GRANDI PERSONAGGI STORICI
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In questa sezione ho illustrato la vita di grandi personaggi del passato, allo scopo di tratteggiare le caratteristiche e i valori che hanno portato questi personaggi al successo. Da ciascuna sfumatura dei comportamenti di questi ciascuno di noi può trarre insegnamenti, stimoli, coraggio, intuizioni, entusiasmo per intraprendere un percorso che possa condurre al successo personale o della propria impresa.
In questo scenario di grandi personaggi non può mancare l'imperatore Federico Barbarossa, amato e odiato dall'Italia del XII secolo.
Federico I, al di là delle prese di posizione risorgimentali o federaliste, fu un gigante della storia. Egli fu protagonista di una nuova e gigantesca
concezione: rifondare l’impero romano-germanico di radice ottoniana (Ottone I di Sassonia primo imperatore del Sacro Romano Impero), alla luce della riscoperta del diritto romano giustinianeo, ripervenuto in Occidente
da Bisanzio. Egli fu uno degli iniziatori della cultura universitaria moderna
(fondò l’Università di Bologna) e della cultura scolastica (la filosofia che cercava di conciliare la fede cristiana con un sistema di pensiero razionale, specialmente quello della filosofia greca).
Alcuni comuni norditalici gli si
opposero, pur sempre dichiarando di volersi mantenere fedeli all’impero, rivendicando
vecchi privilegi territoriali e fiscali che essi avevano acquistato
o usurpato ai precedenti imperatori. L’imperatore, che in Germania aveva favorito lo
sviluppo di poteri locali fondando così il federalismo tedesco, in Italia intendeva rientrare in
possesso dei diritti e delle prerogative sovrane, usurpate soprattutto da Milano (che aveva
oppresso anche i Comuni vicini). D'altra parte Federico aveva compreso che la potenza dell'impero non poteva fare a meno della ricchezza e delle capità commerciali e imprenditoriali delle città del nord Italia e delle repubbliche marinare che controllavano i commerci con l'oriente.
Dopo la battaglia di Legnano, perduta nel 1176,
Federico seppe appieno recuperare autorità e prestigio grazie alla sua abilità politica e
diplomatica, pacificandosi col papa Alessandro III e con i comuni lombardi, cui accordò
alcuni privilegi, ma che accettarono dal canto loro pienamente la sua sovranità, che in
quanto tale non avevano peraltro mai messo in discussione.
Analizzando il percorso storico del Barbarossa si possono individuare alcune qualità che sono indispensabili per chi voglia guidare un'impresa:
- la capacità di mantenere la barra sempre puntata sull'obiettivo e di non darsi mai vinto finchè l'obiettivo non sia raggiunto.
- Non darsi mai per vinto anche quando le condizioni ambientali gli sono assolutamente ostili.
- Accettare, sempre, il rischio ache se l'impresa è apparentemente impossibile. Ne è un esempio l'ostinazione nel combattere le città del nord Italia la cui potenza complessiva era comunque superiore a qualunque esercito potesse mettere in campo.
- Essere, d'altro lato, sufficientemente flessibile quando la situazione non lo favorisce. Ad esempio la pace con il papa Alessandro III e con la lega lombarda dopo la sconfitta di Legnano.
- Avere una visione centralistica del potere senza sminuire re, vescovi, feudatari che potevano essergli utili durante le sue molte campagne.
- Avere grandi capacità organizzative e diplomatiche che gli consentirono di dare alla Germania una struttura che può essere considerata la base federativa della Germania di oggi.
- Scegliere come alleati/soci quelli che possono essere di aiuto immediato.
- Cercare di dividere il campo avversario. Combattere un nemico per volta (la tattica usata molti anni dopo da Napoleone). Con i comuni italiani adottò sempre la prassi del "divide et impera".
- Quando un avversario è alle corde non usare la forza per eliminarlo. Domani potrebbe diventare un alleato.
I primi anni dell'impero.
Federico di Hohenstaufen doveva avere appena trent'anni quando, nel
1152, venne eletto re di Germania. Il biennio appena successivo fu caratterizzato da una
serie di diete nelle quali Federico affrontò, una per una, le questioni più
importanti del regno: soltanto dopo aver così impostato per linee generali la sua azione di
governo, avrebbe potuto passare le Alpi per ricevere l'investitura imperiale dalle mani del papa e venire incoronato anche re d’Italia, come gli
spettava di diritto. Giova ricordare che per diete imperiali s'intendono le riunioni informali dell'imperatore con alcuni grandi dell'impero. L'uso di riunirsi a corte per assistere il sovrano nel prendere decisioni si sviluppa dall'obbligo feudale di assistere l'imperatore con azioni e consigli. Queste riunioni differivano dalle normali consultazioni che avvenivano a corte solamente per la presenza di personaggi invitati appositamente, che potevano essere principi, nobili, alti prelati, ma anche rappresentanti di stati esteri. A partire dal secolo XIII a tali diete vennero invitati anche i rappresentanti delle libere città imperiali. Le diete erano organizzate secondo l'etichetta di corte.
La sistemazione della Germania
Il primo problema che Federico dovette risolvere fu l'assegnazione della Baviera al cugino Enrico il Leone. Ma il duca di Baviera, Enrico Jasomirgott, non voleva consegnarlo a Enrico. Federico convocò diverse diete per discutere del problema, ma Jasomirgott non si presentò mai. Nella dieta di Goslar, il 3 giugno del 1154, con Jasomirgott sempre assente, il ducato fu assegnato, ufficialmente a Enrico il Leone e l'investitura avvenne a Ratisbona, nell'ottobre del 1155. Ma il problema fu risolto solo l'anno dopo, nel 1156, sempre a Ratisbona, dopo che a Enrico Jasomirgott fu assegnato il ducato d'Austria, completamente indipendente dalla Baviera. In quello stesso anno era morto il conte palatino del Reno e Federico elevò a quella carica il proprio fratellastro, Corrado Hohenstaufen. Sempre in quell'anno Federico nominò l'ecclesiastico, Rainaldo di Dassel, futuro arcivescovo di Colonia, cancelliere imperiale. Enrico il Leone, mentre Federico combatteva in Italia, si prodigò a costruire uno stato efficiente e forte nella Germania nord-orientale. Dopo aver preso sotto la sua protezione il re di Danimarca, Valdemaro, Enrico intraprese con sistematicità la conquista delle terre slave dei Vendi, sulla sponda orientale dell'Elba. I Vendi erano popolazioni slave stanziate tra le odierne Germania, Polonia e Boemia dove si erano stabilite dopo il periodo delle invasioni. Oltre a conquistare il territorio dei Vendi, Enrico ridusse le libertà dei nobili e dei vescovi sia in Sassonia che in Baviera.
Verso il 1170, cominciarono gli screzi tra Federico ed il cugino Enrico, sia per le proprietà in Italia dello zio di entrambi, Guelfo VI, sia per le buone relazioni tra Enrico e l'imperatore bizantino Manuele I Comneno. Comunque l'ultimo incontro amichevole tra i due avvenne a Ratisbona, nel 1174. L'incontro successivo, a Chiavenna, nella primavera del 1176, a detta dei cronisti fu tumultuoso (Enrico aveva rifiutato di mandare truppe in aiuto a Federico che si trovava in difficoltà in Lombardia) e i due si lasciarono da nemici. Dopo la pace tra Federico e Alessandro III, del 1177, il vescovo di Halberstadt, Ulrico, spodestato, nel 1160, perché fedele ad Alessandro, riebbe la sua sede e pretese di annullare tutte le decisioni a favore di Enrico, prese negli anni precedenti. Durante la dieta di Würzburg, il 13 gennaio 1180, Enrico fu condannato alla perdita dei suoi feudi. In Sassonia furono restituiti ai vescovi tutti i territori loro sottratti da Enrico, la Vestfalia, con poteri ducali, fu data all'arcivescovo di Colonia, Filippo di Heinsberg, mentre il ducato di Sassonia fu dato al figlio di Alberto l'Orso, il principe degli Ascani, Bernardo di Anhalt. In Baviera, la Stiria divenne un ducato autonomo e fu concessa al duca di Boemia, Ottocaro I, mentre il ducato di Baviera fu dato a Ottone I di Wittelsbach. Enrico continuò a battersi, anche dopo la sentenza definitiva e sino al luglio 1180, ebbe la meglio sugli avversari, ma in quel mese l'imperatore, Federico, scese in campo di persona. Il re di Danimarca Valdemaro abbandonò Enrico e passò con l'imperatore e in pochi mesi la situazione si ribaltò. Dopo la perdita di Lubecca, Enrico si arrese, fece atto di sottomissione a Erfurt nel 1181, riottenendo solo i suoi possedimenti personali: (l'allodio), ma fu condannato all'esilio. Enrico partì nell'estate del 1182 recandosi alla corte del suocero, Enrico II d'Inghilterra; rientrò in Germania nel 1185, ma non riottenne i ducati persi. La caduta di Enrico portò la pace nel nord del paese ma significò anche l'indipendenza del regno di Danimarca il cui re non riconobbe più l'autorità imperiale, il nuovo re Canuto VI, nel 1182, rifiutò di fare atto di omaggio a Federico. Filippo di Heinsberg, arcivescovo di Colonia e duca di Vestfalia, con l'appoggio di papa Urbano III divenne il capo dell'opposizione all'imperatore, e in un primo tempo riuscì a raccogliere intorno a sé parecchi nobili e la maggioranza del clero, ma, nel dicembre 1186, in una dieta, a Gelnhausen, Federico riuscì a riportare i vescovi dalla sua parte e le minacce del papa risultarono vane. Urbano III però morì all'improvviso, nell'ottobre del 1187, e Filippo, che già aveva perso l'appoggio dei vescovi fu lasciato praticamente solo e si presentò all'imperatore, a Magonza, nel marzo del 1188, chiedendo perdono. Federico stava preparandosi a partire per la crociata, lasciando il governo dell'impero nelle mani del figlio, Enrico VI, che era già stato incoronato re di Germania, quando Enrico il Leone cominciò a dare segni di irrequietezza; allora Federico, nell'agosto del 1188, lo convocò alla dieta di Goslar, dove condannò Enrico e il figlio maggiore, anche lui di nome Enrico, futuro duca di Brunswick e conte palatino del Reno, all'esilio per tre anni.
Si può affermare che l'azione di Federico in Germania diede un grave colpo al sistema basato sull'equilibrio tra gruppi etnici e portò alla fondazione di un assetto a base territoriale e feudale, destinato a porre le radici federative della Germania moderna.
La prima discesa in Italia (1154-55).
Nell’ottobre del 1154, un anno e mezzo circa dopo aver preso a Costanza i necessari
accordi con il pontefice e alcuni governi signoriali e comunali lombardi, Federico si muove
da Augusta e lungo la via del Brennero scende in Italia
alla volta di Roma, dove avrebbe cinto la corona imperiale. Lo scorta il cugino Enrico il
Leone e lo segue un corpo di spedizione di: circa 1800
cavalieri, il che significa più o meno 5000-6000 armati.
Il 5 dicembre si tiene a Roncaglia, presso Piacenza, la
prima dieta del regno d’Italia, alla presenza di molti nobili cisalpini e delle rappresentanze
delle città lombarde: in particolare di Milano, che avrebbe voluto farsi formalmente
confermare la sua egemonia di fatto sulle vicine Lodi e Como; e di queste ultime, nonché
di Pavia, che si lamentano invece delle prepotenze di Milano.
Il giovane sovrano entra così in contatto col ginepraio italo-settentrionale,
protagonista e nodo del quale è Milano che minaccia Lodi e Como, sostiene
Crema contro Cremona, appoggia Brescia contro Bergamo, estende la sua
egemonia: verso il Novarese, grazie all’amicizia dei conti di Biandrate, e verso il
Piemonte sfruttando l’alleanza di Asti, Chieri e Tortona. L’antica capitale longobarda, Pavia,
invidia la rivale in ascesa e le si oppone appoggiandosi a Genova, a Novara e al
marchese del Monferrato.
Federico prende tempo: si rende conto che - come in Germania - il suo ancor fragile
potere si sarebbe avvantaggiato appoggiandosi a già consolidate situazioni di fatto.
D’altronde, erano in gioco i poteri della corona sul regnum Italiae poteri che erano rimasti lettera morta da oltre un
secolo. Da un lato si trattava di riaffermarli e farli riconoscere, dall’altro di non allarmare
troppo il ceto feudale e le città che - abituati a non rispettarli più - fingevano d’ignorarli.
Comunque, se in Germania egli aveva accettato molte situazioni di fatto, e in particolare la
supremazia di Enrico il Leone, duca di Baviera e di Sassonia (e così di fatto signore di
mezza Germania) e aveva consentito a una pratica condivisione del potere, in Italia opta
per una differente politica: e decide di dare una dura lezione a Milano e ai suoi
alleati.
Muove contro Milano devastando e
incendiando i castelli prossimi alla città e posti a sua avanguardia oltre il Ticino e verso
Novara. Ma non osa attaccare Milano; è troppo ricca e potente perché Federico possa
rischiarvi la sua
reputazione.
Ai primi del 1155 il re si sposta verso Novara e Vercelli, attestandosi nelle terre del
fedele marchese di Monferrato. Attraversati poi i territori di Vercelli e di Torino, tra il
gennaio e il febbraio assale Asti (obbligandola a riassoggettarsi al marchese del
Monferrato), distrugge Chieri, incendia e saccheggia dopo un lungo assedio
Tortona. Fu una campagna costosa e sanguinosa: il cui prezzo fu però in gran parte
pagato dal marchese del Monferrato e dai pavesi, Finalmente il sovrano cinge nella
chiesa di San Michele a Pavia, nella quarta domenica di Pasqua, il 24 aprile 1155, la corona
ferrea di re d'Italia.
All’inizio di maggio 1155 passa il Po; alla metà del mese è a Bologna, valica l'Appennino prendendo la via verso Roma: giunto a Pistoia e
passato l’Arno a Fucecchio imbocca la Via Francigena (percorsi usati dai pellegrini per raggiungere Roma dalla Francia) che lo avrebbe condotto a Roma.
Il nuovo pontefice Adriano IV non si sente sicuro in Roma, dov’era in corso
la rivolta dei seguaci del monaco Arnaldo da Brescia, che avrebbe voluto instaurarvi un
libero comune, mentre la minaccia normanna preme da Sud.
Non resta che far buon viso al re dì Germania, che veniva quale re eletto dei romani e
Defensor Ecclesiae a prendere dalle sue mani la corona imperiale, com'era suo diritto
secondo le consuetudini e gli accordi di Costanza. Federico avanza
quasi a marce forzate, con un piccolo ma agguerrito esercito. Viene da amico e da
protettore, o da nemico e da conquistatore?
Al papa, l'idea di riceverlo in Roma - consegnandogli così virtualmente la città - non
piace: si muove quindi alla sua volta. L'incontro ha luogo l'8 o il 9 giugno 1155
presso il campo imperiale eretto non lontano dalla cittadina di Sutri.
L'esercito imperiale giunge a Roma verso il 18 giugno, e in quel giorno Federico
cinge la corona imperiale in San Pietro. Era di sabato anziché di domenica, come sarebbe
stata usanza: e anche ciò prova che la cerimonia dell'incoronazione si svolse all'insegna
della fretta. Ma il clima non era tranquillo: un grave tumulto indusse Federico e Adriano a
uscire in fretta da Roma. Peraltro, Federico aveva fretta di rientrare in Germania,
da dove era lontano ormai da molti mesi. Lungo la via del ritorno, l’esercito imperiale
assale e saccheggia Spoleto - per una questione di tasse non pagate - puntando
poi lungo la Flaminia verso il litorale adriatico. Ai primi di settembre, alle “Chiuse”
dell’Adige, l’esercito viene disturbato da un’azione d’agguato dei veronesi.
Il risultato della prima campagna di Federico in Italia non era stato del tutto felice. Il
giovane sovrano, oltre a cingere le corone italica e imperiale, aveva senza dubbio ricevuto
attestati di devozione e di fedeltà: ma non aveva potuto evitare di lasciarsi coinvolgere
nelle beghe delle città e dei signori feudali, non era riuscito a trovare un vero e proprio
accordo col pontefice e con
le sue dimostrazioni di forza non solo si era creato molti nemici, ma anche e
soprattutto aveva allarmato un po’ tutti. Fra i risultati negativi di ciò - anche se non
immediatamente evidenti - furono il riavvicinamento del papa sia al re di Sicilia, sia
all’imperatore bizantino che cominciò ad abbandonare quell’alleanza con la casa di Svevia
ch’era stata uno dei punti di forza del predecessore di Federico, Corrado III.
Sembrava che ormai Adriano IV, Guglielmo d’Altavilla, Manuele Comneno e le città
italiche avessero individuato nel giovane ed energico sovrano tedesco l’avversario da battere,
o comunque il pericolo da contenere.
La seconda discesa in Italia (1158-1162)
Alla fine del giugno 1158, Federico intraprende la sua seconda discesa in Italia. Lo
avevano preceduto due legati, Rainaldo di Dassel e Ottone di Wittelsbach, còmpito
essenziale dei quali era catalizzare contro Milano le forze italiche disponibili; e i milanesi
sapevano fin troppo bene che scopo della discesa dell'imperatore al di qua delle Alpi era
piegarli definitivamente. Essi avevano contribuito a riedificare Tortona, avevano di nuovo
assalito Como e Lodi e intanto avevano dato avvio a una colossale opera di fortificazione
urbana e costruzione di macchine da guerra; in relazione a essa, emerge già un nome
consacrato alla leggenda del «genio tecnologico» della città: il magister Guitelmo. Pare che i costi di queste fortificazioni ascendessero alla somma astronomica
di 50.000 marche d'argento.
Verona, Mantova, Cremona, Pavia si impegnarono, con Federico, a non
appropriarsi dei regalia, cioè dei diritti giuridici e fiscali che erano prerogativa del re. Piacenza
s'impegnò a fare la guerra a Milano con un contingente di 100 cavalieri e 100 arcieri e a
versare un contributo di 600 marche d'argento. Anche lodigiani, pavesi, cremonesi e
comaschi assicurarono che si sarebbero uniti all'armata imperiale. Ma in Emilia, in
Romagna, nelle Marche e in Toscana i due ambasciatori imperiali non mancarono di
rilevare segni massicci della diplomazia e dell’oro tanto dell’imperatore bizantino quanto
del re di Sicilia, che stavano lavorando per compromettere l'azione di Federico.
La discesa di Federico era stata concepita in modo grandioso. Il concentramento
delle truppe era fissato ad Augusta per la Pentecoste, che quell'anno coincideva con l'8
giugno. Il corpo principale di spedizione, guidato da Federico e forte di un migliaio di
cavalieri e di parecchie migliaia di fanti, avrebbe passato le Alpi al Brennero e attraverso
Trento e Verona avrebbe marciato verso il punto d'incontro delle varie colonne, fissato il
10 luglio sul Mincio; altri sarebbero passati dall'Engadina e da Como; contingenti burgundi
e lorenesi (cioè quelli dell'area occidentale della compagine imperiale) avrebbero valicato il
Gran San Bernardo; quelli dell'area orientale, vale a dire provenienti dall'Austria, dalla
Boemia e dalla Carinzia, avrebbero preso la via del Friuli. Fra i grandi alleati dell'impero, il
re Geza d'Ungheria aveva inviato cinquecento armati; numerosi anche i principi tedeschi,
laici ed ecclesiastici.
Il 10 luglio, avvenuto il congiungimento delle truppe tra le quali forte era la
presenza italica (pavesi, cremonesi, lodigiani, comaschi, toscani), iniziava l'assedio della
prima sicura alleata di Milano che le schiere di Federico avevano trovato sul loro cammino:
Brescia. Con grande gioia dei bergamaschi, che l'imperatore aveva invitato a unirsi a lui
contro la loro nemica, il territorio soggetto a Brescia venne devastato. Dopo una
resistenza durata due settimane, i bresciani si piegano: accettano di prestare al
sovrano il loro giuramento di fedeltà, di fornirgli ostaggi in garanzia e anche un contingente
di soldati per l'assedio della loro alleata, Milano.
Federico ordina quindi la ricostruzione della sua fedelissima Lodi, che i milanesi
avevano distrutto, e subito dopo passa l'Adda; occupato il castello di Trezzo, che
dominava il fiume, il 5 agosto 1158 si accampa dinanzi a Milano. All'inizio di settembre,
Milano capitola. L'accordo, steso grazie alla mediazione dell'arcivescovo Oberto e del
conte di Biandrate, prevedeva che i milanesi avrebbero dovuto giurare fedeltà al sovrano,
rinunziare ai regalia che avevano fin allora usurpato, innalzare per lui un palazzo nella loro
città, pagare una forte indennità in denaro (9000 marche d'argento), liberare tutti i
prigionieri delle città lombarde che avessero ancora presso di loro, riedificare Como e
Lodi, fornire all'imperatore trecento cittadini in ostaggio. I milanesi avrebbero potuto
continuare a eleggere i loro consoli, ma a patto che questi giurassero nelle mani
dell'imperatore o dei suoi legati, i quali - al pari di lui - avrebbero avuto diritto, quando
fossero venuti in città, a soggiornare nel nuovo palazzo. A questi patti l'imperatore
accettava di liberare dal suo bando, sia milanesi, sia cremaschi: anche se l'atto formale
della sospensione del bando costava 120 supplementari marche d'argento.
Da Milano, Federico si spostò con studiata lentezza verso sud dove l’11 novembre apre, ancora una volta, a Roncaglia, una nuova dieta del regnum
Italiae. Roncaglia fu la sede per una grande proposta di ridefinizione dei rapporti fra potere
regio e realtà politiche italiche. Da un lato la teoria della legittimità dei regalia, appoggiata,
sia all'autorevole parere degli esperti universitari convocati attorno al sovrano nella prima
grande assise politico-culturale di segno «laico» che l'Europa medievale ricordi, sia
all’armata tedesco-boemo-burgundo-italica una parte della quale (l'italica, appunto) era, si
badi bene, direttamente interessata alla ridefinizione delle prerogative regie. Dall'altro, la forza delle cose: una forza, e una logica a essa legata, che
poteva ben lasciarsi piegare dalle armi ma che era destinata a riemergere e a riaffermarsi
una volta che la pressione militare si fosse allentata. In palio c'era qualcosa di ben più
importante delle pur ingenti rendite finanziarie dei regalia. Una commissione imperiale fu
incaricata di rivedere tutti gli antichi diritti regi e di stabilire quali dovessero essere restituiti
alla diretta gestione del sovrano, quali invece potessero in qualche modo esser delegati
dietro corresponsione di somme idonee a risarcire l’erario imperiale. Si calcolò che
l’esercizio dei regalia avrebbe dovuto rendere all’erario una somma di circa 30.000 marche
d’argento per anno.
Federico passò l’inverno indugiando fra Piemonte e Lombardia. Intanto i legati
imperiali Ottone di Wittelsbach e Rainaldo di Dassel - che proprio nel gennaio 1159 aveva
ricevuto la cattedra arcivescovile di Colonia - si recarono a Milano per imporre il pieno
rispetto dell’accordo del settembre e delle decisioni di Roncaglia: il che, nella pratica,
significava per la città lombarda un assoggettamento assoluto. Sembra però che un
tumulto popolare, che sorprese e travolse gli stessi membri del governo comunale,
sopraffacesse gli ambasciatori imperiali e li costringesse alla fuga.
Federico sulle prime fece buon viso alla nuova situazione, accettando una trattativa.
Tuttavia, nell’aprile, la notizia di offensive milanesi contro piazzeforti a lui fedeli lo mandò
su tutte le furie. Guadagnò Bologna, dov'era il suo esercito; nella città universitaria
riunì i suoi professori e proclamò Milano ribelle all'impero. Giungevano intanto i rinforzi
che da tempo egli aveva chiesto in Germania: li guidavano Enrico il Leone, Guelfo di
Memmingen, Rainaldo di Dassel, il quale rientrava dalla sua diocesi di Colonia in cui
rapidamente si era insediato, e la stessa imperatrice Beatrice.
Con queste nuove forze e con l'aiuto dei vari contingenti dei comuni a lui fedeli,
Cremona soprattutto, poté dare inizio nel luglio all'offensiva assediando Crema, fedele
alleata di Milano. Fu un assedio lungo e crudele, che durò sei mesi e durante il quale
assedianti e assediati dettero prova di ferocia. Verso la fine del gennaio del 1160 gli
stremati cremaschi dovettero arrendersi e la città fu distrutta senza misericordia. Con l'assedio di Crema e poi con quello di Milano emerge una debolezza militare delle città lombarde; esse sono preparate a sostenere guerre difensive, ma non offensive. Ciò spiega il mancato aiuto di Milano all'assediata e fedele Crema.
Frattanto, qualcosa di molto grave sta avvenendo su un piano religioso e politico. Papa Adriano era morto nel settembre del
1159, e, in circostanze drammatiche, una fazione cardinalizia elegge papa Rolando
Bandinelli (che assume il nome di Alessandro III), mentre quella avversaria proclama pontefice Ottaviano Monticelli (che sceglie il nome di Vittore IV). I due pontefici
contrapposti hanno preso sede rispettivamente in Anagni e in Segni, distanti in linea
d'aria poche miglia. Come primo atto, ciascuno dei due si
affretta a colpire il rivale con la scomunica.
Dal suo padiglione all'assedio di Crema, Federico segue lo sviluppo della vicenda.
Ha contribuito a determinare l'elezione di Ottaviano (Vittore IV): tuttavia non si aspettava e non
voleva uno scisma. In quanto defensor Ecclesiae convoca dunque un concilio a Pavia, nel
quale avrebbero dovuto comparire i due papi. Il concilio di Pavia si apre il 5 febbraio 1160.
Dei due convocati, solo Vittore risponde all'invito: Alessandro si è sdegnosamente
rifiutato di riconoscere la validità di quel concilio, al quale erano presenti solo una
cinquantina di vescovi di città tedesche o italiane fedeli all'imperatore. A quel punto, era
impensabile giungere per via di pacifica composizione alla soluzione dello scisma.
Federico abbandona la linea moderata fin lì tenuta nei confronti di Alessandro. Vittore viene
confermato pontefice, mentre l'elezione di Alessandro è dichiarata nulla,
sostanzialmente per motivi politici. S'impose cioè la tesi ch'essa fosse l'esito di una
congiura fra alcuni cardinali, il re di Sicilia e i milanesi con lo scopo di eleggere un papa
che avrebbe, poi, scomunicato l'imperatore.
Alessandro e i suoi partigiani non perdono tempo. Già il 28 febbraio 1160, a Milano,
Giovanni cardinale di Santa Ilaria in Portico e l'arcivescovo milanese Uberto
scomunicano tanto Vittore IV quanto Federico; e qualche giorno più tardi analoga
scomunica tocca ai vescovi e ai consoli delle città lombarde che hanno aderito al
concilio di Pavia, nonché al marchese di Monferrato e al conte di Biandrate.
Ma la
questione interessa l’intera Cristianità: e i sovrani europei sono turbati per le pretese
di dominio universale avanzate da Federico e dai suoi propagandisti nel nome del diritto
giustinianeo.
Anche per questo, sia pure con parecchie reticenze e vari ripensamenti diplomatici, i
re di Francia e d'Inghilterra si sono schierati con Alessandro; e così i sovrani e
le Chiese d'Ungheria, di Castiglia, d'Aragona e della Terrasanta crociata.
Per Vittore IV si
dichiara la maggioranza dei prelati di Germania, di Borgogna, nonché quelli di
Boemia e di Danimarca che riconoscono la sovranità feudale dell'imperatore. Ma, per
quel che riguarda l'Italia, l'obbedienza all'uno o all’altro dei due pontefici si decide
logicamente città per città e regione per regione, a seconda dei rapporti con Federico. In
Lombardia, ad esempio, è logico che Milano sia la grande sostenitrice di Alessandro e
che ciò influenzi l'intera geografia regionale delle adesioni al Bandinelli e al Monticelli.
Lo scisma si trascinerà per lunghi anni, fino al 1177, e farà da sfondo alla lotta fra l'imperatore da un lato, il papa e i comuni lombardi
dall'altro.
Intanto Federico intensifica le operazioni nella pianura
lombarda. Ma le sue forze e quelle dei comuni e dei feudatari suoi alleati sono, tutto
sommato, abbastanza esigue: egli avrebbe stretto volentieri Milano d'assedio, ma la sua
armata non era neppure sufficiente a cingerne il perimetro. In queste condizioni egli
poteva solo razziare le campagne circostanti alla città per tagliarle i rifornimenti: ma tale
tattica, alla lunga, nuoceva alle sue stesse truppe che dopo aver desolato i dintorni non
riuscivano a trovare vettovaglie bastanti. E così il dominus mundi, che aveva impiegato
sette lunghissimi mesi a conquistare la non certo formidabile città di Crema, nel giugno
resta preoccupato dai milanesi che - mentre egli devasta le campagne fra Legnano e
Rho - gli mandano contro un corpo di spedizione "tecnologico" del quale figurano
un centinaio di carri corazzati e «falcati», cioè muniti tutt'intorno di falci: pare che
l'invenzione di questi protopanzer si debba attribuire al solito mitico maestro Guitelmo. Il 9
agosto poi l'imperatore è sconfitto dai milanesi nella battaglia attorno al castello di
Carcano. La sconfitta non è importante sul piano propriamente militare, ma costituisce il
segno d'una debolezza della quale lo Svevo è ben consapevole e per ovviare
alla quale egli ha da tempo richiesto aiuto in Germania, dove tuttavia il suo più
importante principe, Enrico il Leone, è impegnato a guerreggiare nei territori ad Est.
Alla fine, nella primavera del 1161, i rinforzi tedeschi arrivano insieme con altri
dall'Ungheria: e allora - con l'aiuto delle macchine d'assedio inviate dai vescovi di Novara,
Asti e Vercelli nonché dal marchese di Monferrato, dal marchese Malaspina, dal conte di
Biandrate, da altri nobili lombardi e dalle città di Como, Lodi, Bergamo, Cremona, Pavia e
altre - vengono riprese le operazioni contro Milano. Può così cominciare, fra la primavera e l'estate 1161,
l'assedio sistematico e razionale alle formidabili fortificazioni milanesi ideate da mastro
Guitelmo. Ma esso resta duro e complicato da innumerevoli manovre politiche.
Fra i principi tedeschi, v'è qualcuno che intende emergere e affermare il proprio ruolo
nei confronti dell'imperatore; soprattutto, molti odiano il cancelliere Rainaldo e sono disposti a fare qualunque cosa per
scalzarlo dal suo posto e per minare la fiducia che il sovrano mostrava nelle sue
scelte e nei suoi consigli. Che Milano cadesse, addirittura ai fini della
composizione dello scisma, era una tesi di Rainaldo. Federico non manca di dare agli
assediati prove della sua inflessibile determinazione: come quella di riconsegnare alcuni
cittadini caduti suoi prigionieri dopo averli accecati tutti salvo uno (al quale era stato però
tagliato il naso) perché potesse guidarli. Ormai per lui la caduta della città è molto più di
un obiettivo militare.
Ai primi del 1162 la città, esausta, chiede di arrendersi. Federico è rigoroso, ma in
genere non ama forzare le situazioni perchè sa che un nemico oggi può diventare amico domani. Detta quindi condizioni di pace severe, ma in
fondo improntate allo spirito di Roncaglia: ciò senza dubbio con soddisfazione dei nobili
tedeschi e di coloro che, come Guido di Biandrate, consigliavano la moderazione. I
milanesi avrebbero dovuto accettare un podestà tedesco o loro concittadino, ma scelto dal
Sovrano; mura e torri della città sarebbero state rase al suolo e ricostruite solo quand'egli
lo avesse consentito; ma la città, sia pure ridotta di dimensioni, sarebbe sopravvissuta. Fra i consiglieri dell'imperatore, soltanto
Rainaldo era contrario: secondo lui, Milano andava completamente distrutta.
Ma anche nella città assediata serpeggiavano le rivalità, che avevano avuto effetti negativi nel corso della battaglia. Milano,
profondamente divisa al suo interno da contrapposte fazioni politiche e da divergenti
interessi economici, non era affatto concorde nella lotta, e ciò si rifletteva anche
nelle varie posizioni in quel particolare momento. V'erano i fautori della resa; i partigiani della resistenza a
oltranza; perfino i sostenitori più o meno occulti di Federico. Così, i negoziati erano quasi conclusi quando in
città scoppia un tumulto.
Comunque sia, il 1 marzo 1162 i consoli milanesi arrivano a Lodi, le spade
nude appese al collo in segno d'umiliazione, e si gettano come rei di alto tradimento ai
piedi del sovrano implorando clemenza. Il 4 giungono a
Lodi trecento cavalieri; chiedono pietà per Milano, consegnano all'imperatore i loro stendardi e offrono le chiavi della città. Il 6 giunge infine il Carroccio, accompagnato da un migliaio
di armigeri. All'indomani, il sovrano scioglie le riserve. Secondo la legge i milanesi sono - in
quanto traditori - passibili di condanna a morte; egli garantisce comunque le loro vite e li
scioglie dal bando. Tuttavia i consoli sarebbero stati imprigionati, i cavalieri avrebbero
dovuto fornire ostaggi, le mura abbattute e i fossati cittadini colmati in modo da permettere
all'esercito imperiale di entrare in città schierato in ordine di battaglia. Il 19 ordina ai
milanesi di uscire dalla città e di stabilirsi in quattro località da lui scelte. Il giorno dopo cominciano i lavori di demolizione, eseguiti dai
nemici lombardi di Milano: e con tale foga, con tale rancore che neppure le chiese sono
risparmiate e Federico è costretto a intervenire di persona per impedire la profanazione di
alcune reliquie. Per il 10 aprile, domenica delle Palme, la demolizione è terminata. Federico si sposta a Pavia, dove celebra le feste di Pasqua. Milano risorgerà dalle sue ceneri ancora più grande e potente fino a diventare ducato alla fine del trecento assoggettando, pertanto, tutta la Lombardia.
Una volta caduta Milano e imposto ai milanesi come primo podestà imperiale Enrico
vescovo di Liegi, nessuno in Lombardia può ragionevolmente pensare di resistere
all'imperatore. I bresciani e i pochi altri fedeli alleati della città di sant'Ambrogio si
affrettano a piegarsi a loro volta, e a sborsare un’ammenda di 6000 marche
d'argento. 1 piacentini, rei di aver voltato le spalle al sovrano,hanno, a loro volta, mura
abbattute e fossati colmati e devono adattarsi a restituire i regalia, pagare anch'essi
l'indennità di 6000 marche e accettare un podestà nominato dall'imperatore. E sulla
faccenda dei podestà di nomina - o almeno di gradimento - imperiale, Federico non
transige: perfino la fedelissima Cremona, che pure viene omaggiata di privilegi, è costretta ad accettare che i suoi consoli vengano eletti in presenza di un
rappresentante del sovrano che procede poi alla loro investitura formale.
Si rivelavano però, a questo punto, anche le linee di frattura all'interno della
compagine federiciana: le città lombarde antagoniste di Milano avrebbero semplicemente
voluto prendere in tutto il suo posto; il sovrano intendeva invece attuare il dettato di
Roncaglia. La diversità di trattamento riservata a Brescia o a Piacenza da una parte, a
Cremona dall'altra, era senza dubbio sufficiente a creare molti gravi
rancori.
I consoli di Milano chiedono clemenza al Barbarossa
La terza discesa in Italia (1163-1163)
Nell'ottobre 1163, Federico scende nuovamente in Italia, con un piccolo esercito perché già incalzava la riscossa dei comuni italiani, Verona, Padova e Vicenza si erano sollevate, e avevano rifiutato le offerte di pace dell'imperatore, che non disponeva di forze sufficienti per domarle, nemmeno con l'aiuto di Pavia, Mantova e Ferrara. Il 6 novembre 1163 è segnalata la sua presenza a Città di Castello con due atti in cui pone il Vescovo e i canonici sotto la sua protezione. Intanto Rainaldo di Dassel cerca di organizzare una campagna militare contro i Normanni di Sicilia, per la quale doveva avere l'appoggio di Pisa e Genova,che però erano impegnate in un'aspra contesa per il controllo della Sardegna, per cui alla fine avevano rinunciato alla spedizione.
L'imperatore, anche a causa di una malattia, deve tornare in patria: la terza discesa in Italia di Federico è stata brevissima e si è conclusa con un nulla di fatto.
La quarta discesa in Italia (1164-1164)
Nella primavera del 1164, Federico fissa la sua dimora in Italia nella
fedelissima Pavia: lì lo raggiunge la notizia che Vittore IV è morto a Lucca,
il 20 aprile 1164. La morte dell’antipapa avrebbe forse potuto superare
lo scisma: alla corte dell'imperatore non mancano principi e prelati favorevoli a questa soluzione. Ma
sostenitore pervicace dello scisma è il cancelliere Rainaldo, anche perchè lo scisma gli
conferisce sulla fazione imperiale della Chiesa un potere ufficioso quasi pontificio al quale
egli non intende rinunziare. E' così che, frettolosamente, egli riunisce a Lucca il 22
aprile qualche prelato e fa nominare papa il cardinale Guido da
Crema che, incoronato il 26, assume il nome di Pasquale III. Ottenuto con facilità il
consenso dei consoli cittadini e dei feudatari toscani, il cancelliere parte alla
volta di Pavia dove, forse, obtorto collo, Federico gli dà la sua approvazione.
Intanto, nell'aprile 1164, le tre città venete di Verona, Padova e Vicenza si sono strette in
una lega - che viene appunto chiamata lega veronese - contro i continui soprusi dei
funzionari imperiali che le angariano. Anche Treviso si avvicina alla politica delle
città vicine. Venezia, da tempo in rotta con Federico, sostiene la lega. Non si tratta
solo di una violazione patente del divieto stabilito a Roncaglia di stipulare alleanze fra città;
bisogna anche tener conto del fatto che i centri veneti bloccano le vie d'accesso alla
Germania. E chiari segni danno a vedere che anche le città italosettentrionali del centro
e dell'ovest, che per il momento mordono il freno data la presenza del sovrano a Pavia,
si sarebbero volentieri unite ai ribelli non appena ne avessero avuto l'occasione.
I “ribelli”, però, non intendono da parte loro d'esser tali. Quel che vogliono è che il
loro rapporto con l'impero - che in quanto tale non contestano - rientri in quelle
consuetudini che si erano consolidate con i predecessori di Federico. E' un appello alla
tradizione, non alla rivolta. Non si attacca l'imperatore, bensì i suoi
funzionari contro i quali si minaccia anzi il ricorso al sovrano medesimo, ritenuto per
definizione ignaro delle soperchierie che nel suo nome si commettono E d'altro canto è
evidente che si tratta di una parafrasi legalistica per riaffermare la volontà di scrollarsi di
dosso non de iure, però de facto, il giogo imperiale che prima del Barbarossa, tutto
sommato non si era mai fatto sentire. La lega poteva farsi forte dell'appoggio di
Alessandro III e, tramite Venezia, di quello del basileus di Bisanzio. Federico è molto preoccupato: scrive al vecchio fedele vescovo di
Salisburgo, ordinandogli di scendere in Italia per rompere lo schieramento della lega. Fa
pressioni sulla più incerta delle città coinvolte, Treviso, per indurla a recedere dall'alleanza
con i centri vicini; cerca di indurre alla mobilitazione Pavia, Mantova e Ferrara concedendo
loro ampi privilegi, scopo dei quali è solo invogliarle ad appoggiarlo e premiarle per la
loro fedeltà ma mostrare che si può ottenere di più per grazia sovrana che non
tentando la via della ribellione.
Nel giugno l'imperatore entra in armi nel territorio veronese: ma dispone di
truppe scarse e raccogliticce. Fa ogni sforzo per domare la
ribellione veneta, ma invano. Nel settembre 1164 si ritira in Pavia per organizzare il
rientro in Germania, dove si trova già all’inizio di novembre. Ma la situazione italica
resta bollente. I bolognesi hanno ucciso il suo rappresentante Bosone; i piacentini
sono insorti contro il rettore imperiale, Arnoldo di Dorstadt,
cacciandolo. Dal suo osservatorio tedesco Federico vede Roma e la Sicilia sfuggirgli,
papa Alessandro III trionfare sul suo Pasquale ch'è sempre più circondato dal discredito,
i comuni padani avversari rialzare la testa e quelli fedeli cedere sempre più all'ambiguità e
al disorientamento. Si prepara, quindi, per una nuova discesa, che avrebbe dovuto
essere di rivincita.
La quinta discesa in Italia (1166-1167).
Fra marzo e aprile1166, Alessandro III aveva scelto il nuovo arcivescovo per Milano nella
persona di un prelato a lui fedelissimo, Galdino. Alla fine del maggio 1166 Guglielmo I di Sicilia
era morto e gli era succeduto il figlio Guglielmo II, con il quale stava entrando in contatto il
basileus Manuele per un'intesa, mediatore della quale era proprio Alessandro III.
L'imperatore bizantino, approfittando di questa circostanza, andava precisando la sua
politica italica fissando una testa di ponte in Ancona e offrendo sua figlia in
sposa al re di Sicilia. Federico invia presso il basileus un legazione, ma senza risultati.
Bisogna dunque reimporre l'autorità imperiale.
A metà ottobre 1166, Federico parte da Augusta; attraversa le Alpi a marce forzate e alla
fine di ottobre è a Trento. A novembre, fissa per qualche giorno la sua residenza in
Lodi. Qui gli vengono presentati i reclami e le lamentele delle città soggette al
dominio dei suoi potestates. Egli realizza con chiarezza che ormai la
maggior parte dei comuni sono o suoi nemici o infidi alleati, e decide di comportarsi di
conseguenza.
I suoi obiettivi sono almeno due. Per questo l’imperatore divide in tre parti le sue
truppe: un contingente, al suo diretto comando, avrebbe puntato su Ancona attraverso
l'Emilia e la Romagna; altri due avrebbero dovuto puntare su Roma, cacciare Alessandro e
insidiarvi Pasquale. Arrivato a Bologna nel febbraio, Federico le impone di consegnare
degli ostaggi; da lì attraverso la Romagna,
raggiunge Ancona, nel maggio 1167. L'assedio dura
tre settimane e si chiude, secondo alcuni con la resa della città, secondo altri con un
compromesso.
Più brillanti i successi ottenuti dai suoi legati. Presso Roma, a Monteporzio, il 29
maggio 1167si ha uno scontro fra gli imperiali e i romani ch'erano usciti dalla loro
città per piegare Tuscolo, fedele a Pasquale. Scaturisce una straordinaria vittoria imperiale, per
quanto la sproporzione delle forze fosse tutta a vantaggio dei romani, che si rinserrano
nelle loro mura attendendo l'assalto. Federico, tempestivamente avvertito, inverte la
marcia alla volta della Puglia che aveva intrapreso all’indomani di Ancona, e si precipita su Roma.
Intanto, però, erano accadute molte altre cose. Appena l'imperatore aveva
abbandonato l’Italia settentrionale, la rivolta era scoppiata. Perfino Cremona che, con Lodi
e Pavia, era la prediletta e che Federico aveva colmato di favori e di privilegi, ora
insorgeva contro di lui. E proprio con centro in Cremona prendeva corpo una lega nella
quale, con un giuramento dell'8 marzo, convenivano anche Mantova, Bergamo e Brescia.
Le quattro città, liberatesi dei rettori imperiali, giuravano di difendersi a vicenda, di risarcirsi
reciprocamente i danni che si erano inferte negli ultimi dieci anni, di combattere insieme
contro i nemici comuni, di difendere e tutelare tutti quei diritti che avevano acquisito dal
tempo di Corrado III. Tale patto sarebbe stato valido un cinquantennio. Anche Milano
veniva chiamata a siglarlo.
Nulla nel patto suona esplicitamente ribellione contro l'impero, ma intende reagire
alle inaudite novitates introdotte da Federico. I collegati non negano fidelitas al sovrano,
anzi sottopongono il loro accordo alla pregiudiziale salva fidelitate imperatoris: ma si
rifiutano di fornirgli prestazioni che non siano spettate all'impero in precedenza.
Secondo la tradizione, l'impegno delle città lombarde sarebbe stato solennemente
sancito in un incontro dei rispettivi rappresentanti avvenuto, sembra, il 7 aprile 1167, nel monastero di Pontida, fra Bergamo e Lecco. In tale circostanza si
sarebbe tra l'altro deliberato di ricostruire - in pegno di rinnovata concordia - le mura di
Milano con la manodopera fornita da molte città vicine. La ricostruzione delle
mura milanesi era quindi un atto simbolico di ritrovata concordia e, al tempo stesso, una
sfida lanciata a Federico. Il 27 aprile dello stesso mese i milanesi rientrano nella loro
città, nonostante l'interdizione imposta da Federico. Poco prima, la lega aveva ricevuto nuove adesioni, anche da parte delle città
tradizionalmente fedeli all’impero. I cremonesi - ora che Crema era distrutta - ritenevano di
poter tranquillamente far pace con una Milano che peraltro sembrava lontana dal
recuperare il suo vecchio ruolo egemonico. I lodigiani, un po’ intimoriti e ricattati, un po’
allettati da varie promesse, giurano a loro volta. Giura anche Piacenza, e giura anche Parma, che, essendo avversaria di Piacenza, temeva di
restare isolata ora che la rivale aveva aderito alla lega.
Le notizie che erano giunte dal settentrione della penisola alle orecchie del
papa, fra giugno e luglio, erano liete per lui: ma egli non era nella miglior disposizione di
spirito per accoglierle. L'imperatore si avvicinava a grandi passi; intanto, una squadra
navale pisana alleata di Federico bloccava tutto il litorale tirrenico fra Terracina e
Civitavecchia. Gli appelli disperati al re di Sicilia, l'unico che avrebbe potuto recare
soccorso, restavano vani. Il 24 luglio, il Barbarossa giunge sotto le mura di Roma e la
Città viene presto espugnata. Papa Alessandro si salva e trova rifugio
nella grande fortezza dei Frangipane al Colosseo. S'intavolano allora le trattative. I
romani cedono, e al pontefice non rimane che fuggire, travestito da pellegrino, fino a
Terracina: da lì si sarebbe diretto a Benevento, sotto la protezione di
Guglielmo II.
I vincitori cantarono il 29 luglio 1167 il Te Deum nella basilica di San Pietro, riconsacrata
dopo la battaglia. Federico poteva celebrare il suo trionfo. Il 30 luglio il suo papa Pasquale
fu solennemente intronizzato in San Pietro. Il 10 agosto egli poté così rinnovare
solennemente la cerimonia dell'incoronazione di Federico, al cui fianco stava, anch'essa
incoronata, la consorte Beatrice.
All’indomani dell’incoronazione si scatena però un’epidemia che colpisce l’esercito
imperiale. Il 6 agosto Federico decide di lasciare Roma. Accomiatatosi a Viterbo
da papa Pasquale, Federico procede verso nord. Si trascina dietro una truppa di
ammalati, fra i quali la morte miete di continuo vittime; muore il 14 agosto anche Rainaldo
di Dassel. La fama degli eventi romani, divulgata dai messi pontifici, corre lungo la penisola.Gli abitanti di Pontremoli bloccano il passo della Cisa, dove la Via Francigena
abbandonava la Toscana per entrare in Emilia, a Federico non resta che aggirare il colle per giungere
con l'aiuto del grande dominus loci, il marchese Malaspina, a Pavia il 12
settembre. Nella città, che gli era ancora fedele, l'imperatore viene informato
della ribellione delle città lombarde.
Federico accetta la sfida: il 21, da Pavia, emana contro le città della lega il bando
imperiale, facendo tuttavia eccezione per Lodi e Cremona. Ha chiamato, intanto,
i suoi fedeli: i pavesi, i novaresi, i vercellesi, Obizzo Malaspina, il marchese di Monferrato,
il conte di Biandrate. Con l'esercito così rinforzato inizia a scorrere e
a saccheggiare il milanese, validamente contrastato da lodigiani,
bresciani, bergamaschi, cremonesi, parmensi. Ma l’11 novembre, il giorno di San Martino, i milanesi lo costringono a chiudersi in Pavia e lo
assediano.
A questo punto, i lombardi dovettero credere di averlo ormai in pugno: il 10 dicembre
1167 i rappresentanti di sedici città, fra cui vi erano tutte quelle della lega veronese del
1164 e della posteriore lega cremonese, s'incontrarono e stabilirono di convergere in una
sola Societas Lambardiae, quella che noi chiamiamo lega lombarda. C'erano Venezia,
Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Cremona, Brescia, Bergamo, Milano, Lodi, Parma,
Piacenza, Mantova, Ferrara, Bologna, Modena. Contro forze così formidabili non era
possibile resistere. Federico lascia Pavia, ormai divenuta essa stessa
infida, e si dirige verso le terre di Monferrato e dei conti di Biandrate. Qui sverna in
attesa di riprendere, alla fine della cattiva stagione, la via per l'Oltralpe.
La lega lombarda si dà proprie istituzioni, ben distinte da quelle di ciascun
comune partecipante: ogni città eleggeva un suo rettore per la lega, con carica valida per
un anno; il collegio dei rettori si riuniva in una città della lega a sua scelta, in genere
sempre diversa; le riunioni erano saltuarie, o comunque non sembra avessero precisa
periodicità; i rettori stabilivano le misure militari e diplomatiche da prendere, discutevano
sull'accettazione di nuovi aderenti, si costituivano in tribunale per dirimere i contrasti sorti
fra i partecipanti alla lega.
Con la fine dell'inverno, l'imperatore si decide ad affrontare le Alpi; intanto Filippo di
Heinsberg, succeduto a Rainaldo di Dassel come arcivescovo di Colonia, aveva insediato
a Roma Pasquale III; Italia centrale e Toscana sembravano nel complesso ancora ligie a
Federico. Ma a Benevento Alessandro tramava con i comuni lombardi, con il re di Sicilia,
con Venezia, con il basileus Manuele.
L’imperatore decide allora di raggiungere la Germania, al fine di riorganizzarsi.
Valicato il Moncenisio, attraverso una Borgogna che trova quasi del
tutto votata alla causa di Alessandro, l’imperatore giunge a metà marzo 1168 a Basilea, al
confine fra il regno di Borgogna e il ducato di Svevia.
Sesta discesa in Italia (1174 - 1176)
Dal marzo 1168 al settembre 1174, il sovrano non mise più piede in Italia. Seguiva
con attenzione l'evolversi per lui allarmante dell'amicizia tra papa Alessandro, i comuni, i
re di Sicilia e il basileus; cercava di riorganizzare la sua amministrazione del regnum
Italiae e di rinnovarne il personale. Ma le questioni tedesche erano state troppo a lungo
trascurate a vantaggio di quelle italiane. Bisognava risolverle prima di tornare in Italia e
fare i conti con la lega.
Scendendo per la sesta volta in Italia, nell'autunno del 1174, Federico trova parecchie cose cambiate rispetto a sei anni prima. Che cos'era accaduto? In
sintesi, tre avvenimenti. Primo: Milano non solo era risorta dalle sue rovine, ma aveva assunto di
nuovo il suo ruolo egemone in tutta l'Italia settentrionale, guadagnandosi la leadership di
una lega lombarda ch'era intanto diventata un organismo colossale, anche se non unitario
né agile; secondo, il prestigio di papa Alessandro III era divenuto universale, al punto che
il mantenimento dello scisma suonava ormai ridicolo; terzo, l'influenza del re di Sicilia e
dell'imperatore di Costantinopoli era cresciuta, e i rapporti di entrambi con il papa e i
comuni lombardi si erano rafforzati ulteriormente.
Nell'aprile del 1168, alla confluenza fra il Tanaro e la Bormida, in un'invidiabile
posizione strategica incuneata fra il territorio di Pavia, le terre del marchese di Monferrato
e quelle dei conti di Biandrate nonché in grado di controllare l'accesso dell'entroterra
lombardo dal mare di Genova, veniva fondata una nuova città. Erano i comuni della lega a
fondarla, sfidando il marchese di Monferrato e i pavesi. Ma la fondazione di una città era una
prerogativa regia: per cui la sfida vera andava a Federico. Non a caso, in omaggio a papa
Bandinelli, l'avevano chiamata Alessandria.
La fondazione di Alessandria precede di poco la dieta di Lodi, nel maggio, durante
la quale si ripeté - con qualche variazione - il giuramento del dicembre 1167 e si presero
varie decisioni fra cui quella di stabilire una sorta di tribunale arbitrale interno alla lega che
sostituisse il diritto d'appello all'imperatore: in altre parole, la lega si arrogava funzioni
pubbliche nel momento stesso in cui - decretando l'invalidità di appelli all'imperatore -
impediva l'esercizio di quelle giuridicamente parlando legittime. Era evidente che ormai i
lombardi non intendevano più recedere dalle loro scelte. Il fatto che la lega si dotasse di
un suo sigillo nel quale era effigiata un’aquila simile all'imperiale - ma con la testa rivolta a
sinistra anziché a destra - e di un proprio vessillo, prova della sua ormai evidente
volontà di sostituirsi all'impero come autorità pubblica, o comunque d'imporsi a esso come
entità sovracomunale. I patti della lega venivano periodicamente giurati di nuovo, mano a
mano che le adesioni giungevano a rafforzarne la compagine. E attraverso la sua politica
si possono discernere le linee di un'organizzazione territoriale, d'una politica viaria e
commerciale comune, d'un sistema doganale.
Le adesioni erano infatti pian piano aumentate fino a comprendere tutti i centri
principali di quelle che per noi sono le regioni di Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, ivi comprese le città che, al pari di Como (che aderì alla fine del 1168) o di
Pavia (che aderì nel 1170), avevano alle spalle una tradizione imperiale consolidata ma
che vennero indotte o costrette a collegarsi con la Societas per non subire
l'isolamento e la pressione militare delle altre. Pian piano, le città aderenti giunsero al
numero di trentacinque, anche se i rispettivi rappresentanti non furono mai tutti presenti
nelle varie riunioni della lega.
La lega aveva tuttavia tre punti deboli: era concepita per la guerra e non per la pace,
e dunque per ben funzionare aveva bisogno di un nemico comune senza il quale avrebbe
preso a languire; era il risultato del convergere di interessi diversi e di forze disuguali, per
cui era fatalmente candidata all'insorgere di rivalità interne e al costituirsi di egemonie non
gradite nella stessa misura da tutti i suoi membri; esisteva una certa confusione fra i poteri
dei rettori della lega e le prerogative dei dirigenti dei singoli comuni.
Come detto, nel settembre del 1174, Federico cala in Italia. Asti si arrende subito, e a lui
accorrono - impauriti e desiderosi di perdono o avidi di rivalsa sulla lega che per anni li
aveva costretti a subire la sua alleanza - i tradizionali alleati piemontesi e lombardi: il
marchese di Monferrato, il conte Uberto di Biandrate e le città di Alba, Acqui, Pavia, Como.
Il panico sorprende la lega, che rivela a quel punto un fondamentale punto di debolezza: la difficoltà
e la lentezza nell'assumere decisioni, corrispettivo del resto della mancanza di
coesione. I collegati ben sapevano, e da tempo, che Federico stava preparando la
vendetta; e sapevano altresì che di certe tardive e coatte adesioni alla loro alleanza non
era il caso di fidarsi. Eppure, in quell'autunno, sembra si lasciassero prendere di
contropiede. Vero è d'altronde che giocano la carta vincente concentrando il loro
potenziale difensivo su Alessandria.
Alla fine d'ottobre Federico pone l’assedio alla nuova città, non tanto perché la
ritenesse un importante obiettivo militare, quanto perché essa era il simbolo della
resistenza contro di lui. Ma l’assedio va per le lunghe, fra un autunno molto piovoso e
un inverno durissimo. Dopo un inverno d'inutile assedio Federico si ritira: anche perché
ha saputo che due contingenti nemici, guidati da Ezzelino da Romano e da Anselmo
da Dovara e forti di parecchie migliaia di uomini, si andavano avvicinando. L’imperatore
è circondato dagli eserciti della lega che, tuttavia, non osa attaccarlo. Tortona si arrende
all'imperatore, anzi - per gelosia nei confronti di Alessandria - passa dalla sua parte. Pochi
giorni dopo, i due eserciti si trovano ancora di fronte in un'altra piana adatta alla prova
delle armi, tra Voghera e Casteggio. E evidente che Federico si stava dirigendo su Pavia,
dove si sarebbe forse attestato; ed è altrettanto evidente che i collegati non avevano
alcuna intenzione di farcelo arrivare. Tuttavia essi, pur disponendo della netta superiorità
numerica, esitano a loro volta ad attaccar battaglia. Si giunge così, grazie anche alla
mediazione dei consoli di Cremona, alla «pace» di Montebello.
La lega chiede, fra l'altro: che lo scisma abbia termine; che l'imperatore si
accontenti di quelle prestazioni che le città avevano reso all'impero prima di lui, e sulle
quali tuttavia ci si riservava di trattare a parte; che ciascuna città potesse liberamente
eleggere i suoi consoli; che la lega stessa fosse riconosciuta. I collegati si dichiaravano
disposti a pagare all'impero certe tasse ma volevano da esso il diritto a disporre dei regalia. L'arbitrato dei consoli di Cremona manteneva sostanzialmente queste richieste
introducendo però due modifiche: primo, non si parlava più di fine dello scisma: secondo,
Alessandria avrebbe dovuto essere distrutta, fatti beninteso salvi vita e beni degli abitanti.
L'imperatore era disposto a cedere su molti punti anche essenziali con le città, ma - non
essendo riuscito a staccarle da Alessandro - non mollava sulla questione ecclesiastica e
su tutto quel che poteva recar pregiudizio al prestigio dell'impero. E l'esistenza stessa di
Alessandria era per lui un intollerabile affronto.
D'altro canto, l'alleanza col papa e il mantenimento di Alessandria erano proprio i due
punti qualificanti della lega. Essa contestò quindi l'arbitrato dei consoli di Cremona e
abbandonò le trattative; l'imperatore, da parte sua, si asserragliò in Pavia con le
forze rimastegli e prese a tempestare di messi la Germania affinché gli giungessero aiuti;
concedeva intanto vari privilegi a Como, chiave dei passi alpini verso la piana del Reno,
inviava ordini in Toscana e apriva un dialogo diplomatico con re Guglielmo II di Sicilia -
che, irritato per il suo fallito matrimonio con una principessa greca, aveva stretto con
Venezia un accordo in funzione antibizantina - per dargli in sposa la figlia Sofia:
matrimonio che papa Alessandro riuscì a impedire.
Passò un altro inverno: com'era d'uso, quella non era stagione di guerra. Ma
Federico era in ansia perché conosceva bene la situazione generale e sapeva fino a che
punto era debole. Si rivolge dunque per aiuto a Enrico il Leone. I due cugini s'incontrano
nel gennaio del 1176 a Chiavenna, ma senza esito. Oramai, a Federico non resta che
contare su quel che in Germania può esser raccolto dall'imperatrice e dai vassalli fedeli
e stringere i rapporti con gli alleati italiani. Anche la lega si va preparando, e in quello
stesso gennaio, a Piacenza, i rettori rinnovano il giuramento
A maggio arrivano i rinforzi tedeschi. Non sono granché: forse, con loro e con gli
italiani che gli erano fedeli, Federico raggiungeva i 4000 cavalieri. Gli armati della lega
erano attestati a metà strada circa fra Como e Milano. Federico sa bene di essere in
condizione d'inferiorità numerica e anche tattica, visto che il nemico è in posizione
favorevole; gli preme piuttosto raggiungere i suoi alleati. Quanto alla gente della lega, il
loro stesso attestarsi è indice di una precisa volontà difensiva. Del resto, i collegati
avevano un esercito in cui abbondavano i fanti, che nell'arte militare e nella mentalità del
tempo erano utili nelle difese di castelli e città, non però negli scontri campali. Il 29 maggio 1176, fra Ticino e
Olona, sulla strada di Pavia, i cavalieri dell'avanguardia dei due eserciti si scontrano e gli
imperiali, per quanto inferiori di numero - trecento contro settecento, a quel
che pare - sbaragliano i nemici e li volgono in fuga. Era vera fuga, però, o stratagemma?
Sta di fatto che nello scontro interviene Federico con tutta la sua cavalleria. La corsa
all'inseguimento dei cavalieri in fuga si arresta, tuttavia, dinanzi alla fitta barriera di lance dei fanti. I cavalieri della lega hanno così modo di contrattaccare, soccorsi tempestivamente da
rinforzi che, giunti proprio allora, attaccano le file nemiche sul fianco provocandone lo
scompiglio.
Lo stesso Federico, che combatte al centro della mischia, a fianco del suo vessillo,
scomparve inghiottito dai flutti della battaglia e viene dato per morto. A questo punto, le
truppe imperiali si danno alla fuga disordinata: molti furono uccisi o annegarono nelle
acque del Ticino; e soltanto qualcuno riuscì a mettersi in salvo entro le mura di Pavia
recando l'incredibile notizia. Federico, il signore del mondo, non è più, giace nella piana fra
Olona e Ticino; tutto è perduto. Molti furono i prigionieri, qualcuno anche di altissimo
rango: opulento il bottino, gloria del quale - come trionfanti scrivevano i milanesi agli alleati
bolognesi - lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia dell'imperatore. Venerabili cimeli, sacri
nella mentalità del tempo al pari di reliquie: ma, in quel momento, anche splendidi trofei di
guerra, superbi pegni di vittoria.
Federico nel frattempo si è nascosto con pochi compagni, celandosi ai vincitori.
Quando giunge a Pavia per strade traverse e fuori mano, l'imperatrice aveva già indossato
l'abito a lutto. E' vinto, stanco, senza più armata, ma vivo. E bastò che questa notizia si
spargesse per togliere alla lega una parte dei frutti della vittoria. La sconfitta cedeva il
passo all'offesa: ì ribelli che avevano osato atterrare lui - l'Unto, il Cristo dei Signore, il
Prescelto, la Legge incarnata sulla terra - si erano resi rei di lesa maestà. Federico voleva
vendetta e, al suo solito, la chiamava giustizia: il diritto romano gli dava ragione.
A quel punto, non c'era altra via che giungere al più presto a una pace definitiva col
papa. Le trattative furono complesse, ma il 24 luglio 1176 i due vecchi antagonisti si
incontrarono a Venezia. L'imperatore si prosternò, e l'anziano pontefice fu sollecitato a
sollevarlo e ad abbracciarlo, dandogli il bacio della pace mentre attorno a loro s'innalzava
trionfale il canto del Te Deum. Successivamente venne ratificata solennemente la pace col
papa e la tregua col re di Sicilia e con i comuni; in quell’occasione Federico pronunziava in
tedesco un'allocuzione abilissima che traduceva nei termini della regalità sacra il concetto
cristiano dell'umiltà quale via regia verso l'esaltazione.
L'intesa fra imperatore, papa, re di Sicilia e Venezia isola la lega
lombarda e cancella il paziente lavoro bizantino di penetrazione in Italia, mentre
ripropone lo scacchiere orientale - e non solo quello musulmano - come possibile teatro della
futura espansione latina. Nella pace di Venezia si delineano, già in embrione, le
condizioni spirituali e politiche che avrebbero presieduto alla terza e alla quarta crociata.
Federico si trattiene a Venezia fin oltre la metà di settembre, e furono settimane di intensi
rapporti diplomatici. Infine parte per una lunga ricognizione attraverso i due regni d'Italia e
di Borgogna, che lo avrebbe impegnato per un anno intero.
Quello che poteva sembrare un giro trionfale aveva al contrario una
precisa funzione politica. L'imperatore sa che
la lunga assenza dai confini dalla Germania - e dal regno tedesco
mancava ormai dall'estate del 1174 - gli sarebbe stata fatta pagare in termini politici molto
pesanti: e, apprestandosi a rientrarvi, intende riaffermare la sua piena autorità in Italia e
Borgogna in modo da guardarsi definitivamente le spalle, poiché sa che una sua
prossima discesa in quei paesi non avrebbe potuto essere troppo ravvicinata nel tempo.
Gli anni successivi lo vedranno infatti alle prese con la spinosa questione del cugino Enrico il
Leone.
Risolta la disputa con Enrico, erano, infatti, le questioni del regno d'Italia a tornare in primo
piano. La tregua stipulata con la lega lombarda nel 1177 stava per scadere, e gli stessi
rapporti con la Sicilia - presupposto al rilancio della politica mediterranea - erano in attesa
di una sistemazione meno provvisoria di quella conferita loro a Venezia. La lega lombarda
si era riunita in un congresso a Verona già nel settembre 1178, sia, per esaminare la nuova
situazione creatasi in Italia in seguito alla tregua di Venezia e alla fine dello scisma, sia, per
discutere le misure da prendere contro le città che avevano defezionato. D'altronde la
lega, se era nata sulla base di una concordia più contingente che reale e più fittizia che
strutturale (quella cioè determinata dall'esistenza di un nemico comune), si era sviluppata
grazie anche all'appoggio del papa, del re di Sicilia e del basileus. Tra il 1177 e il 1181 tutte
queste condizioni erano venute meno. La morte, nel settembre 1180 del basileus Manuele - al
quale era succeduta una lunga fase di crisi culminata nel 1182 con un massacro dei latini
residenti in Costantinopoli - e quella alla fine d'agosto 1181 di Alessandro III a Civita
Castellana, hanno sottratto alla lega i due referenti esterni tradizionali. Pisani e
genovesi sono preoccupati per gli sviluppi della crisi dell'impero bizantino mentre, nella
Curia pontificia, il nuovo papa Lucio III si mostra molto conciliante con
l'impero. In queste condizioni, la cosa più saggia sarebbe stata quella di trasformare la tregua in vera e
propria pace. Le trattative in tal senso, già avviate alla fine del 1182, proseguuno nella
prima metà dell'1183, attraverso una serie di passi distensivi di modesta
entità, ma in cambio di sicuro effetto.
Nella primavera 1183 si tengono a Piacenza i solenni preliminari di pace, ratificata il
30 aprile: la delegazione imperiale è guidata dal vescovo di Asti, quella della lega non
più dai rettori, bensì dai rappresentanti di ciascuna città fra quelle che avevano firmato la
tregua del 1177, escluse Venezia, Como e Alessandria che con la lega avevano ormai
rotto. Erano rappresentate le città di Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Brescia,
Bergamo, Milano, Lodi, Novara, Vercelli, Mantova, Bobbio, Piacenza, Parma, Reggio,
Modena, Bologna.
Alla fine della primavera Federico si spinge fino a Costanza, nel ducato di
Svevia, là dove si avviava uno dei tronchi della strada che attraverso Coira e Chiavenna
conduceva in Lombardia. Lì, il 25 giugno, egli ratifica personalmente la pace con i comuni,
alla presenza dei delegati delle singole città e dei rappresentanti del pontefice. La pace di
Costanza rappresenta, è vero, una sostanziale vittoria dei comuni. Ma non è meno vero
che, sul piano formale e contingente l'imperatore ha riportato un successo. I comuni membri della lega (ma
non la lega nel suo complesso) erano a Costanza non già a trattare una pace, ma ad
accogliere un benevolo verdetto.
Il sovrano figurava come colui che, da solo e al di sopra di costrizioni e
condizionamenti di sorta, emanava a vantaggio delle città lombarde - che gli
riconoscevano la superiore autorità e che d'altro canto sborsavano
in cambio dei bei soldi - una costituzione che concedeva loro certe libertà e certi regalia,
riservandosene naturalmente altri. Si ribadiva beninteso che i regalia costituivano un
diritto intangibile dell'impero, ma si accettava che tale diritto potesse trovare un limite
nell'esercizio delle consuetudines, a loro volta fonte di diritto. L'esercizio dei regalia, naturalmente, comportava l'obbligo di mantenere efficienti strade, ponti e via dicendo,
nonché quello di pagare il fodrum quando l'imperatore fosse sceso in Italia. Il sovrano
accettava inoltre di investire dei pubblici poteri i rettori delle città e questi
avrebbero dovuto prestargli in cambio giuramento di fedeltà. Ai consoli era altresì
demandato il potere di giudicare in casi comportanti una pena pecuniaria sino al massimo
di venticinque libbre di danari d'argento; dopodiché ci si doveva appellare al sovrano. A
fronte di questo loro ampio riconoscimento dell'autorità imperiale, le città si vedevano
assicurato il diritto di avere fortificazioni e di mantenersi strette in lega. E’ indispensabile
sottolineare che l'imperatore, a Costanza, figurava concedere tutto liberamente, senza che
si facesse parola di necessità o di trattative di alcun genere. Il giuramento richiesto tanto
ai vassi quanto ai cives sottintendeva un parallelismo fra autonomie signorili e autonomie
cittadine, entrambe trattate alla medesima stregua nel quadro della comune
subordinazione all'impero. Pur nella considerazione della concreta situazione locale, è
chiaro che in Italia Federico stava lavorando, non diversamente che in Germania, alla
costruzione di una monarchia feudale. Ed è chiaro altresì che le concessioni di
Costanza tenevano a rimaner giuridicamente tali nella misura in cui l'imperatore non
intendeva assolutamente ch'esse potessero divenire in futuro dei precedenti per analoghe
richieste da parte di altre città.
Settima discesa di Federico in Italia (1185 - 1186)
Infine, nel 1185 Federico I fa ritorno in Italia, questa volta senza esercito. Nel gennaio 1185 la lega lombarda aveva
rinnovato per un trentennio il suo patto, sia pure con il puro pretesto del mantenimento
della pace di Costanza. Era dunque necessario scendere di nuovo dai passi alpini, visitare
le città lombarde e toscane, incontrarsi con il papa, ristabilire i contatti con il re di Sicilia.
Federico passa il Brennero ai primi di settembre e si trattiene fino a metà ottobre nelle
città lombarde, dovunque - e soprattutto a Milano - acclamato e festeggiato. Nell'ottobre, a
Verona, s'incontra con papa Lucio III, fuggiasco da Roma per le consuete lotte intestine.
Federico rimane entro i confini del regno d'Italia fino al giugno 1186, occupato a
riaffermare i suoi poteri in Lombardia e in Toscana. Favorisce molte casate feudali, come gli
Estensi: ma soprattutto riempie di segni di benevolenza la sua nuova beniamina e alleata,
Milano.
Proprio fra le mura dell’antica rivale Federico incassa un nuovo trionfo: il 27
gennaio vi si celebrano le nozze fra l’erede e re dei romani Enrico di Svevia e la
principessa Costanza d'Altavilla. La città lombarda distrutta dal Barbarossa, ormai più
fiorente di prima, vede sfilare per le strade i centocinquanta muli che portano, a corredo
e dote della principessa normanna, quarantamila libbre d'oro. In quell'occasione, secondo
un cronista, si sarebbero addirittura tenute tre incoronazioni, poiché Federico avrebbe di
nuovo assunto la corona di Borgogna già cinta nel 1178, Enrico quella d'Italia e Costanza
quella di Germania. La notizia non è sicura, anzi è piuttosto sospetta, ma conclude
degnamente la storia dei rapporti fra il grande imperatore svevo e i comuni lombardi.
La terza crociata e la morte
Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 1187, che sembra portò alla morte, per il dolore provato, Urbano III, il nuovo papa Gregorio VIII decise di preparare una nuova crociata: la Terza. Federico si fece crociato, il 27 marzo 1188 a Magonza, seguito dal figlio, il duca di Svevia Federico VI, dal duca d'Austria Leopoldo V e da altri nobili e vescovi. Federico, conscio che la seconda crociata, a cui aveva partecipato era stata condotta male, prese alcune precauzioni, accettando nel suo esercito solo chi si poteva mantenere per due anni e scrivendo al re d'Ungheria, all'imperatore di Bisanzio e al sultano di Iconio, chiedendo ed ottenendo l'autorizzazione ad attraversare i loro possedimenti; infine scrisse al Saladino per avere restituite le terre di cui si era impadronito, altrimenti avrebbe usato la forza, a cui il Saladino rispose che accettava la sfida.
Federico, lasciato il figlio Enrico VI a governare l'impero, con circa 20.000 cavalieri, partì per primo da Ratisbona nel maggio del 1189, seguito poi dal re di Francia Filippo Augusto e dal nuovo re d'Inghilterra Riccardo I (noto anche come Riccardo Cuor di Leone).
Federico attraversò l'Ungheria sostando a Esztergom o Strigonio, alla corte ungherese del re Bela III. Dopo aver attraversato i Balcani, Federico, avvicinandosi ai domini dell'imperatore bizantino Isacco II Angelo inviò ambasciatori per concordare il passaggio in Anatolia; ma Isacco, che temeva i latini e si era accordato col Saladino, imprigionò gli ambasciatori. Allora Federico inviò un messaggio al figlio, Enrico VI che, con la flotta fornita dalle repubbliche marinare, col permesso del papa attaccasse Costantinopoli, mentre lui, occupata Filippopoli e poi la Tracia, si avviò verso Costantinopoli. Allora Isacco venne a patti, così nel febbraio del 1190 fu firmato il trattato di Adrianopoli, che permise alle truppe dell'imperatore Federico di attraversare l'Ellesponto. L'Ellesponto fu attraversato nel mese di marzo e, giunti in Asia Minore, dopo aver ricevuto i dovuti approvvigionamenti, iniziarono la marcia verso sud attraversando il sultanato d'Iconio, dove furono sottoposti a continui attacchi di bande di Selgiuchidi e furono tagliati i rifornimenti. Ridotto alla fame, l'esercito tedesco attaccò il sultano, Qilij Arslan II, occupando temporaneamente la sua capitale, Konya, ed obbligandolo a mantenere gli impegni presi: concedere loro libertà di transito, rifornirli dei necessari approvvigionamenti e poi, con l'aiuto di guide armene, guidarli attraverso il Tauro sino sulle sponde del fiume Saleph in Cilicia, nel Sud-Est dell'Anatolia, in prossimità della Terra Santa. Tuttavia, Federico affogò durante il guado del fiume, il 10 giugno 1190.
La morte di Federico gettò il suo esercito nel caos. Senza comandante, in preda al panico e attaccati da tutti i lati dai turchi, molti tedeschi furono uccisi o disertarono. Il figlio del Barbarossa, Federico VI, proseguì con i soldati rimasti, con l'obiettivo di dar sepoltura all'imperatore. Solo 5.000 soldati, una piccola frazione delle forze iniziali, arrivarono ad Acri, verso la fine del 1190. E all'assedio di San Giovanni d'Acri, nel 1191, perse la vita Federico VI.
La morte di Federico lasciò l'esercito crociato sotto il comando dei rivali Filippo II di Francia e Riccardo I d'Inghilterra che, giunti in Palestina separatamente via mare, lo portarono infine a dissoluzione. Riccardo Cuor di Leone continuò verso Est dove affrontò il Saladino con alterni esiti, ma senza raggiungere il suo obiettivo, la conquista di Gerusalemme.
La figura di Federico, che la tradizione comunale italiana legò alle crudeltà contro Milano e Tortona, facendola nel Risorgimento quasi la prefigurazione dell'oppressore tedesco, trovò invece consenso nel sentimento nazionale germanico, che la cantò in innumerevoli saghe come quella del puro eroe germanico, del grande re che dorme nell'antro segreto delle montagne di Turingia pronto a risorgere per la grandezza della Germania.
Eugenio Caruso
13-01-2017