Ciro il grande e l'impero persiano

GRANDI PERSONAGGI STORICI

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Ciro il grande

In questa sezione ho illustrato la vita di grandi personaggi del passato, allo scopo di tratteggiare le caratteristiche e i valori che hanno portato questi personaggi al successo. Da ciascuna sfumatura dei comportamenti di questi ciascuno di noi può trarre insegnamenti, stimoli, coraggio, intuizioni, entusiasmo per intraprendere un percorso che possa condurre al successo personale o della propria impresa. Dopo aver illustrato le gesta di imperatori babilonesi (Nab. e Hamm.), sumeri (Gil.), accadi (Sar.), ayyubidi (Sal.) e faraoni egiziani (Ake. Tut. e Ram.) di quest'area medio-orientale non può mancare il nome dell'imperatore persiano Ciro il Grande.

Noto nelle iscrizioni cuneiformi come Kurush, traslitterato nelle fonti greche in ?????, il futuro conquistatore di Babilonia recava nel suo nome il significato luminoso di “sole”, mutuato dalla forma avestica di hvar. Quella parola, appartenente a un idioma sviluppato nelle regioni nordorientali dell’attuale Iran, denunciava l’origine della famiglia di appartenenza del pargolo, quella degli Achemenidi, i quali al tempo della sua nascita si erano costituiti un discreto dominio dalle parti della Susiana.
Achemene, il capostipite vissuto intorno alla seconda metà del VII secolo elevò la tribù persiana di cui era capo al rango di regno, consegnandolo infine al figlio Teispe. Costui riuscì non solo a salvaguardare le terre dalle incursioni scite che all’epoca interessavano la regione, ma estese i suoi possedimenti inglobando la città elamita di Ansan, della quale da quel momento in poi assunse il titolo di re. Alla sua morte, avvenuta nel 640 a.C., il regno passò ai suoi figli Ciro e Ariaramne frammentandosi: fu proprio quella divisione a permettere, tra le altre cose, che le due distinte entità venissero fagocitate dai medi, il cui re Ciassare, già vittorioso contro gli assiri, le riunificò affidandole in una sorta di protettorato al figlio di Ciro, Cambise.
La stirpe achemenide giaceva dunque in stato di vassallaggio, reso ancor più evidente quando il successore di Ciassare, Astiage, concedeva in sposa sua figlia Mandane a Cambise, legando quest’ultimo con un laccio a doppio filo. Fu proprio dalla loro unione che nacque il nostro Personaggio.
È normale dunque che in un terreno così sdrucciolevole allignassero a bizzeffe le leggende, sempre pronte a colmare il vuoto lasciato dall’assenza dell’evidenza storica. Tra le prime che iniziarono a circolare ve ne fu una che sembra ricalcare smaccatamente la vicenda edipica. In essa infatti si narrava che, appena venuto alla luce, Ciro fosse condannato a morire, secondo il volere del nonno materno che in un sogno premonitore aveva ravvisato in lui l’autore della sua disfatta. Ovviamente il pargolo scampò al triste destino smuovendo prima la compassione del nobiluomo cui fu affidata l’infame missione, tale Arpago, sia del pastore cui fu scaricata l’infelice incombenza, che invece si fece carico del fanciullo come se fosse figlio suo, finché questi, cresciuto e messo a parte della sua discendenza, non rese la pariglia al crudele Astiage.
Vale la pena notare che la moglie del pastore si chiamava Spako, un nome che secondo Erodoto nella tradizione meda significava “cane”, con evidente riferimento alla lupa che una manciata di secoli prima avrebbe allattato in un mito pressoché identico Romolo e Remo.
Su una cosa si è sicuri: alla morte del padre Cambise, Ciro assunse le redini del regno vassallo persiano, quello che si estendeva nel territorio dell’Arshan riunendo sotto un’unica entità i due reami di Parsumash e Parsa, l’attuale Fars che molto probabilmente fu anche il luogo di nascita del nostro eroe. Diodoro Siculo, storico del i secolo a.C. pose la sua elezione tra il 560 e il 559 a.C., proponendo una cronologia sostanzialmente accreditata in tutte le fonti. Erodoto corroborò la notizia informandoci che in quel frangente Ciro estese il dominio sui pasargadi, i marafi e i maspi, sottolineando dunque come il suo potere si limitasse alle terre che furono del padre. Evidentemente al giovane sovrano tale stato di cose doveva stare troppo stretto, se già dopo qualche tempo aveva riunito sotto il suo scettro tutte le dieci stirpi dalla cui fusione si riteneva uscito il popolo persiano, compresa quella dei Dai che si trovava nell’orbita politica dei medi.
Ciro mosse le armi contro il proprio nonno Astiage, sfruttando soprattutto le debolezze che caratterizzavano il governo di questi. Astiage infatti era ben lungi dall’esercitare lo stesso ascendente del padre Ciassare, capace di erigere un sistema di bilanciamento tra le potenze regionali che aveva mantenuto lo status quo e impedito che sorgesse una forza egemone come l’Assiria da poco abbattuta, più o meno intorno alla prima decade del VII secolo. Al contrario, Astiage non solo scontava una visione politica miope ma anche l’incapacità di porsi alla guida delle sue truppe come un comandante carismatico da seguire a qualunque costo.
Ciro si insinuò abilmente in queste falle e, dimostrando invece tutte le qualità che difettavano al rivale, diede vita a una sorta di insurrezione che, considerata la vicinanza culturale tra i popoli medo e persiano, apparve più come un avvicendamento dinastico, per quanto burrascoso, che non un vero e proprio ribaltamento.
In quest’azione Ciro si appoggiò al sovrano dei babilonesi Nabonedo. Questi, infatti, fu lieto di assecondare le mire espansionistiche del nuovo venuto, convintosi di poter assestare un colpo mortale ad Astiage, a colui cioè che si presentava come un pericoloso antagonista sullo scacchiere mediorientale.
Nel 553 a.C. Nabonedo invadeva i territori dei medi che i babilonesi reclamavano da tempo in Siria e Kurdistan, mentre Ciro mosse contro il nonno proprio quando questi, secondo quanto riportato dal “cilindro di Nabonedo” rinvenuto ad Abu ?abbah (un manufatto in terracotta recante la cronaca del suo regno) era impegnato nell’assedio della città babilonese di Kharran.
Astiage seppe reagire e, rientrato prontamente in patria, tenne testa all’usurpatore, riuscendo a portare la guerra nel territorio persiano. Seguirono dunque tre anni di conflitto in cui Ciro, oltre che sui campi di battaglia, si mosse anche in ambito diplomatico, tessendo alleanze che gli valsero l’appoggio dell’aristocrazia meda.
Fu così che, quando nel 550 si giunse allo scontro decisivo a Pasargade, l’esito della battaglia apparve quasi scontato: la Cronaca di Nabonedo narra che le truppe di Astiage si ammutinarono consegnandolo in ceppi al nipote. Ciro offrì l’assaggio di quella che diverrà una delle sue caratteristiche salienti e, dimostrando un’insperata liberalità, concesse salva la vita allo sconfitto. Poco dopo, l’appoggio degli sciti e degli ircani consentì a Ciro di entrare a Ecbatana, l’odierna Hamadan, allora capitale del regno dei medi, e di trasportarne il tesoro ad Anzan. Anche in questa occasione Ciro si rivelò magnanimo: invece di distruggere la città e trucidarne la popolazione come era costume presso tutti i popoli mesopotamici, la lasciò intatta e anzi la eresse a capitale estiva del regno.
Questa capacità di Ciro di non infierire sui popoli sottomessi e anzi di concedere loro la stessa libertà di cui godevano da sovrani fu forse la ragione principale del suo successo. Diversamente dagli assiri, che furono odiati da tutti per la loro ferocia, i persiani seppero così conquistarsi la pacifica tolleranza, se non addirittura la benevolenza dei popoli che conquistavano. Tanto più che Ciro mantenne intatte le procedure amministrative, compresa la suddivisione in satrapie e la maggior parte degli usi e costumi, rendendo il cambio al vertice il più indolore possibile per i suoi nuovi sudditi.
Poco dopo Astiage morì e Ciro ne sposò la vedova Amiti, conferendo così carattere di legittimità al suo dominio. Fu più o meno in quel periodo che il sovrano assunse il titolo di shar Parsu, re di Persia, come attestato dalla Cronaca di Nabonedo che sottolineava così come l’assunzione delle terre che erano state dei medi proiettasse ormai Ciro sul grande scenario internazionale, rendendolo signore di un potentato capace di rivaleggiare con Babilonia ed Egitto.
Dimostrando una volta di più sagacia strategica, Ciro consolidò le sue nuove conquiste operando in Afghanistan fino all’altezza di Kabul, conscio di dover disinnescare i pericoli provenienti dalle tribù scitiche che vivevano in Battriana e a sud-est del Caspio. Si trattava di aree periferiche rispetto ai centri della civiltà, la Mesopotamia e la valle dell’Indo, ma ugualmente importanti e sulle quali era fondamentale esercitare il controllo per evitare di essere “presi alle spalle”, come accaduto in precedenza agli altri grandi regni. Così, gli anni immediatamente successivi furono spesi in una campagna che lo vide mpegnato contro i saci lungo l’Amu Darya e il Syr Daria e poi contro gli amurgi lungo l’Urartu, la maggior parte dei quali furono sconfitti e inglobati come mercenari all’interno del suo esercito, che si dimostrava sempre più efficiente.
Il dinamismo del sovrano persiano mise in agitazione il Re dei lidi, quel Creso che la tradizione greca ha tramandato come la personificazione della ricchezza. Sarà stato il timore di perderla, oltre alla minaccia che avvertiva profilarsi sulle terre in suo possesso, a spingere Creso a rinverdire i fasti della coalizione creata a suo tempo da Ciassare riproponendola in chiave antipersiana.
Ciro, che al momento gravitava a nord dell’Anatolia, impegnato ad annettersi l’antico regno di Urartu (l’odierna Armenia), si trovò così nel 546 a.C. a fronteggiare contemporaneamente Lidia, Egitto e Babilonia, senza contare Sparta della quale, probabilmente, non aveva mai sentito parlare. Mentre le truppe di Creso, irrobustite da un nutrito gruppo di spartiati, varcava l’Halis, l’attuale Kizilirmak, invadendo la Cappadocia, Ciro fu costretto a rientrare a tappe forzate in patria, nel tentativo di arginare il nemico. Contemporaneamente i suoi messi effettuavano un altrettanto concitato tour de force presso le corti egiziane e babilonesi, assicurandosene la neutralità attraverso la promessa di cessioni territoriali.
Rinfrancato dal successo delle ambascerie, nel settembre di quello stesso anno Ciro intercettava l’esercito lido all’altezza della cittadella di Pteria, ingaggiando una battaglia il cui esito risulterà incerto, anche se la successiva ritirata dell’armata di Creso lascerebbe intuire una vittoria strategica da parte persiana. Così il re lido poté ripiegare per svernare nella capitale, Sardi, convinto che l’avversario avrebbe fatto lo stesso. Ciro, al contrario, continuò la campagna anche nella cattiva stagione cogliendo sorprendendo Creso che aveva appena smobilitato le truppe e rinviato a casa i mercenari spartani. In tutta fretta Creso fu costretto a raffazzonare un esercito da contrapporre all’avversario, che intanto si avvicinava pericolosamente al cuore pulsante del suo dominio.
Il re lido, ignaro delle manovre diplomatiche di Ciro, aspettava ancora l’invio delle forze degli alleati quando i persiani, all’inizio del 545, lo costrinsero a una battaglia campale nella piana di Thymbra, a due passi dalla capitale minacciata. Stando alle fonti, nonostante l’emergenza le truppe lide avrebbero soverchiato quelle nemiche per un rapporto di due a uno: 105.000 soldati contro i 50.000 a disposizione di Ciro.
Sebbene inferiore nelle proporzioni, la disparità numerica tra le forze in campo ci fu e venne abilmente colmata dalla sagacia di Ciro, che seppe sfruttare una serie di accorgimenti tattici: per primo l’adozione delle truppe cammellate, il cui odore, come precedentemente testato nella battaglia di Pteria, disturbava enormemente i cavalli avversari al punto da scompaginarne le fila. Fu così che il re persiano, dopo aver schierato le sue truppe in una formazione quadrata, con la cavalleria sui fianchi e i carri in retroguardia, ebbe ragione dei lidi che, puntando sulla loro superiorità numerica si erano distribuiti nella loro maniera classica, disponendosi su più file con l’intenzione di avvolgere il nemico. Invece, una volta costretti a smontare dai propri animali resi bizzosi, i lidi subirono il tiro degli arcieri persiani e una volta messi in rotta furono caricati a fondo dalla cavalleria avversaria che li schiantò. A quel punto a Creso non restò che raccogliere i cocci del suo esercito e tentare l’estrema resistenza rintanandosi all’interno di Sardi.
Secondo Erodoto, l’assedio alla rocca si protrasse per una quindicina di giorni al termine dei quali, complice la fortuita scoperta di un sentiero nascosto, Ciro espugnò la città riducendo in ceppi l’avversario. Ma fu solo una delle svariate versioni che raccontarono la conquista della capitale.
Le cronache babilonesi insinuarono che Ciro, una volta sconfitto Creso, l’avrebbe fatto uccidere, mentre le fonti greche attestarono unanimi che egli si mostrò mite col vinto. La leggenda, di cui già una prima eco si trova in Erodoto, afferma che Creso, condannato a morire sulle fiamme, si era salvato poiché il rogo fu spento da una provvidenziale tempesta propiziata dagli dèi; in particolare da Apollo, accorso nel momento in cui il condannato aveva innalzato un’accorata invocazione a Solone.
Non appena i rumors sulla disfatta lida si sparsero ai quattro venti, le città greche dell’Asia Minore si affrettarono a inviare ambascerie a Ciro per dichiarargli che accettavano la sua supremazia alle stesse condizioni stipulate all’epoca con Creso. Ma il sovrano persiano, forte della sua posizione, non si accontentò e pretese una completa sottomissione, fatta eccezione per Mileto a cui concesse in un trattato di conservare il ruolo avuto all’interno del regno lido, quello cioè di una sostanziale autonomia. Affidò così ai suoi generali il compito di costringere gli ioni all’obbedienza, un’incombenza che, grazie all’abilità dei persiani negli assedi, fu assolta con relativa facilità, al pari dell’annessione della Caria e della Licia.
Con la conquista del regno di Lidia, Ciro acquisiva un contatto diretto con il Mediterraneo e l’Egeo, vale a dire con la conoscenza e la tecnica delle sviluppate città greche situate lungo la costa turca: anche se giovane, la Persia appariva ormai come la prima vera potenza della regione Medio orientale. Tanto più che nei sei anni successivi, tra il 545 e il 539 l’ambizioso sovrano rivolse di nuovo le sue attenzioni verso oriente, sottomettendo la Margiana e la Sogdiana e raggiungendo il fiume Iaxarte, nei cui pressi fece costruire fortezze che saranno in piedi ancora ai tempi di Alessandro.
A quel punto Ciro assicurò al suo dominio tutte quelle terre che troviamo elencate nelle iscrizioni cuneiformi all’atto dell’assunzione al trono del suo successore Dario, vale a dire Parthiana, Drangiana, Ariana, Khorasm, Battriana, Sogdiana, Gandara, Arachosia, Maka, oltre alle terre dei saci e dei sattagidi. Ciro era diventato il re dei re.
In quel momento, ciò che a tutti gli effetti può essere considerato un impero si estendeva dal golfo arabico sino alla Cilicia, incombendo con la sua presenza minacciosa sul confinante regno di Babilonia. Fu quasi fisiologico dunque che Ciro si muovesse contro lo Stato che sino a quel momento aveva costituito il gioiello della mezzaluna fertile.
Ciò che spinse Ciro a compiere quella conquista che l’avrebbe consacrato nei secoli furono, valutazioni squisitamente politiche e militari. Uno stato in espansione come il suo, per sopravvivere doveva necessariamente eliminare l’ultimo ostacolo presente sulla sua strada, soprattutto ora che l’altisonante Babilonia attraversava una delle crisi più profonde della sua storia. Gravi problemi economici, esacerbati da peste e carestie, avevano gettato il regno in uno stato di precarietà in cui si erano insinuate lotte intestine per la presa del potere.
Erano lontani i tempi in cui Nabonedo, schieratosi al fianco di Ciro, assestava il colpo mortale ai medi: lontanissimi quelli in cui Nabucodonosor II trattava alla pari con l’Egitto, si garantiva il suo appoggio militare ed estendeva il regno al massimo del suo fulgore, bruciando nella sua furia anche Israele, che scontava con la distruzione del Tempio e la deportazione in massa del suo popolo il sogno di grandezza del sovrano babilonese.
Dopo una fortunata campagna in Arabia nel 550, Nabonedo aveva deciso di trasferirsi definitivamente a Tema, la capitale dei vinti, rapito da un’indole mistica sempre più sconfinante nella follia. Il controllo di Babilonia fu allora affidato al figlio Bel-shar-usur, figura abbastanza scialba il cui unico merito fu di aver fornito spunto per il nome al Baltassar biblico, che in realtà richiamava piuttosto la figura del padre, i cui tratti peraltro risulteranno reiteratamente assorbiti impropriamente dal più celebre Nabucodonosor. Il 547 segnò l’inizio della fine. L’improvvida alleanza con Creso, e soprattutto la disfatta di questo, pose Nabonedo nell’infelice posizione di dover fronteggiare da solo la prevedibile reazione di Ciro, tanto più che la sottomissione dei cilici e dei cappadoci al persiano, unita alla scarsissima volontà di intervento del faraone Amasi e degli spartani, lasciava poche speranze in merito a soccorsi esterni. La situazione era così preoccupante che nel 545 il re decise di tornare a Babilonia dopo anni di assenza, trovando una situazione catastrofica. La regione, una delle più fertili del mondo antico, era sull’orlo della carestia mentre le defezioni si contavano a bizzeffe, compresa quella dolorosissima di Gubaru, – il Gobria delle fonti greche – uno dei generali veterani di Nabucodonosor, mandato a governare l’Elam; questi aveva fiutato il vento e scelto di passare dalla parte di chi considerava il vincitore nell’imminente conflitto, vale a dire Ciro. E oltre a se stesso portava in dono al re persiano il territorio di Gutium, una regione di frontiera di notevoli dimensioni e di importanza strategica, che Ciro poté utilizzare come base per la sua invasione.b
Di fronte alla catastrofe imminente, l’unica difesa che Nabonedo riuscì a contrapporre fu quella di trasformare Babilonia in una fortezza mistica, in cui fece trasportare le statue di tutte le divinità della regione con il pretesto di salvarle dai persiani, ma in realtà con la speranza di esserne protetto e a un tempo di controllarle. Dal punto di vista della psicologia di massa fu un disastro: nelle città private dei loro dèi e con i templi chiusi crescevano ogni giorno sconforto e opposizione al regime, mentre a Babilonia le tensioni montavano, tanto più che all’arrivo delle divinità estranee si affiancava anche qui la chiusura e l’abbandono dei templi e il concentramento delle effigi nel palazzo. Fu quanto avvenne a Sippar, dove a seguito di un sogno del sovrano venne fatta modificare l’immagine del dio Shamash, o nella stessa Babilonia, dove su suggerimento del sempre più invasato Nabonedo fu cambiata l’acconciatura all’effigie di Nabu di Borsippa appena portato in città. Le cronache narrano che sulle pareti comparve una scritta vergata dal dio stesso, che lamentava il sacrilegio compiuto: verosimilmente questa fu realizzata dai sacerdoti.
Ciro puntava a occupare Babilonia in forma pacifica, presentandosi come il legittimo restauratore della gloria cittadina e dell’intero regno babilonese, affossata dai deliri di Nabonedo e dalla debolezza di suo figlio Bel-shar-usur: un concetto espresso con chiarezza nel lungo proclama ai babilonesi promulgato dopo la definitiva occupazione e conservato in un cilindro dagli archivi reali, un documento su cui avremo modo di tornare. Fu dunque assai verosimile che i sacerdoti babilonesi fossero finanziati dai persiani per la loro attività di indebolimento dell’autorità monarchica. Ciro stesso dichiarava evidentemente sapendo di poter contare sul sostegno dei sacerdoti dell’Esagila, di essere stato chiamato dallo stesso Marduk, il principale dio di tutta la Mesopotamia, a liberare la città. Altrettanto probabile che anche i profeti ebrei fossero al soldo della propaganda persiana. Una conferma indiretta viene da alcuni passi del Secondo libro di Isaia, corrispondenti quasi alla lettera al proclama di Ciro in Babilonia, tanto da rendere ben più che ipotizzabile un diretto rapporto fra le personalità più in vista del mondo profetico ebraico e la cancelleria achemenide.
In un contesto politico così degradato la conquista militare non poteva riservare sorprese agli invasori. Con l’inizio dell’autunno venne lanciata l’offensiva decisiva su due fronti: da nord Ciro avanzò dall’Assiria con i reparti medi e persiani, mentre da sud gli elamiti di Gobria invadevano la Caldea. Secondo la Cronaca di Nabonedo, le truppe babilonesi subirono un pesante rovescio nella battaglia che si tenne nel mese di tashritu (27 settembre-27 ottobre) presso Opis, sulla riva del Tigri. La fonte non fornisce alcun dettaglio in merito allo scontro, né la disposizione delle forze in campo, né le perdite subite: si limita a registrare che l’esercito persiano guidato da Ciro combatté contro «l’esercito di Akkad», vale a dire i babilonesi, il cui comandante – della sua identità non rimane traccia –, verosimilmente dovette essere il figlio di Nabonedo, Bel-shar-usur, meglio noto come Baldassarre: ignoto il suo destino, anche se appare plausibile che possa essere stato ucciso in battaglia.
Unendo i frammenti ricavati dalle altre cronache è possibile farsi un’idea di quanto accadde: Ciro stazionò brevemente nell’area intorno alla città di Opis, dove la sua campagna di propaganda, unita alla notizia delle contemporanee vittorie persiane ottenute a Ishtar e Uruk, fiaccarono il morale dei babilonesi: lo scontro si traformò per i babilonesi in un disastro.
È sempre la Cronaca a informarci che l’11 ottobre Sippar si arrese senza combattere, consentendo alle truppe di Gobria di precedere, un paio di giorni dopo, quelle di Ciro al cospetto di Babilonia. Quanto a Nabonedo, costui si dileguava riparando temporaneamente a Uruk. A quel punto non si comprende bene come avvenne la presa della capitale. Le profezie bibliche relative alla conquista avevano preannunciato che i fiumi di Babilonia si sarebbero prosciugati e che le sue porte sarebbero state lasciate aperte, che ci sarebbe stata una repentina invasione della città e che i soldati all’interno non avrebbero opposto resistenza.
Non sappiamo quanto Erodoto fosse stato influenzato dalla lettura di quel vaticinio, fatto sta che nel primo libro delle sue Storie egli descrisse un grande e profondo fossato che circondava Babilonia, riferendo che numerose porte di bronzo (o di rame) permettevano di attraversare le mura interne lungo l’Eufrate che tagliava in due la città. Proseguendo, lo storico di Alicarnasso narrava che Ciro, per risolvere l’assedio, scavò un canale che deviò le acque dell’Eufrate in un bacino secondario, il lago artificiale che si supponeva opera della regina Nitocri, ridotto allo stato di palude. Così facendo, il livello del fiume si abbassò finché il vecchio letto non divenne guadabile, permettendo ai persiani di entrare agevolmente in città.
A meno di non credere che la follia di Nabonedo avesse contagiato tutta la cittadinanza, è davvero difficile figurarsi gli assediati, pressati dall’angoscia e dalla minaccia di un’imminente invasione, darsi ai bagordi incuranti di quanto stesse succedendo al di fuori della cinta muraria. Eppure, la descrizione fornita da Erodoto trova riscontro in quella suggerita da Senofonte nella sua Ciropedia, dove, al di là di minime differenze nei particolari, si presentano gli stessi elementi fondamentali cioè: constatazione da parte di Ciro dell’impossibilità di assaltare le possenti mura di Babilonia; risoluzione dell’impasse attraverso la deviazione delle acque dell’Eufrate in canali; presa della città in una sola notte mentre i suoi abitanti se ne stavano a celebrare una festa.
A questo punto appare evidente come entrambi gli scrittori greci siano stati influenzati dalla conoscenza diretta o indiretta della profezia di Isaia, che rimbalzando dalla Palestina, attraverso le coste dell’Asia Minore, dovette circolare ad Atene e dintorni a infiammare la fantasia di quanti inciampavano nel nome di Ciro. Per contro, lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che citò la storia della conquista traendola dagli scritti del sacerdote babilonese Beroso risalenti al III secolo a.C., non fece menzione del prosciugamento dell’Eufrate, limitandosi a sottolineare che Ciro, una volta entrato a Babilonia, ordinò che le mura fossero demolite, perché la città gli aveva causato molti guai ed era stato difficile prenderla. Evidentemente, sul fronte babilonese la tradizione biblica non aveva fatto breccia, almeno non al punto da considerarla degna di essere tramandata.

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Estensione dell'impero persiano


Una cosa è certa: con quella conquista, che le iscrizioni cuneiformi della Cronaca di Nabonedo stabilivano essere avvenuta senza combattere (bada bene) il sedicesimo giorno del mese di tishri (settembre-ottobre) del 539 a.C., Ciro legittimava la nascita di uno dei più vasti imperi che la storia ricordi, capace di modificare in maniera permanente l’assetto politico dell’antichità. Appena una generazione prima di Ciro, nessuno si sarebbe mai sognato che un’oscura tribù proveniente dal sud-ovest dell’Iran sarebbe stata in grado di spazzare via tre dei più grandi regni dell’epoca, la Media, la Lidia e Babilonia, e dar vita a una potenza che a quel punto si irraggiava dal mar Mediterraneo a ovest, all’Indo a est, lambendo a settentrione il lago d’Aral, il mar Nero e il mar Caspio.
Che le doti di Ciro non si limitassero solo a una comprovata maestria guerriera fu evidente già all’indomani della conquista di Babilonia, quando perseguendo quella “mitezza” che l’aveva contraddistinto in precedenza, promulgò una serie di disposizioni volte da un lato a sottolineare la sua lungimiranza politica, dall’altro a garantire la floridezza dell’entità statale che era stato in grado di costruire in appena dodici anni. Fra i primi provvedimenti vi fu l’ordine di far ritornare le divinità “prigioniere” nelle loro città di origine e di ricostruire i templi. In una prima fase questo processo riguardò i centri mesopotamici, ma rapidamente fu esteso anche alle città siro-palestinesi i cui templi erano stati distrutti durante le campagne di Nabucodonosor: fra questi, il santuario di Eshmun a Sidone e quello di Yahweh a Gerusalemme.
In particolare, in merito al secondo, fu predisposto un apposito decreto emesso a Ecbatana l’anno successivo, con il quale non solo si ordinava la ricostruzione del tempio ma – in mancanza di una statua di culto evidentemente andata perduta – la restituzione degli arredi sacri predati dai babilonesi. Il decreto si completava con la disposizione attraverso la quale Ciro permetteva agli ebrei il rientro a Gerusalemme. Ciò probabilmente avvenne alla fine del 538 o all’inizio del 537, dopo che gli esiliati ebbero avuto il tempo di prepararsi a partire da Babilonia, compiere il lungo viaggio fino in Giudea e Gerusalemme (che secondo il Libro dell’Esodo poteva richiedere quattro mesi circa) e sistemarsi in Giudea «nelle loro città» entro il «settimo mese» tishri del 537. Questo segnò la fine della cosiddetta Cattività babilonese, settanta anni iniziati nel 607 e conosciuti nelle Sacre Scritture col poco rassicurante termine di “Desolazione di Giuda". A rendere possibile quello che venne percepito come una sorta di miracolo, fu il nuovo corso inaugurato da Ciro che, in netto contrasto con i precedenti regnanti di Babilonia, perseguì una politica di cooperazione con i popoli assoggettati.
Quello degli ebrei fu forse l’esempio più famoso, irrobustito da una fitta rete di concessioni tra cui spiccarono il permesso di importare legname di cedro dal Libano, o lo stanziamento di fondi dalla “Casa del re” per coprire le spese di costruzione del loro Tempio.
Ma furono in tanti a beneficiare della liberalità del sovrano, il quale comportandosi in maniera che oggi definiremmo illuminata, seppe “fagocitare” pacificamente nel suo impero tutti i vasti possedimenti che furono di Babilonia. Fu tale afflato a ispirare il famoso Cilindro di Ciro, un manufatto a forma di pannocchia rinvenuto nel 1879 durante gli scavi del tempio di Marduk in Babilonia, recante un’iscrizione in accadico cuneiforme dal significato “esplosivo”. In essa, che molto entusiasticamente può essere considerata come la prima dichiarazione dei diritti capace di anticipare la Magna Charta di più di un millennio, il sovrano si presentava come “re dell’universo, il grande re, il re potente, re di Babilonia, re di Sumer e Akkad, re dei quattro angoli del mondo”, ma anche come il campione della liberalità e della tolleranza religiosa, rispettoso dell’umanità sotto ogni sua forma.
L’epopea inaugurata da Ciro, un cinquantennio in cui si avvicenderanno le opere dei suoi successori Cambise e Dario, provocò un cambiamento di tali proporzioni che a noi riesce sommariamente difficile immaginare. Essa rappresentò il definitivo tramonto di due millenni di storia dell’antichissimo Oriente semitico: tre piccoli imperi, il medo, il lido e il neo-babilonese si eclissarono per sempre; l’Egitto cessò di essere libero e sovrano nel suo isolamento; in Giudea, il regno della Casa di Davide diede luogo alla divisione del popolo ebraico; l’India venne per la prima volta in contatto con l’Etiopia e con le rive orientali del Mediterraneo.
Prima di Alessandro Magno, fu Ciro a intuire quell’unità del continente euro-asiatico che, a distanza di tanti secoli, ancora non siamo riusciti a consolidare su basi di reciproca e confidente comprensione. Fu grazie a Ciro che la Persia entrò per sempre nella storia come ponte tra l’India e la Grecia, centro di un’irradiazione culturale che, oltrepassando la frontiera, andava dal Caucaso alla Cina, dall’Asia Minore all’India.
Il fautore del novus ordo si dimostrò infaticabile. Gli anni successivi furono infatti spesi non solo nel consolidamento di questa incredibile “comunanza solidale”, ma anche nel rinnovare le tracce del suo passaggio attraverso un’imponente opera edificatoria. Con la stessa rapidità con la quale era riuscito a costituire un’organizzazione statale solida e organica, questo incredibile signore di cavalieri nomadi e seminomadi seppe attivare la creazione di un linguaggio culturale proprio, ben espresso nei centri più significativi del suo potere, primo tra tutti Pasargade. La prima capitale dell’impero achemenide, fondata già all’inizio del 546, costituì il simbolo con cui Ciro consacrava l’élite politica che riuscì a portare a compimento quell’immane processo di urbanizzazione delle tribù iraniche che, iniziato qualche secolo prima, aveva sconvolto e trasformato i vecchi assetti sociali, economici e politici dell’altopiano.
Se l’imperatore si fosse accontentato dell’immensità compiuta sino a quel momento, probabilmente sarebbe campato ancora a lungo. Invece indulse ancora al fuoco della guerra. Eppure non sarebbe stato necessario che Ciro affrontasse la morte in battaglia: l’azione punitiva contro i sarmati e i massageti, al di là del fiume Iaxarte che separava la frontiera orientale dell’impero, avrebbe potuto essere compiuta da Cambise o da qualche altro generale. Secondo Erodoto, Ciro ottenne una serie di strabilianti successi che gli consentirono di erigere una formidabile barriera difensiva lungo il corso del Syr Daria, costituita da una serie di roccaforti tra cui Ciropoli. Non pago, oltrepassò il fiume e, penetrato nel territorio dei massageti, rifiutò le profferte di matrimonio avanzate dalla regina Tomiri, ne squassò le terre e ne catturò il figlio Spargapise, che si ucciderà durante la prigionia. Fu dunque la sete di vendetta a trasformare la regina in una novella Medea. Fu infatti lei ad alimentare la rabbia del suo popolo che due anni dopo, nel 528, riuscì ad avere ragione del re persiano, che cadde in battaglia. Le sue spoglie subirono l’ira della donna che ne decapitò il corpo e conficcò la testa all’interno di una pelle d’animale riempita di sangue: si dice che commentasse quel gesto insinuando che ora finalmente Ciro poteva godere di tutto il sangue che voleva.
Fu poi il figlio Cambise a completare la campagna e a restituire il suo corpo agli onori che meritava, seppellendolo nella tomba di Pasargade che ancora lo protegge a distanza di secoli.
Nei fatti, con Ciro scompariva il re del popolo. «Tutto quell’immenso impero», osservava un secolo dopo Senofonte, «era governato dalla mente e dalla volontà di un uomo solo. I sudditi, che da lui ricevevano affetto e cure come se fossero suoi figli, lo rispettavano come un padre». Ciro incarnò il concetto veramente nuovo di un sovrano animato e guidato da un senso di responsabilità verso tutti i suoi sudditi, idea senza precedenti in Oriente e basata su principi di governo sconosciuti prima di lui. Quegli afflati dovevano inevitabilmente influenzare il corso successivo della storia, non escluse le epoche dei macedoni e dei romani. Alessandro si ispirerà a lui quando tenterà di assicurare la stabilità delle sue conquiste creando uno Stato eurasiatico, affidandone il governo a elementi macedoni e persiani, e favorendo, perfino, i matrimoni dei suoi ufficiali con donne della Persia. Gli riuscì più facile ambientarsi tra gli Ariani della Persia che non in Egitto o a Babilonia, dove tentò di portare la propria capitale. Qui, i legami e le affinità esistenti tra gli Ariani di Occidente e quelli di Oriente erano ancora evidenti due secoli dopo che Ciro era stato deposto nella tomba di Pasargade, quella stessa tomba alla quale Alessandro volle rendere omaggio punendo i saccheggiatori che l’avevano violata durante la sua assenza.
Il cilindro di Ciro
Il cilindro di Ciro è un antico blocco cilindrico di argilla, ora rotto in più frammenti, su cui vi è un'iscrizione in accadico cuneiforme di Ciro con il quale il sovrano legittima la propria conquista di Babilonia e cerca di guadagnarsi il favore dei suoi nuovi sudditi Risale al VI secolo ed è stato scoperto tra le rovine dell'antica città di Babilonia in Mesopotamia (l'attuale Iraq) nel 1879. Attualmente fa parte della collezione del British Museum, che sponsorizzò la spedizione in cui venne scoperto.
Il testo che si può leggere sul cilindro loda Ciro, racconta la sua genealogia e lo ritrae come un re in una fila di re. Il re babilonese Nabonedo, sconfitto e deposto da Ciro, viene descritto come un empio oppressore del popolo di Babilonia e le sue umili origini sono implicitamente contrapposte alla regale discendenza di Ciro. Il vittorioso Ciro viene ritratto come il prescelto dal principale dio babilonese Marduk come colui che avrebbe riportato la pace e l'ordine nella regione. Il testo, inoltre, afferma che Ciro venne accolto dal popolo di Babilonia come loro nuovo sovrano ed entrò in città pacificamente, descrivendo come egli fosse un benefattore che migliorò la vita dei cittadini, rimpatriò dei deportati, restaurò i templi e i luoghi di culto in tutta la Mesopotamia. L'iscrizione si conclude con una descrizione di come Ciro riparò le mura della città di Babilonia.
Il testo del cilindro è stato tradizionalmente visto dagli studiosi biblici come una prova che avvalora la politica di Ciro del rimpatrio del popolo ebraico in seguito alla loro cattività babilonese (un atto che il libro di Esdra attribuisce proprio a Ciro), considerando che vi è la descrizione del restauro di templi e del rimpatrio dei deportati. Questa interpretazione è stata comunque contestata, in quanto il testo identifica solo i santuari della Mesopotamia e non fa menzione di ebrei, di Gerusalemme o della Giudea. Il cilindro di Ciro è stato ritenuto essere anche il più antico statuto noto o il primo testo riguardate i diritti umani universali. Neil MacGregor, direttore del British Museum, ha dichiarato che il cilindro è stato "il primo tentativo conosciuto di gestione di una società, di uno stato con diverse nazionalità e fedi, un nuovo tipo di governare." Il cilindro venne adottato come emblema nazionale dell'Iran da parte della dinastia Pahlavi che lo mise in mostra a Teheran nel 1971 per commemorare 2500 anni della monarchia iraniana.
Bibliografia
Erodoto, Storie

Eugenio Caruso

28-02-2017


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