Italia: vizi e virtù. Le grandi migrazioni degli anni sessanta.


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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2.12 Le grandi migrazioni degli anni sessanta
In questo periodo si assiste al fenomeno della migrazione interna che vede le masse contadine del Sud, stanche di promesse e illusioni, fuggire dalla povertà delle loro terre e trasferirsi nel triangolo industriale, Milano, Torino, Genova, attrattevi dal grande sviluppo in corso e da quel tam tam sotterraneo, che da sempre ha messo in movimento le masse diseredate di ogni Paese.
La transumananza, alla fine degli anni '60, vede un saldo di 845.000 persone nella provincia di Milano, 642.000 in quella di Torino e 132.000 a Genova, città che assorbono il cosiddetto esodo manuale; Roma è investita invece dall'esodo intellettuale, attrattovi dal "posto statale", con un saldo di 623.000 persone.
Gli insediamenti d'arrivo, per questa migrazione biblica, sono a Milano le coree dei comuni della cintura (l'area metropolitana raggiunge i 2.408.000 abitanti nel 1958), a Torino, le barriere e il centro storico, che non viene risparmiato dalla degradazione strutturale e ambientale e dalla lacerazione del vecchio tessuto urbano. Roma, metropoli senza area metropolitana, pur estendendosi su un'area di ben 150.000 ettari, contro i 18.000 ettari di Milano e i 13.000 di Torino, vede le borgate soffocare l'urbe con la colata di cemento iniziata con il fascismo e mai arrestata.
A Milano l'immigrazione e la relativa pressione dal basso, che ne consegue, determinano una mobilità verticale, che vede la promozione sociale di operai e impiegati, che "si mettono in proprio" e sviluppano una fitta rete di piccole e medie imprese o di imprese artigiane. A Torino, la struttura oligopolistica legata alla specializzazione monoproduttiva dell'automobile, crea invece una forte staticità del sistema produttivo, le cui fortune restano indissolubilmente legate alle fortune della Fiat, così come quelle di Genova sono legate alle fortune dell'industria di stato.
Le grandi migrazioni, il bisogno di case e il crescente benessere, dànno spazio al peggior aspetto del miracolo economico, la speculazione edilizia, che produce mutamenti catastrofici al paesaggio urbano e naturalistico; una colata di cemento si abbatte su città, coste, montagne, al di fuori di qualsiasi pianificazione.
Il fenomeno non si limitò al sud, ma coinvolse anche alcune zone del nord, come il Veneto, impoverite dalle gravi condizioni di lavoro; i nostri emigranti iniziarono a sciamare in tutta europa.
L’emigrazione italiana, dal 1861 al 1970, coinvolse da ogni parte del territorio complessivamente oltre 27 milioni di cittadini, una cifra impressionante! Circoscrivendo il periodo all’ultimo dopoguerra, posso affermare che le regioni meridionali acquistano una netta “supremazia” nel contributo di continua e inarrestabile emorragia di persone, incoraggiata dalle autorità perché si riteneva servisse da antidoto alle tensioni sociali e perché avrebbe fornito una via “naturale” e “spontanea” alla soluzione della questione meridionale. Dal 1958 al 1963 l’Italia “esporta” nei paesi europei oltre un milione e mezzo di emigranti, fra i quali circa i 2/3 provengono dal Sud. Sono gli anni del più rapido sviluppo economico dell'Europa, in cui è relativamente facile trovare un posto di lavoro a Milano, a Torino, a Monaco, a Colonia o a Zurigo.
Il peso delle regioni meridionali nell’originare questi flussi migratori aumenta progressivamente fino a costituire nel 1963 quasi i tre quarti degli espatri. Fra le regioni meridionali, Puglia e Campania appaiono le più “ricche di emigranti”. Verso la metà degli anni ’70 cessa ormai ogni flusso migratorio verso i paesi extra-europei.
Prendo ora in considerazione, più in dettaglio, le migrazioni in territorio italiano. Negli anni dal 1958 al 1963 si muovono dalle regioni del Mezzogiorno oltre un milione e trecentomila persone. Dalle 69.000 nuove iscrizioni anagrafiche del 1958 nei comuni del triangolo industriale, si passa nel 1963 a un numero quasi triplicato (183.000), già superato l’anno precedente fino a raggiungere le 200.000 unità.
A Milano, al lento declino dei flussi migratori dell’area lombarda e veneto-emiliana degli anni ’50, fa riscontro la crescita progressiva dell’immigrazione meridionale e insulare. Questa passa dal 17% del totale nel periodo 1952-57, al 30% nel periodo 1958-63. A Torino l’ondata migratoria più massiccia investe la città negli anni tra il 1959 e il 1962 con 64.745 unità nel ’60, 84.426 nel ’61 e 79.742 nel 1962. Questa manodopera disperata e a buon mercato giunge sui treni della speranza soprattutto dalla Puglia e dalla Sicilia (rispettivamente sono 16.951 e 10.783 gli emigranti che lasciano quelle terre), ma anche le altre regioni meridionali partecipano cospicuamente: la Calabria con 4.890 unità, la Sardegna e la Campania rispettivamente con 3.504 e 3.536 immigrati. Un fenomeno particolare riguarda il Lazio, interessato ai movimenti migratori soprattutto per la natura amministrativa e terziaria di Roma. Che lavoro fanno gli emigranti al loro arrivo nelle città del nord o nella capitale? Soprattutto si impiegano nell’edilizia, un lavoro che richiedeva un numero consistente di operai per costruire i palazzoni nelle periferie metropolitane.
I dati parlano chiaro. Nel 1962 a Genova il 70% della manodopera edile è di provenienza meridionale, a Torino nel 1960-61 lo è l’80% circa degli edili iscritti alla Cassa. Mentre a Milano i non residenti avviati in edilizia nel 1962 sono quasi l’85% del totale e i gruppi di calabresi, pugliesi e siciliani sopravanzano ormai i veneti e anche i lombardi. Per passare a una situazione di nuova precarietà e talvolta di stabilità, occorrerà attendere la chiamata della FIAT a Torino o di una grande fabbrica meccanica, chimica o siderurgica a Milano. Gli anni che vanno dal 1968 al 1970 sono caratterizzati da una “seconda ondata” migratoria di rilevanti proporzioni dal sud al nord; nel 1969 risultano immigrati a Torino circa 60.000 lavoratori, di cui oltre al metà dalle regioni meridionali, mentre in Lombardia giungono 70.000 nuovi immigrati. A Torino e provincia l’elemento scatenante sono le assunzioni alla FIAT: si trattò di un afflusso improvviso di 15.000 operai giovani, meridionali, nella loro stragrande maggioranza di origine non contadina. Una massa enorme che si trova a fare i conti con il problema dell’abitazione. Si cercano le più disparate soluzioni, quelle che offre una società stravolta e impreparata a questi arrivi e quelle che suggerisce l’arte di arrangiarsi. Nascono case “fai da te” e piccoli, disordinati, nuclei urbani lontani dal centro, le “coree degli immigrati”, un nome assunto dalla contemporanea guerra in Corea e dall’impressione che ne avevano avuto i residenti nel milanese, ai quali gli immigrati si presentavano come degli esuli, dei profughi, come “gente che aveva perduto una guerra”. Nei paesi della “cintura” milanese, dove i terreni costano di meno, si formano dei nuclei urbani, che significano disordine di accostamento, assurdità urbanistica, cumulo di errori tecnici, promiscuità di ogni tipo, speculazione incontrollabile.
Altrove, come a Torino e a Genova, si verifica l’abbandono del centro degradato da parte dei proprietari che cercano altrove abitazioni più confortevoli e più moderne. Nella città marittima si svuotano i quartieri del porto e in generale della città vecchia per riempirsi dei diseredati, lo stesso avviene a Torino con i Murazzi e San Salvario. Gli emigranti occupano tutti gli spazi disponibili: soffitte, cantine, sottoscale, vecchie cascine e persino case destinate alla demolizione, e quando non ci riescono vivono in alloggi sovraffollati. L’esito è il moltiplicarsi delle bidonville: ruderi delle case bombardate nel vecchio centro storico erano stati riadattati ad abitazioni primitive, sulle rive e sui greti dei due corsi d’acqua si stendevano lunghe file quasi ininterrotte di baracche e capanne. Da un lato quindi lavoro precario e mansioni dequalificate, dall’altro pessime condizioni di vita fuori dalla fabbrica, a cominciare dal problema della casa. Di fronte a questo scenario, ai meridionali non resta che reagire intensificando il lavoro, nella speranza e nella prospettiva di conquistare una condizione di vita più dignitosa e poter richiamare la famiglia. L’esperienza sui luoghi di lavoro e la condivisione delle sofferte condizioni materiali spinge a un processo di omogeneizzazione fra emigranti e classe operaia locale, favorito dalla pratica di forme di solidarietà e dalla partecipazione alle lotte sindacali che si andavano organizzando per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’affermazione di un maggior potere contrattuale in fabbrica. Nel corso dei rinnovi contrattuali si organizzano scioperi e manifestazioni pubbliche – una novità per gli operai meridionali! -, che culminano a volte in veri e propri scontri con le forze di polizia, come avvenne nel 1962 in Piazza Statuto a Torino. L’autunno caldo e le lotte del ‘68-’69 in Italia e in Europa consolidano il rapporto di solidarietà e saldano le rivendicazioni degli operai e degli emigranti con quelle degli studenti. In Francia essi partecipano alle manifestazioni del “Maggio” , in Belgio sono in prima fila fra i minatori immigrati e in Italia innalzano il vessillo delle lotte e dei diritti alla FIAT e nelle altre piccole e grandi fabbriche, dove ormai – si può dire – si era chiuso un ciclo e se ne apriva un altro, con un ruolo da protagonisti. L’esito della lunga marcia da un capo all’altro della penisola era sotto i loro occhi, compiaciuti rispetto ai progressi fatti, ma incerti di fronte ai problemi irrisolti e alle prospettive future.

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Eugenio Caruso - 11 marzo 2017


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