La Teogonia è un poema di Esiodo, in cui si raccontano la storia e la genealogia degli dei greci. Si ritiene che sia stato scritto intorno al 700 a.C., ed è una fonte fondamentale della mitologia greca. L'opera è composta da 1022 esametri. Ripercorre gli avvenimenti mitologici dal Chaos primordiale, fino al momento in cui Zeus diviene re degli dei. Per i greci, quindi, in principio era il caos.
« La Teogonia esiodea sembra riflettere la dottrina teogonica dei sacerdoti di Apollo delfico. In origine sarebbe stato il CAOS, il "vuoto primordiale" e poi GAIA, la Terra, ed EROS, l'amore, come attrazione reciproca e principio di unione ed armonia.
Lo sviluppo della vita dell'universo viene presentata da Esiodo secondo l'idea (largamente diffusa nella mitologia medio orientale) dello scontro fra generazioni divine che si succedono nel dominio. Il mito da lui narrato rivela l'influenza di racconti sacri diffusi tra le culture del Vicino Oriente: l'opera in cui va identificato il più antico modello della Teogonia è un testo hittita redatto intorno al 1400 a.C. e derivato a sua volta da una più antica versione hurrita (forse del terzo millennio a.C.). Secondo questi racconti, il dio più antico fu Alalu, a cui seguì il dio del cielo Anu (corrispondente a Urano); suo figlio Kumarabi (corrispondente a Crono) lo evirò e prese il potere. In seguito nacque il dio delle tempeste, che Kumarabi voleva inghiottire per sventare ogni futuro pericolo; al suo posto però gli fu data una pietra. Infine il dio delle tempeste (una divinità legata ai fenomeni atmosferici, esatto corrispondente di Zeus) prese il potere e dovette poi lottare contro mostri e giganti che cercavano di spodestarlo. Il racconto di Esiodo s'ispira dunque a un antichissimo mito cosmogonico, che attraverso varie mediazioni giunse sino a lui e fu inglobato molto precocemente nel sistema mitologico greco».
(Giulio Guidorizzi. Il mito greco vol.1 Gli dèi. Milano, Mondadori, 2009, p.1167)
In tal senso analogie sono riscontrabili anche con la mitologia sumera. In principio vi era un mare, non creato, eterno, primordiale. chiamato Nammu, il cielo e la terra, An-Ki erano uniti uno all’altra e generarono Enlil, a questo punto Enlil (aria), invaghitosi della madre, si infrappose fra An e Ki e li costrinse a dividersi An salì verso l’alto ma non riuscì a portare con se Ki trattenuta verso il basso da Enlil che in un rapporto incestuoso con la madre, generò tutti gli esseri viventi. Un altro mito narra che il popolo sumero sia invece stato creato per svolgere i lavori che gli dei si erano stancati di fare, essi perciò pregarono Enki di provvedere a creare qualcosa che potesse fare il lavoro pesante per loro, Enki disse loro di prendere dell’argilla dal profondo e di farne dei pupazzi che somigliassero, anche nelle fattezze del viso, agli dei, questi si sarebbero chiamati uomini ed avrebbero fatto i lavori pesanti al loro posto.
La Teogonia di Esiodo, come ambedue i poemi "omerici", si contraddistingue per un preciso incipit che richiama l'intervento di alcune dee indicate con il nome di "Muse", dee delle arti.
Le Muse Clio, Euterpe e Talia di Eustache le Sueur
Esistono diverse tradizioni riguardo l'origine delle Muse. Secondo Pausania, Zeus generò in Mnemosine tre muse giacendo con lei per nove notti: Melete (la pratica), Mneme (il ricordo) e Aede (il canto), indicate con il nome di Mneiai. Altri autori affermavano che fossero figlie di Urano e Gea, altri ancora vedevano Armonia, figlia di Afrodite, quale loro progenitrice e Atene quale loro luogo natio. Eumelo di Corinto cita altre tre muse, Cefiso, Apollonide e Boristenide, affermando che il loro padre fosse Apollo. Mimnermo fa riferimento a due generazioni di muse, figlie rispettivamente di Urano e Zeus. Le tradizioni sono discordi anche riguardo al numero delle Muse. Tre muse venivano venerate anche a Delfi, con i nomi di Mese, Nete e Ìpate. Cicerone narra di quattro muse: (Telsinoe, Melete, Aede, Arche), sette (le sette muse erano venerate a Lesbo), otto secondo Cratete di Mallo o infine nove. Il numero di nove finì per prevalere in quanto citato da Omero ed Esiodo. Quest'ultimo le enumera nella Teogonia, ma senza specificare di quale arte siano le protettrici:
« le nove figlie dal grande Zeus generate,
Clio e Euterpe e Talia e Melpomene,
Tersicore e Erato e Polimnia e Urania,
e Calliope, che è la più illustre di tutte. »
(Esiodo, Teogonia, incipit, 76-79)
La loro origine è stata raccontata in un "inno" di Pindaro andato perduto, l'Inno a Zeus, ma ricostruibile per mezzo di una preghiera redatta da Elio Aristide il quale ricorda come in occasione del suo matrimonio, Zeus domandò agli altri dèi quale fosse un loro desiderio non ancora esaudito e questi gli risposero chiedendo di generare delle divinità «capaci di celebrare, attraverso la parola e la musica, le sue grandi imprese e tutto ciò che egli aveva stabilito.»
Se dunque le Muse sono quelle dee che rappresentano l'ideale supremo dell'Arte, intesa come verità del "Tutto" ovvero l'"eterna magnificenza del divino", i poeti sono sono entheos, (pieni di Dio) come ricorda lo stesso Democrito.
Nel caso di Esiodo viene raccontata una vera e propria epifania: le dee incontrano il pastore Esiodo «mentre pascolava agnelli sotto il divino Elicone» apostrofandolo tra i «pastori campestri, vili creature obbrobriose, niente altro che ventri», ma le dee consegnano al pastore Esiodo il bastone (o lo scettro) decorato di alloro trasformandolo da «'ventre', ovvero rozzo contadino e pastore in poeta: una divina grazia tanto eccezionale quanto misteriosa». Il dono delle Muse dunque, o meglio uno dei loro doni, è la capacità di parlare secondo verità.
Le Muse, dunque, sono le dee che donano agli uomini la possibilità di parlare secondo il "vero" e, figlie di Mnemosýne, la Memoria, consentono ai cantori di "ricordare" avendo questa stessa funzione uno statuto religioso e un proprio culto.
Non solo, Marcel Detienne evidenziando come la memoria dei "poeti" non corrisponda agli stessi fini di quella degli uomini moderni, afferma:
« Fin dall'inizio la memoria sacralizzata è privilegio di alcuni gruppi di uomini organizzati in confraternite; come tale, si differenzia radicalmente dal potere di ricordarsi degli altri individui. In questi ambienti di poeti ispirati, la memoria è onniscienza di carattere divinatorio; come il sapere mantico, si definisce attraverso la formula: "ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu". Con la sola memoria il poeta accede direttamente, in una visione personale, agli avvenimenti che evoca; ha il privilegio di entrare in contatto con l'altro mondo. La sua memoria gli permette di "decifrare l'invisibile". Dunque, la memoria non è solo il supporto materiale della parola cantata, la funzione psicologica che sostiene la tecnica formulare; è anche e soprattutto la potenza religiosa che conferisce al verbo poetico il suo statuto di parola magico-religiosa. In effetti, la parola cantata, pronunciata da un poeta dotato di un dono di veggenza, è una parola efficace; per sua propria virtù istituisce un mondo simbolico religioso che è lo stesso reale. »
(Marcel Detienne. I maestri di verità nella Grecia arcaica. Milano, Mondadori, 1992, p. 4)
Quindi la potenza, la dea della memoria, Mnemosine « madre delle muse, è "oblio dei mali e tregua alle cure". In questa sorta di incantesimo si può già intravedere un primo accenno di quello che saranno in seguito gli esercizi spirituali filosofici, sia che appartengano all'ordine del discorso che a quello della contemplazione. Poiché non è soltanto a causa della bellezza dei loro canti e delle loro storie che le Muse fanno dimenticare le disgrazie, ma anche perché introducono il poeta e colui che lo ascolta a una visione cosmica. »
(Pierre Hadot. Che cos'è la filosofia antica. Torino, Einaudi, 1998, p. 22)
Apollo era il loro protettore, quindi venivano invitate alle feste degli dèi e degli eroi perché allietassero i convitati con canti e danze, spesso cantando insieme. Spesso omaggiavano Zeus, loro padre, cantandone le imprese. Le Muse erano considerate le depositarie della memoria del canto, della danza e del sapere in quanto figlie di Zeus. Il loro culto fu assai diffuso fra i Pitagorici. Nel canto, inteso come racconto storico musicato, le Muse erano superiori a qualsiasi umano poiché conoscevano alla perfezione non solo il passato e il presente, ma anche il futuro. Il loro canto più antico fu quello rivolto alla vittoria degli dei contro la rivolta dei titani. Allietavano ogni festa con il loro canto, si ricordano di loro nel caso delle nozze di Cadmo e Armonia e Teti e Peleo e si lamentarono per la perdita del prode Achille per diciassette giorni e diciassette notti. Le muse sono "preposte all'Arte in ogni campo" chiunque osasse sfidarle veniva punito in maniera severa: le sirene furono private delle proprie ali, utilizzate poi dalle stesse Muse per farsene delle corone. Le Pieridi, nove come le muse, le sfidarono al canto, chiedendo in caso di vittoria le fonti sacre alle avversarie, dopo la prova delle Pieridi fu Calliope a partecipare per le muse e dopo un lungo canto vinse e le donne vennero tramutate in uccelli. La loro magnificenza incantò Pireneo, che, dopo aver conquistato la Daulide e parte della Focide, morì al loro inseguimento. Fu Apollo a convincerle ad abbandonare la loro antica dimora, il monte Elicona portandole a Delfi, sul monte Parnaso, da tale affinità l'epiteto del dio Musagete. Altre divinità a loro collegate erano Ermes e Dioniso.
La manifestazione del Cosmo.
Dopo il proemio riguardante le
Muse, le dee "olimpiche" a cui si deve l'intera opera religiosa, la Teogonia racconta l'origine del mondo:
All'inizio, e per primo, "venne ad essere"
Chaos: non disordine, confusione o mescolanza, solo una gola vuota, puro spazio spalancato. Segue
Gea dal seno vasto e profondo, la Terra, la prima divinità che assume una vera e propria forma, sede sicura ed eterna di tutti gli dèi. Quindi
Tartaro, la realtà tenebrosa e sotterranea; poi
Eros, il più bello tra gli dèi, il dio primordiale che "scioglie le membra", e che condiziona l'esistenza dei mortali come quella degli immortali, principio generatore che non genera.
Da Chaos ("Spazio beante") sorgono, per riproduzione verginale (partenogenesi),
Erebo (le Tenebre) e
Nyx (la Notte) e dall'unione di Nyx con Erebo nascono
Etere (la Luminosità del cielo) e
Hemere (il Giorno).
Da Gea ("Terra") viene generato, per partenogenesi,
Urano ("Cielo stellante") pari alla Terra,, che subito si inarcò sulla madre in un abbraccio totale. l'esperienza dell'amplesso scatenò l'energia creativa di Gea, che si mise a procreare, senza doversi accoppiare; G genera quindi, per partenogenesi, i monti, le Ninfe dei monti e il Ponto (il Mare, immenso deserto d'acqua increspato di spuma). Con Urano si accopppiava ogni notte, al riparo della luce di Etere e di Emera.
Unendosi a Urano ("Cielo"), Gea ("Terra") genera i
Titani: Oceano, Coio (anche Ceo), Creio (anche Crio), Iperione, Iapeto (anche Giapeto), Theia (anche Teia o Tia), Rea, Themis (anche Temi), Mnemosyne (anche Menmosine), Phoibe (anche Febe), Tethys (anche Teti) e Kronos (anche Crono). Nonostante l'attrazione irresistibile che spingeva Urano a possedere Gea, ogni notte, egli odiava i nati dalla loro unione costringendo la madre a tenerli dentro di sé al riparo della distruttività paterna. Alla fine l'utero, benchè capiente e profondo, divenne un fardello troppo pwesante e Gea decise di porre fine alla tortura. Traendo il ferro dalle proprie viscere, ne fece una falce ed espose ai figli le proprie intenzioni. Il più giovane,
Crono, accettò di eseguire il piano della madre: quando Urano giunse per unirsi di consueto a Gea, Crono afferrò il padre per i genitali e glieli tranciò. Il sangue cadde a pioggia su Gea, che ne fu pregna: dal drammatico, ultimo contatto tra Terra e Cielo, nacquero le
Erinni, i
Giganti e le ninfe del frassino o
Melie. Dall'ultima eiaculazione del membro di Urano, caduto in mare, prese forma, per condensazione della spuma
Afrodite dalle lunghe chiome, la dea dell'amore.
Anche l'amore fu in principio
Afrodite,viene prima degli altri grandi dei dell'Olimpo dal punto di vista storico e antropologico, essendo nata dal sangue e dallo sperma di Urano, nonchè da quello simbolico, sia che si voglia pensare al mare come elemento da cui cominciò la vita, sia che si interpreti Afrodite come la misteriosa energia dell'amore che alla vita stessa presiede assicurandone la continuazione, più forte di quella distruttiva del tempo.
Il nome Aphrodíte non è attestato in Lineare B (miceneo), d'altronde il suo accostamento etimologico, a partire da Esiodo, al termine afros (spuma del mare) sembrerebbe di tipo "popolare". Il suo nome è stato, anche, collegato alla fenicia dea Astarte.
Atteso che non vi sono certezze sul significato originario del nome di Afrodite, anche l'origine della sua figura divina è piuttosto controversa. La tradizione greca la vuole di derivazione orientale: Erodoto sostiene che il suo santuario di provenienza è quello di Afrodite Urania ad Ascalona, da lì i Ciprioti ne importarono il culto; mentre, per Pausania, i Fenici trasferirono direttamente il culto a Citera. Comunque sia la sua figura venne ellenizzata già al tempo di Omero: nell'Odissea la si fa originare dal santuario di Pafo nell'isola di Cipro. Quindi se è probabile una sua influenza orientale è da tener presente che il tempio di Afrodite rinvenuto a Pafo è datato al XII secolo a.C., quando vi giunsero i Micenei (Achei), mentre la colonizzazione fenicia è invece attestata al IX secolo a.C..
« O Musa, dimmi le opere di Afrodite d'oro,
dea di Cipro, che infonde il dolce desiderio negli dei
e domina le stirpi degli uomini mortali,
e gli uccelli che volano nel cielo, e tutti gli animali,
quanti, innumerevoli, nutre la terra, e quanti il mare »
(Inni omerici- Ad Afrodite, V, 1-4. Traduzione di Filippo Càssola, Milano, Mondadori/Lorenzo Valla, 2006, pp.254-5)
La potenza divina di Afrodite è l'amplesso, non solo quello "legittimo" perché «qualunque attività umana può assumere una dimensione sacrale; e l'amplesso è sacro in quanto vi si manifesta "la forza", che congiunge l'elemento maschile con l'elemento femminile, impersonata da Afrodite». «È verosimile d'altronde, che anche di Afrodite si tramandi che sia nata nel mare per nessun altro motivo se non per questo: affinché tutto venga all'essere, c'è bisogno di movimento e di umidità, fatto entrambi presenti nel mare in abbondanza. [...] Afrodite, per altro, è la potenza che conduce insieme il maschile e il femminile: forse ha assunto tale denominazione in virtù del fatto che i semi generatori degli animali sono spumosi (aphróde) [...] È presentata come bellissima, poiché agli uomini risulta gradito in massima misura il piacere relativo al congiungimento come eccellente al di sopra di tutti gli altri, ed è chiamata per questo anche "amante del sorriso" (philomeidés) [...] La fascia ricamata, poi, è come adorna, trapunta e variegata, e ha il potere di legare e serrare insieme. È chiamata inoltre sia celeste (ouranía) sia terrena (pándemos) sia marina (pontía), poiché la sua potenza si osserva sia in cielo sia in terra sia in mare.»
(Anneo Cornuto, Compendio di teologia greca XXIV; traduzione di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, 2003, pp. 247 e sgg.)
« Afrodite rappresenta la potenza irresistibile dell'amore e l'impulso alla sessualità che stanno alla radice della vita stessa. In ogni creatura vivente la dea, se vuole, sa accendere il desiderio, che procede come un incendio, travolgendo ogni regola [...]. Al di là delle regole, al di là della giustizia, una forza possente travolge ogni creatura e la spinge a osare ciò che non avrebbe mai osato se fosse stata in senno. Poiché quando ama, ognuno sembra perdere la ragione, e si lascia trascinare dalla passione, quella di Afrodite è considerata, una follia appunto, ma di tipo particolare: "i più grandi doni (scrive Platone, Fedro) vengono agli uomini da parte degli dèi attraverso la follia, quella che viene data per grazia divina". »
(Giulio Guidorizzi. Il mito greco - Gli dèi. Milano, Mondadori, 2009, p. 507)
Nell'Iliade Afrodite appare come figlia di Zeus e di Dione, difende i Troiani ed è madre di Enea, generato con l'eroe troiano Anchise, da lei personalmente difeso. La sua origine non guerriera è in questo poema evidenziata dal fatto che non solo viene ferita da Diomede ma anche che, a seguito di ciò, il re degli dèi e suo padre, Zeus, la rimprovera di occuparsi di fatti guerreschi anziché attendere a quelli riguardanti "amabili cose d'amore" che sono di sua competenza. Questo passo tuttavia pare essere una trasposizione greca di un passo rilevante della tavola n.VI dell'Epopea di Gilgamesh: l'eroe insulta la dea, che va dai genitori a piangere e lamentarsi dell'onta subita: Anu, il padre, ribatte rispondendole che era colpa sua, e quanto detto da Gilgamesh era la realtà. Infatti, Gilgamesh ha come parallelo Diomede, mentre la madre Dione (presentata come moglie di Zeus, come se ERA non esistesse), che non appare altrove né ha alcun culto ad essa dedicato, è la letterale traduzione di Antu, dea-moglie di Anu, dio del cielo. Dione è il femminile tratto dalla stessa radice di Zeus, *dewos, ''luce del giorno'': entrambe le coppie stanno a significare ''Signore e Signora Cielo''. Questo considerato, il passo non è deducibile come esatta visione dei Greci della dea, in quanto pura trasposizione letteraria.
Anche nell'Odissea, Afrodite è la dea dell'amore ma qui è moglie del dio Efesto ma è amata anche da Ares.
Esiodo nella Teogonia fa derivare il nome Afrodite da aphròs (spuma) e ne narra in questo modo la nascita provocata dalla spuma marina, frutto del seme del membro di Urano evirato da Kronos, mischiato con l'acqua del mare:
« E come ebbe tagliati i genitali con l'adamante
lì gettò dalla terra nel mare molto agitato,
e furono portati al largo, per molto tempo; attorno bianca
la spuma dall'immortale membro sortì, e in essa una fanciulla
nacque, e dapprima a Citera divina
giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti;
lì approdò, la dea veneranda e bella, e attorno l'erba
sotto i piedi nasceva; lei Afrodite,
cioè dea Afrogenea e Citerea dalla bella corona,
chiamano dèi e uomini, perché nella spuma
nacque; e anche Citerea, perché prese terra a Citera;
Ciprogenea che nacque in Cipro, molto battuta dai flutti;
oppure Philommedea perché nacque dai genitali.
Lei Eros accompagnò e Himeros bello la seguì
da quando, appena nata, andò verso la schiera degli dèi immortali.
Fin dal principio tale onore lei ebbe e sortì
come destino fra gli uomini e gli dèi immortali ..... »
Altra caratteristica celeste di Afrodite, già propria di Astarte e rimasta per la romana Venere, era l'identificazione con il primo pianeta a brillare nel crepuscolo e ultimo a lasciare il cielo al mattino.
L'affinità di Afrodite con le grandi dee del Vicino Oriente è ancora più stretta nel racconto della più struggente storia d'amore della dea, che ha per protagonista
Adone, molto prossimo al siriano Tammuz.
Afrodite e Adone di Tiziano Vecellio
Adone è una delle più complesse figure di culto nei tempi classici. Egli ha assunto numerosi ruoli in ogni periodo. Simboleggia la giovanile bellezza maschile ma anche la morte e il rinnovamento della natura. Dal suo sangue crebbero gli anemoni e ad essi Adone viene associato. Fu un fanciullo bellissimo, nato dal rapporto incestuoso fra Cinira, re di Cipro (ubriacato per l'occasione), e sua figlia Mirra. Un giorno, Cancreide, moglie di Cinira, osò sostenere che sua figlia fosse più bella di Afrodite. Afrodite, adirata, fece infiammare Mirra d'amore per suo padre e la fanciulla s'abbandonò alle lacrime per non poter soddisfare il suo desiderio. Una notte essa s'accinse ad impiccarsi quando la nutrice Ippolita, attirata dai suoi lamenti, la scorse e s'apprestò a fermarla e a dissuaderla dai suoi propositi di morte, invitandola a confidarsi con lei. Bastò che Mirra proferisse: «O mamma, felice per te che sei sua moglie!» per far ammutolire la vecchia donna che apprese la passione incestuosa di Mirra per il padre e, per amore della fanciulla, si dichiarò disposta a portarla a compimento. La nutrice attese la celebrazione della festa di Demetra, in occasione della quale le mogli si astenevano dall'andare a letto con i propri mariti, e parlò a Cinira, annebbiato dal vino, di una bellissima fanciulla, coetanea di Mirra, che desiderava giacere con lui. Calò la notte e la donna portò Mirra per mano nell'appartamento del padre, presentandola all'uomo nell'oscurità. La fanciulla giacque con il padre per nove notti, senza che l'uomo scoprisse l'identità della figlia, ma una notte Cinira s'incuriosì e accostò una lampada al viso di Mirra; riconosciuta in lei la propria figlia, ammutolì per l'orrore e sguainò la spada per ucciderla. Mirra fuggì disperata in aperta campagna e, con il favore della notte, depistò il padre, supplicando poi gli dei di renderla invisibile risparmiandola sia alla vita sia alla morte. Oppure, Cinira inseguì furibondo la figlia fuori dal palazzo e la raggiunse sul ciglio di una collina, ma Afrodite, mossa a compassione, s'affrettò a tramutarla in un albero di mirra, che l'uomo troncò in due con un netto fendente. Trascorsero nove mesi, e Mirra fu colta dalle doglie. Il suo tronco s'incurvò ma la metamorfosi privò la fanciulla d'una voce potente con cui potesse emettere gemiti. Lucina s'impietosì, s'avvicinò all'albero e posò le mani sulla corteccia per pronunciare la formula del parto. Subito s'aprì un piccolo varco, da cui affiorò il piccolo Adone. Le Naiadi lo raccolsero e lo unsero con le lacrime di sua madre. Allevato dalle Naiadi, riuscì letteralmente a stregare con la sua sfolgorante bellezza la stessa Afrodite, che lo amò appassionatamente, e poi anche Persefone. Secondo il racconto dello Pseudo-Apollodoro, Afrodite lo mandò da Persefone in una cassa di legno, affinché quest'ultima lo tenesse al sicuro in un angolo buio. Persefone, spinta dalla curiosità, aprì il cofano e vi scorse il bellissimo bambino. Se ne innamorò e lo tenne con sé nel suo palazzo. Afrodite fu informata della faccenda e si precipitò irata nel Tartaro per rivendicare Adone, ma Persefone rifiutò di restituirlo ad Afrodite, ed essa s'appellò allora al verdetto di Zeus. Zeus, che ben sapeva che Afrodite in un modo o nell'altro si sarebbe unita con il bel fanciullo, rifiutò di risolvere una questione così sgradevole e l'assegnò a un tribunale meno prestigioso, presieduto dalla Musa Calliope. La dea stabilì che Afrodite e Persefone meritavano pari autorità su Adone, perché la prima l'aveva salvato al momento della nascita, e la seconda in seguito, scoperchiando il cofanetto e rinvenendo il fanciullo. Calliope risolse la disputa ordinando al ragazzo di passare un terzo dell'anno con Afrodite, un terzo con Persefone e un terzo con la persona di sua scelta. Secondo altri, Zeus stesso s'interessò alla questione ed emise il verdetto. Afrodite s'infuriò perché Adone non le era stato concesso solo per sé e sfogò il suo sdegno instillando nelle Menadi un disperato amore per Orfeo, figlio di Calliope. Il musico respinse le fanciulle invasate ed esse, offese, lo dilaniarono. Poi indossò una cintura magica che stimolava il desiderio sessuale verso chi la portasse e attirò Adone fra le sue braccia, inducendolo a trascorrere con lei anche la porzione annuale destinata alla libertà e riducendo il periodo che spettava a Persefone. Si narra che una donna, Elena, aiutò Afrodite nel sedurre il bellissimo Adone. Un giorno, la Musa Clio insultò Afrodite per la sua storia d'amore con il fanciullo, e la dea, furente, l'accecò d'amore per Piero, figlio di Magnete. Ovidio narra che Afrodite fu involontariamente colpita da una freccia del figlioletto Eros e per questo s'innamorò alla follia di Adone ormai adulto, bello e fiero.
Per amore del giovane, Afrodite trascurò di visitare Citera, Pafo e altri suoi luoghi di culto, e non smise per un istante di seguirlo nei boschi e nelle selve, liberando i cani da caccia contro cervi, lepri e caprioli per facilitare all'amato le prede. Come figli di Adone e di Afrodite si ricordano Priapo (nato veramente dopo che Afrodite fu amata anche da Dioniso), Golgo, eponimo della città di Golgi a Cipro, Istaspe, Zeriadre, e una figlia, Beroe. Secondo altri mitografi durante una battuta di caccia fu ucciso da un cinghiale inviato dal geloso Apollo con l'aiuto di Artemide, o da Ares amante della dea Afrodite. Dal sangue del giovane morente crebbero gli anemoni e da quello della dea, ferita tra i rovi mentre era corsa a soccorrerlo, le rose rosse. Zeus commosso per il dolore di Afrodite concesse ad Adone di vivere quattro mesi nel regno di Ade, quattro sulla Terra assieme alla sua amante e quattro dove preferiva lui.
Prima di abbandonare il tema dell'amore, un cenno a Eros, che nel mito orfico della creazione è "il generato per primo". Al di fuori di questa concezione gli vengono attribuiti padri e madri diversi anche se l'ipotesi più accreditata presso i greci è che fosse figlio di Afrodite.
Eros è, nella religione greca, il dio dell'amore fisico e del desiderio. Nella cultura greca, l'amore è ciò che fa muovere verso qualcosa, un principio divino che spinge verso la bellezza. In ambito greco, quindi, non vi era una precisa distinzione tra «la passione d'amore e il dio che la simboleggiava».
La prima apparizione della nozione di Eros è nelle opere attribuite a Omero. In tale contesto Eros non viene personificato, quanto piuttosto come principio divino corrisponde all'irrefrenabile desiderio fisico come quello vissuto da Paride nei confronti di Elena:
« Ma ora andiamo a letto e facciamo l'amore:
non mi ha mai preso il cuore un desiderio (eros ) tanto possente »
(Iliade III, 441-442. Traduzione di Guido Paduano in Omero Iliade. Milano, Mondadori, 2007.)
o ancora lo stesso desiderio provato da Zeus nei confronti di Era:
« Era raggiunse rapidamente la cima del Gargano,
sull'alto Ida, e la vide Zeus che raduna le nubi,
e quando la vide la passione (eros) invase il suo animo saggio,
come quando per la prima volta s'unirono nell'amore
e andarono a letto, all'insaputa dei genitori ».
o, infine, ciò che rende tremanti le membra dei proci di fronte a Penelope:
« Ed ecco i ginocchi dei proci si sciolsero, furono sedotti da amore (eros)
bramarono tutti di giacere al suo fianco nel letto ».
(Odissea XVIII, 212-3. Traduzione di Aurelio Privitera in Omero Odissea. Milano, Mondadori, 2007)
Tale desiderio irrefrenabile si spiritualizza nei lirici greci del VII/VI a.C. ma presenta comunque delle caratteristiche crudeli e ingestibili. Manifestandosi improvvisamente, Eros agita in modo cupo le sue vittime:
« Ma per me Eros non dorme
in nessuna stagione:
come il vento di Tracia infiammato di lampi
infuria accanto a Cipride
e mi riarde di folli passioni,
cupo, invincibile,
con forza custodisce l'anima mia. »
(Ibico VI. Traduzione di Marina Cavalli, in Lirici greci. Milano, Mondadori, 2007, pag. 369)
« Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente:
dolceamara invincibile belva »
(Saffo 61. Traduzione di Marina Cavalli, in Lirici greci. Milano, Mondadori, 2007, pag. 273)
« Eros tremendo, le Follie ti furono nutrici:
per te cadde la rocca di Troia,
per te il grande Teseo, l'Egide, cadde, e Aiace Oileo,
il valoroso per la loro follia. »
(Teognide II, 1231. Traduzione di Marina Cavalli, in Lirici greci. Milano, Mondadori, 2007, pag. 181)
« non è Afrodite, ma il folle e insolente Eros che come fanciullo gioca,
sfiorando il sommo dei fiori - ma che non me li tocchi - del cipero.
Eros di nuovo, a causa di Cipride, dolce mi invade, riscalda il cuore. »
(Alcmane 147-8. Traduzione di Marina Cavalli, in Lirici greci. Milano, Mondadori, 2007, pag. 617-619)
In Anacreonte questo vissuto viene presentato come colui che colpisce violentemente:
« Ancora Eros m'ha colpito:
con un gran maglio, come un fabbro,
e mi ha temprato tuffandomi
in una fiumana invernale. »
(Anacreonte 19. Traduzione di Marina Cavalli, in Lirici greci. Milano, Mondadori, 2007, pag. 335)
Nell'opera teogonica di Esiodo sono due i passaggi che riguardano Eros qui attestato per la prima volta come quel dio primordiale in grado di domare con la passione sia gli dèi che gli uomini:
« Orbene, innanzitutto venne all'esistenza lo Spazio beante, poi a sua volta
la Terra dal largo petto, sede per sempre sicura di tutti
gli immortali che abitano le cime del nevoso Olimpo,
e il Tartaro nebbioso nel fondo della Terra dalle larghe strade,
poi Eros che è il più bello tra gli dei immortali
e scioglie le membra, e di tutti gli dei, come di tutti gli uomini,
doma nel petto il pensiero e la saggia volontà. »
(Teogonia 120-122. Traduzione di Cesare Cassanmagnago, in Esiodo. Tutte le opere e i frammenti con la prima traduzione degli scolii. Milano, Bompiani, 2009, pag. 121)
A tal proposito Ilaria Ramelli e Carlo del Grande evidenziano come:
« La Teogonia Esiodea sembra riflettere la dottrina teogonica dei sacerdoti di Apollo delfico. In origine sarebbe stato il Caos, il "vuoto primordiale" e poi Gea, la Terra, ed Eros o amore, come attrazione reciproca e principio di unione ed armonia »
(Ilaria Ramelli e Carlo del Grande. Teogonia in Enciclopedia filosofica vol. 11. Milano, Bompiani, 2006, pag. 1416)
In un secondo passaggio Esiodo evidenzia Eros come quel dio che, insieme ad Himeros, accompagna Afrodite appena nata:
« L'accompagnò Eros e il bel Desiderio la seguì
non appena venuta alla luce e avviata a raggiungere la razza degli dei »
E' opportuno, a questo punto, lasciare, momentaneamente la Teogonia e preoccuparci di come la mitologia greca spiega l'origine dell'uomo.
Il più saggio tra i giganti, Prometeo il cui nome significa "Colui che è capace di prevedere", figlio, del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, viveva con il fratello Epimeteo il cui nome vuol dire "Colui che comprende in ritardo" che, al contrario del fratello, era stolto e distratto. Entrambi facevano parte della famiglia dei Giganti che avevano osato sfidare Zeus. Prometeo però, a differenza dei fratelli, non aveva partecipato alla lotta, se non nell'ultima parte e a favore di Zeus e degli olimpici. Come premio aveva ricevuto di poter accedere liberamente all’Olimpo e al palazzo divino anche se, nel profondo del suo cuore, i sentimenti che provava nei confronti di Zeus non erano amichevoli a causa della sorte che questi aveva destinato ai suoi fratelli. Zeus, per la stima che riponeva in Prometeo, gli diede l'incarico di forgiare l'uomo che, Prometeo, modellò dal fango e che animò con il fuoco divino. Gli uomini erano ammessi alla presenza degli dei, con i quali avevano pubbliche riunioni e banchetti. Durante una di queste riunioni, fu portato un enorme bue, del quale metà doveva spettare a Zeus e metà agli uomini. Il signore degli dei affidò l'incarico della spartizione a Prometeo che approfittò dell'occasione per vendicarsi di Zeus. Divise infatti il grosso bue in due parti ma in una celò la tenera carne sotto uno spesso strato di pelle e nell'altra, macinò insieme le ossa e il grasso che ricoprì con un sottile strato di pelle tanto da far sembrare quest'ultima la preda più ricca. Zeus, poichè gli toccava la prima scelta, optò per la parte all'apparenza più ricca. Accortosi dell'inganno, la sua ira fu immediata: privò gli uomini del fuoco, riportandolo sull'Olimpo. Prometeo, considerata ingiusta la punizione, rapì il fuoco dall'Olimpo che riportò agli uomini. Zeus, accortosi dell'ennesimo inganno che Prometeo gli avea perpetrato, decise una punizione ben più grande di quella che aveva destinato ai suoi fratelli: ordinò a Ermes e a Efesto d'inchiodare Prometeo a una rupe del Caucaso, ove un'aquila durante il giorno gli rodeva il fegato con il suo becco aguzzo mentre durante la notte si rigenerava. Dopo trent'anni, fu liberato dal supplizio da Eracle che recatosi fino alla cima del Caucaso con una freccia uccise l'aquila liberando così il gigante al quale Zeus concesse di ritornare nell'Olimpo. Zeus, non contento della punizione che aveva inflitto a Prometeo, decise di punire anche la stirpe umana.
Ancora nel mondo non aveva fatto la sua apparizione la donna. Zeus pertanto diede incarico ad Efesto di modellare un’immagine di donna servendosi di acqua e di argilla. Efesto fu tanto bravo nel modellarla che la donna che ne ebbe origine era superiore a ogni elogio. Tutti gli dei furono incaricati da Zeus di riporre in lei dei doni: ATENA le donò morbide vesti a significare il candore, fiori e una splendida corona d’oro, mentre Ermes pose nel suo cuore pensieri malvagi e sulle curve sinuose delle sue labbra, discorsi affascinanti ma ingannevoli. A questa creatura fu dato nome Pandora (dal greco "pan doron = tutto dono") perché tutti gli dei le avevano donato qualcosa. Mancava solo il regalo di Zeus che fu superiore a tutti gli altri doni. Egli infatti, donò alla fanciulla un vaso, con il divieto di aprirlo, contenente tutti i mali che l’umanità non conosceva: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia, il vizio, la passione, il sospetto, la fame e così via. Quindi Zeus affidò la fanciulla ad Ermes perché la portasse in dono al fratello di Prometeo, Epimeteo che si innamorò di lei e l’accettò come sua sposa nonostante i moniti di Prometeo che aveva raccomandato al fratello di non accettare alcun dono dagli dei. Dopo poco che Pandora era sulla terra, presa dalla curiosità aprì il vaso.
Prometeo incatenato di Theodoor Rombouts
Da esso veloci corsero come fulmini sulla terra tutti i castighi che Zeus vi aveva riposto: la malattia, la morte, il dolore, e tanti altri, fino ad allora sconosciuti. L’unico dono buono che Zeus aveva posto nel vaso rimase incastrato sotto il coperchio che subito Pandora aveva chiuso: era l’Elpis, la speranza. Così fu punito il genere umano per non avere rispettato il volere di Zeus, sovrano del mondo e di tutte le sue cose e creature.
Efesto, nella mitologia greca, la maggior parte dei mitografi lo vuole figlio di Zeus e di Era la quale, non appena lo vide, vergognandosi per la sua bruttezza, lo scaraventò dalla cima più alta del monte Olimpo sulla terra e precipitò in mare dove fu allevato da Teti e da Eurinome, due divinità marine. In una grotta celata negli abissi, costruì la sua prima officina di fabbro, ed ebbe così inizio la sua attività di artefice divino. Per tentare di riappacificarsi con la madre le donò un trono d'oro ma quando Era si sedette rimase incatenata, Invano gli dei cercarono di convincere Efesto di salire all'Olimpo per liberare la madre, ma solo Dionisio riuscì nell'intento dopo averlo ubriacato.
Dopo molte peripezie si riconciliò alla fine con la madre Era e assise presso il palazzo reale.
Efesto è considerato il fabbro per eccellenza per la sua straordinaria abilità nel forgiare il metallo (fu lui a creare il carro del sole, le folgori e lo scettro di Zeus; la corazza d'oro di Eracle; il tridente di Poseidone; la prima donna, Pandora; l'elmo di Ares; ecc.
Fu lo sposo di Afrodite.
La mitologia latina lo identifica con Vulcano, dio del fuoco e dei metalli.
L'età dell'oro
Durante l'età dell'oro gli esseri umani vivevano senza bisogno di leggi, né avevano la necessità di coltivare la terra poiché da essa cresceva spontaneamente ogni genere di pianta. Non c'era odio tra gli individui e le guerre non flagellavano il mondo. Era sempre primavera e il caldo e il freddo non tormentavano la gente, perciò non c'era bisogno di costruire case o di ripararsi in grotte.
L'idea di un'epoca dorata compare per la prima volta nel poema Le opere e i giorni di Esiodo. Secondo il poeta si tratta della prima età mitica, il tempo di «un'aurea stirpe di uomini mortali», che «crearono nei primissimi tempi gli immortali che hanno la dimora sull'Olimpo. Essi vissero ai tempi di Crono, quando regnava nel cielo; come dèi passavan la vita con l'animo sgombro da angosce, lontani, fuori dalle fatiche e dalla miseria; né la misera vecchiaia incombeva su loro [...] tutte le cose belle essi avevano». Esiodo descrive altre quattro ere che sarebbero succedute all'età dell'oro in ordine cronologico: l'età dell'argento, l'età del bronzo, l'età degli eroi e l'età del ferro. Tale involuzione della condizione umana imposta da Zeus è dovuta alla creazione, a opera degli dei, di Pandora, la prima donna, donata all'uomo perché fosse punito dopo aver ricevuto dal Titano Prometeo il fuoco, rubato da quest'ultimo agli dei. Pandora ha un ruolo simile a quello di Eva nei testi biblici: come Eva, a causa del peccato originale, nega all'uomo la vita felice nell'Eden, così Pandora apre un otre nel quale erano segregati tutti i mali che durante l'età dell'oro erano sconosciuti tra gli uomini.
All'età dell'oro, con Zeus, subentrò quella dell'argento: gli uomini perdettero di vigore, nel corpo e nell'anima; a lungo sottoposti alla tutela materna, al momento dell'emancipazione non erano in grado di realizzare una ragionevole convivenza, azzuffandosi di continuo e dimenticandosi di rendere omaggio agli dei, con le pratiche di devozione e i sacrifici che sarebbero loro spettati. Così Zeus li fece scomparire, puntando su una nuova generazione, quella della cosiddetta età del bronzo. A questa generazione, che Zeus avrebbe fatto nascere dai frassini, si può collegare l'informazione per cui le Melie, nate dal sangue di Urano, avrebbero avuto a che fare con l'origine degli uomini. Comunque, che gli uomini rigenerati fossero comparsi ai piedi di questi alberi come dei frutti maturi caduti o che fossero nati dalle loro ninfe, le Melie appunto, essi si rivelarono da subito bellicosi (vennero al mondo già provvisti di armi di bronzo), insolenti e sanguigni, come dimostra tra l'altro il fatto che adottavano un regime alimentare a base di carne, contrariamente ai loro predecessori vegetariani. L'età del bronzo si svolse in due tempi. Inghiottiti dalla Morte i suoi primi indegni rappresentanti, gli dei si provvidero di nuovi interlocutori umani generando essi stessi dei figli con madri mortali. Fu questa la generazione degli eroi semidivini che combatterono a Tebe e a Troia e che, dopo la morte, andarono a condividere con Krono la dolce e remota sede delle Isole dei Beati. Infine con l'età del ferro apparve l'ultima generazione (la stessa di Esiodo) di qualità pessima, nonostante gli esempi di magnanimità, coraggio e rispetto per gli dei forniti dagli Eroi. Va da sé che su di essi incomba pesantemente il rischio di un nuovo annientamento. Per gli uomini, le donne e le loro azioni è il monito del giudizio morale: l'umanità è messa in guardia dalla ybris, dall'eccesso. È questo un vocabolo usato specialmente per indicare il modo di comportarsi verso gli altri, significa: tracotanza, temerità, insolenza, violenza, maltrattamento, oltraggio, onta; generalmente indica ogni arroganza, ogni insolenza e denota l'interna disposizione della protervia, dell'empietà, sfrenatezza e dissolutezza.
Questa concezione del futuro come degradazione si contrappone a quella del senso comune moderno. I cambiamenti dei modi e dei rapporti di produzione hanno generato nei secoli un nuovo rapporto col futuro: lo scorrere del tempo è parallelo alla crescita e al progresso, un naturale sviluppo di emancipazione dell'umanità dai bisogni e dalle sofferenze.
È probabile che l'antica concezione sia legata al passaggio dalla plurimillenaria società nomade basata sulla caccia e la raccolta di frutti, vicina dunque a quella degli altri animali sociali, a una società agricola e stanziale, con una rottura del rapporto forte umanità - natura. Non è solo Esiodo a raccontare quest'evento, anche nella tradizione giudaica si dice:
"Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero del quale ti avevo proibito di mangiare, sia maledetta la terra per cagion tua; con fatica trarrai da essa il nutrimento per tutto il tempo di tua vita; essa ti produrrà spine e triboli; ti nutrirai dell'erba dei campi. Col sudor di tua fronte mangerai il pane, finché ritornerai alla terra da cui sei stato tratto, poiché tu sei polvere e in polvere ritornerai!".
Così è anche nella tradizione latina:
"Fu lo stesso Padre celeste a volere che fosse difficile praticare la coltivazione della terra e lui per primo indusse gli uomini a inventar l'arte di muover le zolle, aguzzando l'ingegno umano con gli affanni, né permise che il suo regno intorpidisse in un ozio letargico. Prima di Giove non c'erano uomini che lavorassero la terra per soggiogarla, e non era lecito zapparla o segnare e limitar dei confini; in comune si cercavano i frutti, e il suolo spontaneamente produceva ogni cosa assai più generoso, senza che alcuno dovesse sollecitarlo. Egli istillò nei serpenti il maligno veleno, indusse i lupi a divenir predatori e volle il mare esposto alle tempeste; scosse via il miele da sotto le foglie, si prese il fuoco e fermò il vino che ovunque scorreva a rivoli: tutto ciò perché lo stimolo della necessita e, in suo aiuto, il pensiero a poco a poco facessero inventare le varie arti, come cercar lo stelo di grano nei solchi o far scaturire il fuoco nascosto nel cuore della selce. Fu così che per la prima volta i fiumi avvertirono il peso delle chiglie d'ontano, che il nocchiere scoprì il ritmo e diede un nome alle stelle: le Pleiadi, le Iadi, l'Orsa luminosa di Licaone; fu poi trovato il modo di catturar le fiere con i lacci, di attrarle nel vischio e di assediar con i cani le balze boscose. E c'è chi sferza con la fionda il largo fiume, onde raggiungerne il fondo, e chi ritira dal mare le umide reti; e dopo ancora fu scoperto il duro ferro e inventata la lama della sega che stride (poiché prima solo con i cunei potevano gli uomini spaccare la legna fendibile) e nacquero insomma tutte le arti.
Virgilio, Georgiche , I
In questa visione di una progressiva degradazione della storia umana il tempo porta inevitabilmente la rovina, oltre che la palingenesi. Ogni rottura dell'ordine temporale della vita comporta la catastrofe, ordine temporale e ordine morale sono intrecciati. C'è un rapporto tra stagione e occasione e tra le stagioni e le età dell'uomo come mostra l'enigma della Sfinge: qual è l'animale che al mattino va a quattro zampe, a mezzogiorno a due e la sera a tre? Per Esiodo, così come per i suoi contemporanei, le divine Horai, (le Ore, le stagioni), sono Eunomia (l'Ordine), Dike (la Giustizia) ed Eirene (La Pace), insieme alle tre Parche, Cloto, Lachésis e Atropos esse nella Teogonia sono le figlie di Themi (l'Equità) e di Zeus. Queste divinità presiedono ai destini umani, al processo di individuazione. Molto prima dell'avvento della filosofia le concezioni della giustizia e dell'ordine sociale sono strettamente legate allo scorrere del tempo, alle stagioni dell'anno e alle tre età dell'uomo. Tempo e giustizia sono dunque legati nel mito, la giustizia è concepita come ordine morale della vita umana e il tempo non è solo un fenomeno naturale bensì un aspetto dell'ordine morale della natura.
Proseguendo con la Teogonia: da Nyx (Notte), nata per partenogenesi da Chaos sorgono, sempre per partenogenesi: Moros (il Destino inevitabile); Ker (la Morte violenta); Thanatos (la Morte); Hypnos (il Sonno); gli Oneiroi (la stirpe dei Sogni). Successivamente Nyx genera, sempre per partenogenesi: Momos (Biasimo); Oizys (Afflizione); le Esperidi che hanno cura delle mele auree e dei loro alberi posti al di là dell'Oceano; le Moire; le Kere; Nemesis (Distribuisce); Apate (Inganno) e Philotes (Affetto o Tenerezza); Geras (Vecchiaia rovinosa); Eris (Discordia). Eris, (la Discordia odiosa), genera: Ponos (Fatica), Lethe (Oblio), Limós (Fame), Algea (Dolori che fanno piangere), Hysminai (Mischie), Machai (Battaglie), Phonoi (Assassinii), Androctasiai (Massacri), Neikea (Conflitti), Pseudea (Menzogna), Logoi (Discorsi) e Amphillogiai (Controversie), Dysnomie (Anarchia) e Ate (Sciagura) che vanno insieme, Horkos (Giuramento) che grande sciagura procura a chi lo tradisce.
Ponto (il Mare) genera Nereo detto il "vecchio", divinità marina sincera ed equilibrata; poi, sempre Ponto, ma unitosi a Gea, genera Taumante, quindi Phorcy, Ceto dalle "belle guance", ed Eurybie; dall'unione di Nereo con Doris, figlia del titano Oceano, il fiume che perfettamente termina in sé stesso, nascono le Nereidi; Taumante, figlio di Ponto e di Gea, unendosi ad Elettra, figlia di Oceano, genera Iris e le due Arpie; Phorcy e Cetó generano le due canute Graie e le tre Gorgoni abitanti come le Esperidi al di là di Oceano, ad Occidente.
Quando Perseo taglierà la testa a una delle Gorgoni, Medusa, l'unica di queste mortale e che ebbe come amante Poseidone, dal suo corpo sorgerà Chrysaor dalla spada d'oro, e il cavallo alato Pegaso che volò al servizio di Zeus.
Chrysaor, unendosi all'oceanina Calliroe, genera il tricefalo Gerione che sarà ucciso da Eracle; Cetó per partenogenesi genera Echidna il mostro metà fanciulla e metà serpente divoratore di carne, la quale, unendosi a Typhaon, genera Ortho, il cane di Gerione, Cerbero, il cane di Ade, e Idra che conosce tristi cose e che verrà uccisa da Eracle; Echidna e Typhaon generano anche Chimera spirante fuoco, che verrà uccisa da Pegaso e da Bellerofonte; Echidna o Chimera unendosi a Ortho genera Fiche e il leone Nemeo che verrà abbattuto da Eracle; Phorcy e Cetó generano, per ultimo, il serpente Ladon che tra le sue spire custodisce le greggi d'oro.
I titani Oceano e Tethys (Teti) generano i venticinque Fiumi e le quarantuno Oceanine, tra cui Stige, la più illustre, le quali con il loro elemento acquatico nutrono di giovinezza gli uomini. I titani Theia (Teia) e Iperione generano Helios (Sole), Selene (Luna) ed Eós (Aurora). Il titano Creio e la figlia di Ponto e Gaia, Eurybie, generano Astreo, Pallante e Perse; Astreo ed Eós generano i tre venti Zefiro, Borea e Noto; successivamente generano Eosphoro (Stella del Mattino) e le altre Stelle del firmamento; Stige (una delle figlie di Oceano) e Pallante, generano Zelos (Rivalità) e Nike (Vittoria), Kratos (Potere) e Bia (Forza); e con questi suoi figli, Stige, divenuta dea custode del giuramento tra gli dèi, parteciperà per prima alla glorificazione di Zeus, rappresentando i figli il seguito del futuro re degli dèi; i titani Phoibe e Coio generano la dolce Letó (anche Latona) dal peplo azzurro, Asterie (anche Asteria) che Perse condusse al suo palazzo come consorte.
Asterie e Perse generano Ecate; la dea possiede un rango particolarmente elevato, assegnatole da Zeus in persona; la sua zona di influenza è la terra, il mare e il cielo dove ella appare a protezione dell'uomo oltre che nel ruolo di intermediaria tra questi e il mondo degli dèi.
I titani Kronos (Crono) e Rea generano: Istie, Demetra, Era, Ade ed Ennosigeo (Scuotitore della terra, da intendere come Posidone o Poseidone ); ma tutti questi figli vengono divorati da Kronos in quanto, avvertito dai genitori Gea e Urano che uno di questi lo avrebbe spodestato, non vuole cedere il potere regale. Grande sconforto questo stato di cose procura a Rea, la quale, incinta dell'ultimo figlio avuto da Kronos, Zeus, e consigliatasi con gli stessi genitori, decide di partorire nascostamente a Creta, consegnando a Kronos una pietra che questi divora pensando fosse il proprio ultimo figlio; Zeus cresce in forza e intelligenza e infine sconfigge il padre Kronos facendogli vomitare gli altri figli che aveva divorato, e il primo oggetto vomitato da Kronos è proprio quella pietra che egli aveva inghiottito scambiandola per Zeus.
Inizia l'era di Zeus
Quindi Zeus scioglie dalle catene i tre Ciclopi così costretti dallo stesso Kronos, i quali lo ricambieranno consegnandogli il tuono, il fulmine e il lampo; il titano Iapeto e l'oceanina Climene generano Atlante dal cuore violento, Menetio, Prometeo e Epimeteo: il destino di Atlante e di Menetio sono decisi da Zeus il quale costringe il primo a sorreggere la volta celeste con la testa e facendo forza sulle braccia, mentre il secondo, per via della sua tracotanza, lo scaglia con il fulmine nell'Erebo. Complessivamente, a parte la vicenda di Epimeteo ("colui che pensa dopo", a differenza del fratello Prometeo "colui che pensa prima") il quale accoglierà improvvidamente il dono di Zeus consistente nella "donna", "portatrice di guai" per l'uomo.
Esiodo narra la vicenda di Prometeo, il titano campione degli uomini il quale avendo cercato di ingannare Zeus durante la spartizione del bue sacrificale, e successivamente per aver rubato il fuoco agli dèi donandolo agli uomini, viene condannato dallo stesso Zeus a essere eternamente legato a una colonna, dove un'aquila di giorno gli mangia il fegato che di notte gli ricresce, questo finché Eracle, figlio di Zeus e con il suo permesso, non lo libererà dal tormento.
La Titanomachia è la lotta tra i titani residenti sul monte Othrys e gli dèi dell'Olimpo (figli di Kronos e di Rea): da dieci anni la lotta tra i due schieramenti prosegue incerta quando Zeus, su consiglio di Gea, libera i tre Centimani precedentemente costretti nella terra da Urano e, dopo averli rifocillati con nettare e ambrosia, li coinvolge nella battaglia che diverrà così decisiva e si concluderà con la sconfitta dei titani e la loro segregazione nel Tartaro, chiuso da mura e da porte di bronzo costruite appositamente da Posidone e guardati a vista dagli stessi tre Centimani;
nel Tartaro si trovano, oltre che i Titani prigionieri e i tre Centimani loro sorveglianti (Cotto, Gige e Briareo, e la moglie di quest'ultimo la figlia di Posidone, Kymopoleia), anche Nyx e Atlante che regge il cielo, Hypnos e Thanatos, Ade e Persefone , Cerbero e Stige.
Chiusa la lotta con i Titani si ha la Tifonomachia, ovvero l'ultima battaglia condotta da Zeus prima della sua totale supremazia. L'evento è causato dalla nascita di Typheo, generato da Gea e da Tartaro "a causa dell'aurea" di Afrodite. Questo essere gigantesco, motruoso, terribile e potente viene sconfitto dal re degli dèi e relegato nel Tartaro insieme ai Titani, da dove spira i venti dannosi per gli uomini.
Zeus vincitore delle forze divine ostili agli dèi olimpici prende in sposa l'oceanina Metis, figlia di Oceano e di Tethys; ma, avvertito da Gea e da Urano che il loro erede maschio avrebbe potuto conquistare il suo stesso trono regale, Zeus la inghiottisce incorporando con Metis, la sua caratteristica unica, la "saggezza profetica". Zeus incorpora Metis, prima che questa partorisca la sua primogenita: la dea glaucopide, ATENA.
Successivamente Zeus sposa Themis, la dea, sorella dei titani, figlia di Urano e Gea, che genera le tre Horai: Eunomie, Dike e Eirene, le quali vegliano sulle opere degli uomini. La coppia Zeus e Themis genera anche le tre Moire: Cloto, Lachesi e Atropo che consegnano il destino ai mortali.
Poi, Zeus, sposa l'oceanina Eurynome, anch'essa figlia di Oceano e di Tethys, che gli genera le tre Chariti: Aglaie, Euphrosyne e Thalie. Quindi Zeus sposa la sorella Demetra che partorisce Persefone dalle "bianche braccia", che sarà concessa da Zeus ad Ade come consorte e quindi rapita da quest'ultimo; Zeus prende anche Mnemosyne dalle "belle chiome", figlia di Gea e di Urano, che gli genera le nove Muse dal diadema d'oro; con Letó, Zeus genera APOLLO e ARTEMIDE "arciera"; infine, per ultima, Zeus sposa ERA con cui genera Ebe, ARES e Eileithyia; dalla sua testa Zeus genera ATENA, signora invincibile di eserciti; Era, adirata con Zeus, genera per partenogenesi EFESTO valente nelle arti.
Da Amphitrite, nereide quindi una delle cinquanta figlie di Nereo e Doris, congiunta a Ennosigeo (Posidone), nasce Tritone vigoroso che abita il fondo del mare insieme ai suoi genitori; da Ares e Citerea (appellativo di Afrodite) nascono Phobos e Deimos divinità terribili che ineriscono al terrore che agita gli uomini durante le guerre; Ares e Afrodite generano quindi Armònie, futura sposa di Cadmo; Zeus e la figlia di Atlante Maia generano ERMES, il messaggero degli dèi.
La figlia di Cadmo, la mortale Semele, genera con Zeus l'immortale e ricco di gioia DIONISO, divenendo successivamente anche lei una dea; la mortale Alcmena genera con Zeus ERACLE; Efesto, figlio di Era, sposa la più giovane della Chariti, Aglaie; Dioniso dai capelli d'oro sposa la mortale Arianna, figlia di Minosse (ma che Zeus renderà immortale; Ebe, figlia di Zeus e di Era, sposa Eracle dopo che fu reso immortale; Elios e l'oceanina Perseis (anche Perseide) generano Circe e Aiete (anche Eeta);Aiete sposa l'oceanina Iduia e genera Medea.
Demetra unitasi all'eroe Iasio genera PLUTO dio della ricchezza e dell'abbondanza delle messi; Armònie e Cadmo generano Inó, Semele, Agavé, Autonoe, che divenne sposa di Aristeo, e Polidoro; l'oceanina Calliore e Crisaore generano Gerione che verrà ucciso da Eracle a Erytheia per via dei buoi; la dea Eós (Aurora), figlia dei titani Theia (Teia) e Iperione, e l'eroe Titono generano l'eroe Memnone armato di bronzo e re degli Etiopi, e il re Emathione; la dea Eós (Aurora) e Cefalo, generano Fetonte che verrà rapito da Afrodite che lo condurrà in un suo tempio dove lo designerà "guardiano" del penetrale, trasformandolo in dèmone divino; la figlia di Aiete fu condotta via dal figlio di Esone costretto a queste vicende dal violento Pelia. Dal matrimonio di Giasone con Medea nasce Medeio che fu allevato da Chirone figlio di Philyra; la nereide Psamate, unitasi a Eaco, genera Phoko; la nereide Thetis unitasi all'eroe Peleo, genera Achille dal cuore di leone; Afrodite) unitasi all'eroe Anchise genera l'eroe Enea; la dea Circe, figlia del dio Elios, unitasi all'eroe Odisseo, genera Agrio, Latino e Telegono che regnano sui Tirreni; l'oceanina Calipso, unitasi a Odisseo, genera Nausithoo e Nausinoo.
Gli ultimi versi della Teogonia consistono dapprima in un saluto agli dèi olimpi e alle entità del mondo, per poi procedere a una nuova invocazione alle dee Muse per avviare il Catalogo delle donne dove si celebra l'amore di dèi per donne mortali. A tal proposito occorre riportare le conclusioni, inequivocabili, di Edgar Lobel secondo le quali dopo lo studio del papiro di Ossirinco risulta evidente che la fine della Teogonia si salda, con l'avvio del Catalogo delle donne.
Eugenio Caruso 31 ottobre 2017