Italia: vizi e virtù. Premessa


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

copertina 3

1. Premessa

Gli avvenimenti degli anni '92 e '93, e cioé, i referendum, promossi da Mario Segni, lo scoperchiamento del vaso della corruzione strutturale, i risultati delle elezioni amministrative del giugno '93, i comportamenti irrituali del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, erano sembrati a molti i segnali di una svolta, se non proprio di una rivoluzione, rispetto a una realtà, che si presentava gravida di foschi presagi. Da qualunque angolatura lo si giudicasse, il sistema Italia, all'inizio degli anni '90, mostrava infatti di aver dato fondo alle proprie risorse, e sembrava escluso potesse proseguire lungo la vecchia strada. Queste indicazioni erano confermate, sia dagli articoli dei giornali stranieri, sia da Moody's, che, nel giugno '93, aveva relegato l'Italia in una posizione di retroguardia nella classifica internazionale dei Paesi industrializzati, alla pari di Corea e Portogallo.
L'analisi politica metteva inoltre in evidenza una serie di difetti che ponevano in crisi le basi socio-culturali del Paese: gli italiani si sentivano più sudditi, che cittadini e quindi lontani dalla logica dei diritti e dei doveri, che è alla base di ogni democrazia. Sembrava che, nel Paese, non esistesse un'etica pubblica e che fosse misconosciuto il principio montesquieuano, secondo cui, la virtù civile è rappresentata dal potere morale, che esercita ogni individuo su sé stesso e che gli impedisce di violare il diritto altrui. Il bene comune non era visto come comunità di beni, la cui salvaguardia e difesa era compito di tutti, ma come sommatoria di piccoli beni individuali, questi sì da difendere con qualunque mezzo e per la cui conquista ogni azione era lecita.
Era disatteso l'ideale kantiano di coniugare i diritti dell'individuo, come autorealizzazione ed espressione dell'io, con quelli della società, e di far convivere libertà e democrazia, liberalismo e uguaglianza, condizioni essenziali per realizzare quella democrazia liberale, che Karl Popper descrive con queste parole: "Abbiamo bisogno della libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e abbiamo bisogno dello Stato per impedire gli abusi della libertà". Troppo spesso, in nome dell'ugualitarismo, venivano calpestate le libertà personali, perché radicata era la convinzione che si potesse ottenere la libertà dall'uguaglianza e ben pochi erano convinti che la libertà fosse la condizione necessaria dell'eguaglianza.
Erano scarsamente apprezzati gli ideali dei padri fondatori della Repubblica americana: considerare la democrazia come ethos, la sovranità popolare, come il principio di legittimità della società, e infine la conservazione della vita, la libertà e la ricerca della felicità, come diritti inalienabili. Non era applicata la rule of law del costituzionalismo anglosassone, figlia di quel diritto romano, che faceva dire a Cicerone "siamo servi della legge al fine di poter essere liberi". Non era recepito il concetto base delle libertà politiche, "per poter essere liberi di, occorre essere prima liberi da".
Nel 1993 un gruppo di dirigenti di area pubblica aveva dato alle stampe un libretto (attribuendolo a un inesistente Mario Rossi, valore medio, rispetto al vissuto degli autori), nel quale veniva dimostrata la tesi secondo cui le patologie e le inefficienze dello Stato erano da attribuirsi a una sorta di peccato originale, la cultura della irresponsabilità, che in una spirale perversa conduceva a curare le patologie "restringendo gli spazi di libertà, allargando i divieti, irrigidendo i comportamenti dei poteri pubblici"; veniva quindi posta in evidenza l'urgenza di far crescere, invece, la cultura della responsabilità del bene comune, e di creare quindi una classe dirigente capace di rifarsi a quei princìpi della responsabilità, che trovano nell'etica weberiana la più importante sintesi. Anche secondo Piero Ottone le responsabilità dei guasti italiani andavano individuate nei vizi di una una classe dirigente diffidente verso il popolo, arrogante, abituata a comandare in una società arretrata e incapace del comando in una società progredita, e pertanto autoritaria e non autorevole, sciovinista, insicura, timorosa della altre classi sociali, con un basso coefficiente etico, e quindi, complessivamente, incapace di acquistare una legittimazione. La debolezza della classe dirigente sarebbe una costante della storia del nostro Paese e darebbe ragione a chi considera il fascismo come un elemento di continuità con i regimi precedente e successivo, in contrapposizione con Croce, per il quale esso andava considerato come una parentesi, un'abberrazione, lungo la strada della conquista delle libertà, ma in accordo con Gobetti, che vedeva nel fascismo "l'autobiografia della nazione" e quindi il sintomo di una malattia.
"Il progresso è faticoso, lento e graduale"; le parole di Carlo Cattaneo non sembravano adatte a gran parte degli italiani, per i quali i sacrifici andavano fatti dagli altri, compiti e comportamenti non dovevano essere giudicati, i princìpi erano qualcosa su cui si può sempre mediare, la parola era più importante dell'azione, la teoria della prassi, la furbizia dell'impegno.
Partendo da queste premesse appariva chiaro che il rinnovamento in Italia si sarebbe potuto concretizzare non solo con la sostituzione di una classe politica inadeguata, ma a patto di profonde trasformazioni culturali, sociali e politiche, di un serio rinnovamento dell'etica pubblica, e di qualche deroga agli ipergarantismi, impegni che avrebbero richiesto sacrifici, tempo, rinunce ideologiche e il coinvolgimento di tutte le forze del Paese.
Riconoscendomi in un'area federalista-liberista, che sembrava potesse essere rivalutata e supponendo che, nell'immediato futuro, il Paese avrebbe conosciuto una trasformazione, da quegli anni '92 - '93 presi la decisione di storicizzare gli avvenimenti, commentarli attraverso il filtro della tradizione culturale europea e confrontarli con i processi in atto nel resto del mondo. Ne è risultato un libro che tenta di dare una spiegazione, sia alle difficoltà che incontra il Paese nel tenere il passo con le altre democrazie europee, sia alla corruzione nell'amministrazione dello Stato, che ha accompagnato il cammino prima del Regno, poi della Repubblica. In Italia non è, però, tutto male ma vanno riconosciute al paese alcune virtù che ci hanno fatto grandi e che potrebbero risorgere.
Diversamente dai manager citati precedentemente, non credo di aver bisogno di inventare un Mario Rossi, poiché ritiengo di essere una cartina di tornasole, utile per valutare come un cittadino abbia vissuto l'insieme dei fatti politici e sociali di questi anni; per la prima volta, nel periodo '93-'94, ho scoperto, infatti, che le mie valutazioni coincidevano spesso con quelle di altri, che, nel passato, erano stati, politicamente lontani. Questa risonanza indicava che quelle impressioni erano il risultato di esperienze diverse, filtrate però da un sentimento comune, e che l'analisi di questo sentimento avrebbe potuto essere utile alla classe dirigente, cui è affidato il compito di portare il Paese fuori dalle secche degli egoismi di parte, dell'apatia morale e della non responsabilità.
Giova infine notare come man mano procedeva la stesura del libro, la classe politica, sia a destra, che a sinistra, andava scoprendo due formule apparentemente nuove: il liberalismo e il federalismo. Le parole sono risuonate prima nei congressi e nelle tavole rotonde, per rotolare poi nelle riviste e nei talk show; hanno trovato numerosi padrini e paladini, sono state trattate come due oggetti dimenticati, cui bastava dare una spolverata per farli brillare a nuovo. Ma, se classe politica e cultura antiche, in Italia, hanno sempre saputo cosa fossero il liberalismo e il federalismo, tant'è vero che li hanno contrastati, perché ritenuti, a ragione, lontani dai loro valori o dai loro interessi, quando essi sono diventati la bandiera di Berlusconi, Fini e D'Alema, allora il cittadino ha avuto la certezza che queste espressioni erano diventate qualcosa di cui si poteva dire, facendo violenza al Metastasio: "che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa".

La bibliografia si trova al termine dell'ultimo capitolo del libro

Articolo successivo.

LOGO

5 gennaio 2017

 


www.impresaoggi.com