Paese si regge, quindi, più su patrimoni e pensioni e sempre meno sul lavoro. Questa situazione crea effetti negativi per l'economia, svilisce il lavoro creando palesi effetti di disaffezione, limita la possibilità del risparmio delle famiglie, riduce sia il potere d'acquisto sia, conseguentemente, la crescita economica e, indirettamente, la competitività delle imprese. L'Italia non è più una repubblica fondata sul lavoro, ma su rendite e profitti. L'emergenza occupazionale, alla fine del millennio, sembra superata; il lavoro non è più un problema che richiede soluzioni di massa, ma è diventato un problema e una scelta individuale. La disoccupazione è stata un fenomeno di massa dopo la crisi petrolifera del '73 e si è aggravata negli anni successivi, caratterizzati da forti processi di ristrutturazione industriale. L'emergenza occupazione è riapparsa, dopo il '92, a causa del venir meno del sostegno pubblico a molte iniziative nel mezzogiorno. Alla fine degli anni novanta l'occupazione è ripresa a salire nel mezzogiorno e il nord soffre di una sensibile mancanza di manodopera specializzata e no; la domanda di lavoro rimane inevasa, nonostante la presenza, nel Paese, di persone che cercano lavoro. Il problema occupazione è diventato quindi un problema individuale; se un giovane disoccupato del sud preferisce rimanere in famiglia, piuttosto che affrontare i sacrifici di un lavoro nel nord, la sua è una scelta individuale che non può essere scaricata sulla collettività. La classe politica dovrebbe aver capito che non si crea occupazione con le conferenze sul lavoro, ma accentuando le flessibilità; a esempio, aumentando il limite dei 50 km di distanza da casa per poter rifiutare un lavoro e aver diritto ai sussidi di disoccupazione, alzando l'età pensionistica, attenuando le rigidità delle qualifiche nei contratti collettivi nazionali. È, inoltre, necessario che sindacato e governi cessino di illudere la gente parlando di trasferire le fabbriche dal nord al sud. L'operazione è possibile solo in pochi casi e spesso alletta quegli imprenditori in crisi, che cercano al sud il finanziamento pubblico, per sopravvivere. Il nord ha creato un tessuto di imprese che operano in rete e che riescono ad essere competitive, grazie alla rete (Caruso, 1999); questo miracolo organizzativo, che fa del nord Italia, un'area di eccellenza mondiale, non è ripetibile in forza di decreti ministeriali o di finanziamenti pubblici. Questa realtà, deve essere capita e accettata, innanzi tutto da chi crea l'informazione nel Paese, l'alternativa è la creazione di lacerazioni sociali e false illusioni. Solo dopo la grave crisi iniziata nel 2008 la disoccupazione ha ripreso a salire per arrivare al massimo dell’8,6% nel gennaio 2011. Un altro aspetto preoccupante della nostra economia è l'entità del sommerso; nel febbraio del 2001 un'indagine condotta da Friedrich Schneider, con il metodo della domanda di moneta, pone l'Italia al secondo posto, dopo la Grecia, tra i paesi dell'Ocse, per dimensioni del sommerso, che sarebbe pari al 27,1% del pil. Considerando l'economia "in nero", l'Italia si collocherebbe al quarto posto nel mondo, per valore del pil, dopo Usa, Giappone e Germania. Il dato sembra sconcertante, ma, chi ha una lunga pratica del sistema produttivo e dei servizi sa che il "nero" è, effettivamente, una pratica frequentissima e, pertanto, non suscita meraviglia che possa costituire circa un quarto del pil. Per eliminare questa pratica, che distorce i dati economici del Paese e penalizza i soggetti che operano in regime di correttezza, esiste una sola medicina: una drastica riduzione delle tasse che possa avviare il circolo virtuoso dell'emersione del sommerso, dell'aumento della massa monetaria soggetta a tassazione, della riduzione della pressione fiscale (AA. VV, febbraio 2001). Nonostante le buone intenzioni e i risultati ottenuti dalla guardia di finanza, nel febbraio 2011, il sommerso è valutato, secondo il direttore generale delle finanze, Fabrizia Lapecorella, in 250 miliardi di euro. Giova ricordare che, purtroppo, il centro sinistra, abbandonato il principio delle “buone pratiche” del periodo 1998-2000, per ragioni elettoralistiche, aumenta la spesa correnre e lascia una pesante eredità, riporta il deficit di bilancio dallo 0.8% del 2000 al 3,1% del 2001, nonostante una congiuntura economica tonica e sostenuta. Vengono così tradite le aspettative degli economisti che puntavano, per il 2003, all’azzeramento del deficit.

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27 settembre 2016

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.



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