Augusto il fondatore dell'impero romano


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Dinastia Giulio Claudia

Gaio Ottavio, il fondatore dell'impero romano nacque a Roma il 23 settembre del 63 a.C.. Era figlio di Gaio Ottavio, uomo d’affari che aveva ottenuto, primo della gens Octavia, cariche pubbliche che gli erano valse lo scranno senatorio. Se il padre costituiva un esempio di quella schiera che passerà alla storia come homini novi, la madre, Azia maggiore, apparteneva a un’illustre casata, imparentata direttamente con Gneo Pompe e con Cesare, di cui era nipote in quanto figlia della sorella Giulia minore.
Sarà "compito" di Virgilio validare le leggende che Gaio Ottavio costruì sulla sua nascita, trasformandole in strumento di esaltazione. Al momento, il giovane Gaio Ottavio (all’epoca si chiamava come il padre) ben lungi dal conoscere quale ruolo aveva predisposto per lui il fato, consumava un’infanzia come tante nella casa nei pressi del Colle Velia. Salvo trasferirsi sulle pendici del Palatino in un’abitazione altrettanto modesta.
Secondo Svetonio, a una salute malferma, opponeva uno guardo solido, emanato da un paio d’occhi azzurri splendenti. Quanto alla bassa statura, il futuro imperatore saprà porre rimedio più avanti quando, ricoprendo un ruolo in cui non era conveniente sfigurare, ricorrerà all’utilizzo massiccio di calzari rialzati. Svetonio lo descrive come un ragazzo alquanto schivo e introverso che però, dopo essersi rifugiato nell’amore per i libri e per la lingua greca, seppe trovare un’insospettabile vivacità quando, a soli dodici anni, declamava la laudatio funebris per la nonna Giulia; esattamente come aveva fatto Cesare vent’anni prima per la zia Giulia, sottolineando le origini divine della sua gens.
Giova notare che Cesare, in tempi non sospetti, dovette vedere qualcosa in quell'introverso bisnipote, che lasciava presagire un futuro grandioso. Cesare infatti lo portò, appena sedicenne alla carica prefettizia concedendogli i dona militaria e rendendolo partecipe dei suoi trionfi celebrati nel 46, senza che Gaio Octavio avesse mai brandito un gladio. Forse bastò il coraggio dimostrato poco dopo, nel 45, quando ancora convalescente per una grave malattia, il ragazzo raggiunse il prozio in Spagna, dove Cesare stava combattendo i figli di Pompeo, superando con una scorta ridotta strade infestate da nemici. Di certo il dittatore rimase colpito dall’intraprendenza del nipote, al punto da nominarlo magistratus anzitempo, nel 44, e da inviarlo ad Apollonia dove progettava di inaugurare una campagna militare ai danni dei daci e dei parti.
Fu ad Apollonia che Ottavio ebbe notizia della morte di Cesare. E sempre in quella drammatica circostanza scoprì quanto i disegni di Cesare riguardo il suo futuro fossero estesi. A rivelarglieli fu la lettera che Sceva, la guardia personale di Cesare gli consegnò direttamente. Quello che a tutti gli effetti appariva come un testamento postumo annunciava la scelta di Cesare di adottarlo e conteneva una serie di istruzioni pratiche e spirituali in merito alla presa del potere. Tra i vari aspetti della grandezza di Cesare va inclusa questa capacità di preoccuparsi della transizione.

La prima cosa che fece fu di assumere ufficialmente il lascito di Cesare acquisendo, secondo la consuetudine, il nomen gentilizio Iulius e il cognomen Caesar del padre adottivo. Si preoccupò però di omettere il secondo cognome derivato della gens di provenienza, che la tradizione voleva andasse aggettivata in -anus. Una mancanza che invece i suoi avversari politici ebbero cura di sottolineare, al punto da riconoscerlo da quel momento in poi come Octavianus, a ricordargli eternamente quale fosse la schiatta dalla quale proveniva a dispetto delle sue pretese.
Ottaviano giungeva, pertanto, a Roma da illustre sconosciuto, balzato agli onori delle cronache in virtù di quel testamento da molti ritenuto l’estremo colpo di coda di Cesare. Sulla carta Ottaviano era destinato a fare la fine del proverbiale vaso di coccio stretto da un lato dal Senato – ispirato da un battagliero Cicerone – che non aveva nessuna intenzione di rinunciare alle proprie prerogative dall’altro, dall’ambizione di Marco Antonio, il leader del partito cesariano riconosciuto da tutti come suo continuatore in pectore. Marco Antonio rispondeva con una laudatio funebris infuocata in cui esaltava la natura divina di Cesare, cosa che fece apparire Bruto e Cassio, oltre che sicari, anche deicidi, contro i quali l’avversario, ormai indossati i panni del vendicatore, affinava le armi. In tutto questo a Ottaviano, definito con disprezzo da Cicerone iste qui umbras timet, ovvero “timoroso delle ombre”, consapevole che al momento la sua posizione era molto debole, non restava che cercare il consenso del popolo, cosa che ottenne con una manovra spregiudicatamente demagogica. Di fronte alla titubanza con cui Antonio procrastinava la consegna del denaro di Cesare, egli vendette i propri terreni e, ricorrendo a cospicui prestiti, si procurò la somma sufficiente a dare esecuzione alla volontà cesariana di offrire 300 sesterzi a ogni romano. L’elargizione riscosse ovviamene l’ampio consenso del popolo accrescendo la fama di Ottaviano.
Antonio si rese conto di non poter più sottovalutare quel ragazzo che, sotto l’aspetto malaticcio, mostrava d’avere la stessa spina dorsale di Cesare. Ottaviano comprese che per rafforzare la sua posizione esisteva un unico mezzo: possedere un esercito proprio. Così, forte dell’aiuto offerto dai veterani del padre adottivo, riuscì ad arruolare alcune migliaia di uomini, compiendo uno strappo con il quale si sarebbe presto imposto come protagonista nella nuova grande lotta che si stava delineando in Roma per il primato politico.
Cicerone, che lo considerava poco più che un principiante della politica, fu più che lieto di tributarli il suo appoggio e quello dell’intera assemblea, convinto di poter sfruttare il ragazzo rafforzandone la posizione ai danni di Antonio. Ottaviano finse la sua adesione al partito del Senato, raggiungendo così la regolarizzazione della sua posizione ottenuta anzitempo attraverso la carica di propretore. A quel punto Antonio, che aveva tentato di far dichiarare pubblicamente Ottaviano hostis publicus per aver reclutato un esercito senza averne l’autorità, si ritrovò improvvisamente nella condizione opposta. Fu lui infatti a venir additato come nemico pubblico quando, richiamate nell’ottobre del 44 le legioni dalla Macedonia con lo scopo di inviarle contro Ottaviano, scoprì di aver agito contro un propretore legalmente eletto.
In qualità di console, Antonio vantava ancora un discreto credito in Senato e ottenne così di stornare le preoccupazioni del senato nei suoi confronti muovendo contro la Gallia Cisalpina, con la scusa di indurre a più miti consigli il cesaricida Decimo Bruo, che si rifiutava di ricondurre la regione sotto l'egida del Senato. In realtà Antonio intendeva occupare la Cisalpina per ottenere una base sufficientemente forte dtalla quale progettare le azioni future. Con tale intento, puntò contro Modena, la città in cui Bruto si era asserragliato, cingendola in assedio. Nel frattempo Ottaviano elargendo vistose donazioni monetarie, otteneva dai senatori l’abrogazione della legge che conferiva ad Antonio la provincia contesa e il riconoscimento dell’imperium di pretore: con questo poteva marciare, in compagnia dei neoeletti consoli Pansa e Irzio, contro colui che al momento considerava come il rivale più pericoloso.
Mentre Cicerone pronunciava Filippiche infuocate all’indirizzo di Antonio, Ottaviano raggiungeva questi a Modena nell’aprile del 43. Nella battaglia che seguì il 21 di quello stesso mese Antonio fu sconfitto e costretto a riparare nella Gallia narbonense, dove fu inseguito da Decimo Bruto.
I due consoli Irzio e Panza perirono negli scontri, lasciando di fatto Ottaviano come unico capo di un esercito vincitore. Per la verità, quei decessi apparvero più che sospetti. Comunque sia andata, Ottaviano si trovava in una posizione di forza e tornato a Roma a capo delle sue legioni, riusciva senza troppo sforzo a strappare a un Senato paralizzato dalla paura e disorientato dalla sua astuzia politica, la carica di console con dieci anni d’anticipo sull’età stabilita. Era il 10 agosto del 43: nemmeno diciassette mesi dopo le Idi di marzo, l’oscuro Ottaviano, appena ventenne, otteneva quella dignità statale che Cesare aveva impiegato una vita a raggiungere.
Ormai padrone della situazione, Ottaviano fece approvare la legge che dichiarava crimine sacrilego l’uccisione di Cesare e decretava la più grave pena per i suoi autori. Compiva così quell’atto supremo che lo stesso Antonio non aveva avuto il coraggio di effettuare: aprire una nuova stagione di guerra civile.
Ottaviano si mosse con sagacia e prudenza cercando un insospettabile accordo con Antonio. Aveva infatti compreso che al momento era fondamentale ricompattare le fila del partito cesariano in vista della lotta che andava maturando. A tal fine si propose anche al ricco Lepido, l’unico capace in quel momento di finanziare le future spedizioni. L’equazione era semplice: Antonio aveva i soldati; Lepido i soldi. Con essi, nell’incontro avvenuto a Bonomia nel novembre del 43, Ottaviano dava vita al secondo triumvirato. L’accordo, che prevedeva una durata quinquennale, era in sostanza un patto con cui i tre si sarebbero spartiti i brandelli dell’estensione territoriale romana, dopo aver fatto scempio dei propri avversari politici. Il 27 dello stesso mese, un Senato sempre più alla deriva conferiva all’unione scellerata dignità legale.
Quindi, fu il riproporsi del medesimo copione andato in scena sin dai tempi di Mario e Silla: spietatezza, liste di proscrizione e sicari furono gli ingredienti con cui Ottaviano e i suoi degni compari eliminarono uno per uno i propri oppositori. A farne le spese fu anche il povero Cicerone, che il 7 dicembre di quello stesso anno pagava con la vita la sua pervicace adesione agli ideali repubblicani, scontando come onta suprema l’esposizione della testa e delle mani sui rostri del Foro, a futuro monito contro eventuali emulatori.
Quando pugnali ed espropri non bastarono più, si ricorse ovviamente all’impiego della forza militare. Lasciato Lepido a presiedere Roma, nell’ottobre del 42 Antonio e Ottaviano marciarono in Oriente, dove affrontarono le forze residue del partito anticesariano coagulate intorno alle figure di Gaio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto, destinatario quest’ultimo del celeberrimo «Tu quoque fili mi!». La fatica di sostenere il duplice scontro con cui a Filippi, in Macedonia, il 3 e il 23 dello stesso mese si inferse un colpo durissimo alla fronda anticesariana, ricadde interamente sulle spalle di Antonio. Ottaviano si tenne in disparte, rintanandosi per tre giorni in una palude dei dintorni, almeno secondo la versione fornita da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia o nel resoconto di Svetonio e si diede alla fuga.
La versione pressoché identica dei due autori fu leggermente stemperata da Velleio Patercolo, che nel secondo libro delle Historiae Romanae specificò che la sua fuga era stata consigliata da un sogno premonitore. A tanta indecisione dimostrata sul campo, peraltro sconfessata dagli storici moderni, Ottaviano seppe opporre la durezza con cui trattò gli sconfitti: la testa di Bruto, suicidatosi al termine dei combattimenti al pari di Cassio, rotolò poco dopo il rientro a Roma ai piedi della statua di Cesare, la cui uccisione veniva così finalmente vendicata. A quel punto ai triumviri non restava che spartirsi le spoglie di Roma. Ottaviano si prese l’Italia, la Sicilia, la Corsica, la Sardegna e l’Iberia, lasciando ad Antonio la Gallia, la Transpadania e l’Oriente romano e a Lepido la Numidia e l’Africa proconsolare.
Fu in questo periodo che la redistribuzione delle terre ai veterani, individuate nel mantovano e nel cremonese, segnarono l’esordio del cammino di Virgilio che, cacciato dalle terre avite, iniziò quel percorso che l’avrebbe condotto a diventare la penna più fulgida al servizio del futuro imperatore.
L’elargizione di quei territori fu alla base dei primi screzi che contraddistingueranno la difficile convivenza tra Antonio e Ottaviano, destinati a diventare crepe profonde. Per la verità tra i due triumviri venne siglato il tacito accordo di non dare troppo peso a quel problema e si rinnovò una mutua collaborazione sancita dal matrimonio tra Antonio e la sorella di Ottaviano, Ottavia Minore. Questa unione fece il paio con quella contratta a suo tempo da Ottaviano con Clodia Pulcra, che aveva il solo merito di essere la figliastra di Antonio e dunque utile a suggellare la momentanea pace.
Al momento comunque la tregua reggeva, tanto più che le attenzioni di entrambi erano rivolte alla Sicilia, dove i residui del partito anticesariano si aggregarono intorno all’intoccabile icona di Gneo Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, che suscitava ancora l’ammirazione trasversale di ogni soldato, senza contare che disponeva di risorse economiche di tutto rispetto. Ottaviano decise di giocare d’anticipo, proponendo un’alleanza con Pompeo, che si concretizzò nel 40 attraverso il matrimonio con Scribonia, un’appartenente alla famiglia dei Liboni strettamente correlata con il clan del vecchio nemico di Cesare. Il trattamento riservato alla prima moglie fu reiterato quando, meno di un anno dopo, crollarono i presupposti sui quali si poggiava il matrimonio con Scribonia. Il sodalizio con Pompeo infatti si sciolse come neve al sole per cui Ottaviano non esitò a disfarsi della sposa.
A differenza di Clodia però Scribonia lasciava al futuro imperatore l’eredità di una figlia, Giulia, un personaggio destinato a vivacizzare i pettegolezzi locali rappresentando, di contro, infinita fonte di cruccio per il padre. Quando aveva appena due anni, Ottaviano si ricordò di lei e nel traffico dei matrimoni volti a suggellare la pace sancita a Brindisi con Marco Antonio, la promise sposa al figlio decenne del triumviro, Marco Antonio Antillo. Il matrimonio non fu mai celebrato perché i due triumviri ripresero presto le ostilità, così la fanciulla crebbe nella casa di Augusto sul Palatino, dove, per sua somma sfortuna, di lì a breve avrebbe dovuto fare i conti con la futura moglie di Ottaviano, Livia Drusilla.
A quanto affermano le fonti imperiali, fu proprio la scintilla scoccata nei confronti di Livia a provocare la rottura del matrimonio con Scribonia. Ottaviano non esitò a strappare Livia al marito Tiberio Claudio Nerone, sebbene la donna avesse avuto già un figlio da lui, Tiberio, e fosse incinta di un secondo, Druso. Livia apparteneva per nascita e per matrimonio alla famiglia patrizia dei Claudi, esponenti della classe aristocratica senatoria avversa che Ottaviano premeva attirare a sé. Il loro sodalizio, destinato a durare per una cinquantina d’anni, diverrà uno dei più emblematici dell’antichità romana. Tacito e Svetonio presentano Livia come una donna intrigante e senza scrupolia. Su Livia infatti grava il sospetto di essere quanto meno mandante delle morti e delle disgrazie dei figli e nipoti di Ottaviano. A uno a uno infatti Marcello, Gaio, Lucio, Germanico, tutti eredi diretti designati al trono, caddero in circostanze assai sospette. Tutte queste morti non fecero altro che spianare la strada all’elezione di Tiberio, il figlio naturale di Livia.
Indubbiamente, però, attraverso quel matrimonio, Ottaviano guadagnò una consorte che, secondo la tradizione, obbediva ciecamente a tutti i suoi desideri Fu lei che in casa impostò una vita di massima severità, all’antica, militaresca, repubblicana, non concedendosi nessuna distensione, nessun esonero dagli impegni giornalieri, nessun lusso, nessuna mondanità. Di contro, questa donna scaltra, questo “Ulisse in gonnella” come la definì il pronipote Caligola, seppe alternare alla psicologia l’arsenico e il complotto, coi quali, secondo i più malevoli, riuscì a eliminare gli eredi diretti al trono e raggiungere il suo scopo, quello cioè di incoronare il proprio figlio Tiberio imperatore di Roma.
Insomma, se Ottaviano diverrà il primo imperatore, Livia sarà la prima imperatrice, in grado non solo di costruire la carriera della propria progenie e della propria gens, ma influenzando profondamente l’operato del consorte: fu lei a incidere nella società romana prospettando un nuovo assetto di equità familiare, talmente clamoroso che le epoche successive, tinte della moralità cristiana, giudicarono più “prudente” affossare. Al momento, forte dell’appoggio e degli intrighi di Livia, Ottaviano poté concentrarsi sulla definizione delle alleanze che dovettero necessariamente rimescolarsi in seguito al fallimento dell’amicizia con Pompeo. Fu proprio per contrastare quest’ultimo che il giovane si strinse di nuovo ad Antonio, rispolverando il patto del triumvirato in quel di Brindisi nel 38. Tanto più che Pompeo, a differenza di Ottaviano, poteva contare su una flotta potente e ben organizzata, con la quale riusciva a eludere le iniziative militari rivolte contro di lui e a bloccare per tutta risposta i rifornimenti del grano siciliano così fondamentali per Roma.
Fu allora che Ottaviano ricorse a una delle doti peculiari della sua intelligenza, vale a dire la capacità di saper affrontare le difficoltà individuando l’uomo giusto al momento giusto. Nella fattispecie fu l’amico di sempre, Marco Vipsanio Agrippa, che riconosciuto come grande stratega e soldato in virtù di quanto già fatto a Filippi, a Perugia e in Gallia – dove aveva debellato una rivolta degli aquitani –, fu inviato in Trinacria a risolvere una volta per tutte la questione pompeiana. Agrippa si comportò talmente bene da riportare nel settembre del 36 una schiacciante vittoria nelle acque di Nauloco, con la quale costringeva Pompeo a una precipitosa fuga in Oriente dove l’anno dopo avrebbe incontrato il suo destino sulla lama dei sicari per le vie di Mileto.
La vittoria di Agrippa segnò il declino definitivo del partito anticesariano e il prosieguo di una decennale cooperazione con cui il valentissimo generale finirà per rappresentare il braccio armato di tutte le imprese militari che da quel momento in poi Ottaviano intraprenderà. A partire da quella scatenata ai danni di Lepido, che scontò amaramente il tentativo di occupare la Sicilia, non si capisce bene su quali basi, subendo un rovescio che lo tolse definitivamente dai giochi: relegato letteralmente al Circeo, mantenendo oltre alla vita l’inutile quanto prestigiosa carica di pontifex maximus. A quel punto restava solo un ostacolo da debellare: Antonio. L'operazione era ancor più ineluttabile dopo l’infatuazione che da circa cinque anni avviluppava Antonio a una delle donne più fatali della storia del mondo antico, vale a dire Cleopatra. Su quel legame sono già stati scritti fiumi di inchiostro. Ai fini della narrazione basti sapere che una delle conseguenze più dirette fu la ritrattazione del contratto matrimoniale sancito con Ottavia, che fu rispedita a Roma creando un’onta che Ottaviano difficilmente era disposto a tollerare. Se a ciò si aggiunge che Antonio si atteggiava a una sorta di despota orientale ne deriva che Anzio era ineluttabile.
La battaglia di Azio fu letta sulla falsariga di uno scontro epocale attraverso il quale la tradizione romana, quella dei padri, combatteva la sua guerra di sopravvivenza contro il vizio importato dalla decadente moda greco-orientale, rinnovando dunque una disputa che agitava la Città Eterna sin dal tempo degli Scipioni. O almeno così si sforzò di presentarla la solerte propaganda instaurata da Ottaviano. Il casus belli fu fornito proprio dall’uccisione di Pompeo. Ammazzare un cittadino romano senza processo era considerato delitto gravissimo: che a compierlo fossero stati proprio i partigiani di Antonio non fu che l’ennesima scusa adottata da Ottaviano per convincere il Senato a muovere guerra contro il rivale; soprattutto dopo che, venuto in possesso del testamento da questi preventivamente redatto, Ottaviano leggeva inorridito al cospetto degli optimates la volontà espressa dall’ex cognato di lasciare l’Oriente alla conturbante Cleopatra e ai suoi figli, compreso Cesarione, avuto da una precedente relazione con il divino Giulio.
Ciò che successe nella acque prospicienti il promontorio greco di Azio, il 2 settembre del 31, è arcinoto. Antonio, l’anno successivo si suicidava mentre le armate di Ottaviano occupavano l’Egitto. Sorte non diversa patì Cleopatra, che dopo aver tentato inutilmente di blandire Ottaviano, così come aveva fatto con il padre, preferì lasciarsi morire ingerendo un cocktail letale di droga e veleni. Ciò che invece fu certo è che dopo la scomparsa dei due amanti, Ottaviano diventava l’unico e indiscusso signore di Roma. Ratificare quella situazione di fatto, o meglio, riuscire a far digerire al mondo e in special modo al Senato il compimento di ciò che a tutti gli effetti era un colpo di Stato simile a quello tentato da Cesare, fu il suo capolavoro politico.

Esattamente come Cesare, Ottaviano si trovò nell’imbarazzante condizione di dover giustificare la propria posizione di preminenza nello Stato. Ma a differenza del predecessore, egli poteva trarre il massimo insegnamento dalla “lezione” impartita al dittatore nelle fatidiche Idi di marzo, durante le quali, a colpi di pugnale, Cesare dovette comprendere quanto gli uomini restino abbarbicati alle forme anche quando la realtà che sta dietro queste sia profondamente mutata. Con tali avvertenze Ottaviano riuscì ad aggirare il problema trovando una soluzione tanto semplice quanto incisiva: rispettare del tutto le vecchie istituzioni, rinnovandole però nelle funzioni, facendo passare la trasformazione in senso monarchico come se si trattasse invece della restaurazione delle antiche libertà della repubblica, sconvolte e minacciate dai reiterati tentativi di Mario e Silla, Cesare e Pompeo, e infine da Marco Antonio.
Creò così le condizioni per quella coesistenza tra i poteri del capo unico che riuniva in sé le prerogative delle antiche magistrature repubblicane e i poteri del Senato e degli altri magistrati, che avrebbero fatto da cardini al nuovo regime del principato. Il dominio capitolino si era trasformato col tempo in un insieme di popoli e di tradizioni diverse, che trovavano in Roma e nell’Italia il proprio centro direttivo, e che comprendevano praticamente tutto il mondo civile conosciuto a eccezione dei territori partici. Fu appunto in questa mutata situazione che si radicarono le ragioni fondanti dell’agire di quest’uomo che, appena trentatreenne, fu in grado di traghettare la repubblica nell’impero, dando vita a un sistema modernamente avanzato nel quale, con abile maestria, riuscì a conciliare il vecchio con il nuovo, salvando i modelli consolidati e aprendo la strada a rinnovate e futuribili tendenze.
Come ci riuscì, è un argomento sul quale gli storici ancora si accapigliano. Non riconoscere che le sue innovazioni portarono alla nascita di un organismo capace di sopravvivere per i tre secoli successivi come uno degli imperi più organizzati e potenti dell’antichità sarebbe impossibile. E intrigante appare l’interpretazione tacitiana, capace proprio per la sua fascinazione di fare scuola, secondo cui la costituzione di quell’auctoritas passò attraverso modalità che oggi non sfigurerebbero tra le sequenze di un serial televisivo. Così, a una vita di sregolatezze tanto diffuse nelle classi abbienti, in cui un celibato godereccio era di lunga preferito alle preoccupazioni e alla responsabilità di una famiglia, Ottaviano seppe opporre l’antica severità degli avi, l’unica capace di preservare quella romanità minata dal contatto con il lusso e con i piaceri sfrenati caratteristici delle società orientali. Ovviamente lui, nel privato, aveva le sue belle gatte da pelare, o meglio la sua gatta. Giulia infatti operava scelte sempre più libertine e libertarie.

Ribellandosi alla morale ipocrita e di facciata voluta dal padre e dalla matrigna, la ragazza cominciò a vivere come le andava a genio, frequentando circoli letterari alla moda, vestendosi in modo eccentrico e audace, circondandosi di un codazzo di corteggiatori ai quali si concedeva in modo spregiudicato. Augusto corse ai ripari confinando la figlia appena diciottenne negli angusti legacci di un matrimonio contratto con il generalissimo Marco Vipsanio Agrippa: se il connubio serviva a gratificare il vincitore di Azio, molto più era utile a umiliare Giulia, costringendola a legarsi a un uomo più vecchio di lei di venticinque anni, per giunta privo di ascendenza aristocratica, cosa assolutamente indigesta per lo snobismo della ragazza. Nonostante ciò, la fanciulla onorò i dieci anni in cui il matrimonio si protrasse donando allo sposo ben cinque tra figli e figlie; a quanti insinuavano che a dispetto dei suoi comportamenti non proprio morigerati, la prole somigliasse tutta al padre, ella riusciva per giunta a rispondere con notevole umorismo che «lei si premurava di imbarcare passeggeri solo quando la nave era carica». Dopo la morte di Agrippa, Ottaviano, per imbrigliare la figlia, la obbligò a sposare il fratellastro Tiberio, provocando comportamenti da parte di Giulia sempre più scandalosi. Lo scandalo crescente suscitato dagli atti e dalle parole che Giulia ostinatamente proferiva sia in pubblico che in privato fu gettato in pasto all’opinione pubblica: Ottaviano scrisse dunque una lettera al Senato per denunciare le ripetute violazioni di Giulia alla lex de adulteriis; fornì relazioni dettagliate in cui la figlia era descritta come una prostituta e in cui i compagni di opposizione politica erano tutti trasformati in suoi amanti nei convegni notturni e nelle orge. In virtù dei suoi poteri Ottaviano, con una semplice lettera, la fece divorziare d’ufficio da Tiberio senza nemmeno preoccuparsi di avvertire quest’ultimo. È probabile che dietro tanta recrudescenza si nascondesse la minaccia di un vero e proprio complotto, che non poté essere reso pubblico per l’effetto dirompente che poteva avere a livello politico. Giulia venne così confinata a Ventotene con la sola compagnia della madre, mentre gli altri congiurati furono colpiti dalla condanna capitale. Ottaviano avrebbe sofferto per il resto della sua esistenza della condizione miserevole alla quale aveva condannato la sua unica figlia, tuttavia non sarebbe arretrato di un solo passo, dimostrando quanto la salvaguardia del potere che aveva così sapientemente costruito sopravanzasse di gran lunga l’amore provato per i suoi stessi congiunti.

 

Eugenio Caruso - 25 novembre 2017

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All’indomani di Azio, quando Ottaviano rientrò nell’Urbe con intelligenza, ripose nelle mani del Senato il mandato di imperator, conferitogli per fronteggiare l’emergenza antoniana che molto abilmente aveva provveduto ad alimentare. Il condottiero sapeva in effetti che per attuare la propria rivoluzione aveva bisogno di tempo, e soprattutto era conscio di non dover incorrere nell’errore in cui prima di lui erano incappati Silla e Cesare: accaparrarsi quella carica che attribuiva loro un potere pressoché assoluto, l’unica che nell’impianto repubblicano conservava caratteristiche vicine a quelle attribuite ai re, ovvero la dittatura. Lo strappo compiuto da Silla e molto più da Cesare, che pretese di farsi eleggere come dictator perpetuus,, era stato quello di estendere a tempo indeterminato una formula che invece era concepita per la sua eccezionalità, alla quale si ricorreva in situazioni di estrema emergenza.
E proprio questo era stato l'errore dell’azione dei due, e nel caso di Cesare aveva decretato la sua condanna a morte: assumere una dittatura negando ciò che ne era il suo unico limite, ossia il termine di tempo, significava lanciare un’aperta sfida al potere del Senato. Il Senato non avrebbe mai potuto sottomettersi a una così esplicita prevaricazione nei suoi confronti, non avrebbe mai potuto ammettere di doversi ridurre a organo di potere secondario.
Ottaviano capì che la strada da percorrere doveva essere un’altra, e che questa dovesse tener conto di alcuni principi imprescindibili: forte conservatorismo che garantisse, attraverso il diritto, l’ordine romano costituito; avversione e rifiuto della monarchia; manifesta impossibilità di creare una carica istituzionale che si mettesse esplicitamente al di sopra degli altri poteri. Ottaviano realizzò un progetto diverso da quelli di Silla e di Cesare: 13 gennaio del 27 a.C., nella seduta del Senato, depose tutti i suoi poteri e li “restituì” alla repubblica. Sino ad allora si era “accontentato” di figurare come princeps, ovvero come “primo tra individui di pari dignità”, sanzionando contemporaneamente la sua posizione di privilegio rispetto agli altri senatori, ma anche la sua condizione d’eguaglianza rispetto a essi dal punto di vista costituzionale. Cosa che gli permetteva di vantarsi di non aver rivestito mai alcuna magistratura contraria al costume degli avi. Nel frattempo però, per dirla con Svetonio, dava una buona “sfoltita al suo patrimonio”, elargendo quel fiume di denaro che gli permise di accattivarsi la simpatia dei senatori. Tre giorni dopo, costoro, a dimostrazione di gratitudine gli conferirono il titolo di Augustus. Storici moderni sostengono che la strategia di Ottaviano fu favorita dall'immensa ricchezza che egli possedeva, come mai nessun romano, ricchezza che gli permise di superare ogni ostacolo. Ottaviano accettò questo onore ostentando più la rassegnazione di chi, per eccessiva umiltà, non lo avrebbe voluto, che la sicurezza e l’orgoglio di un condottiero reduce da molte e importanti battaglie. In realtà, quello che stava avvenendo era un passaggio epocale, per capire la portata del quale, è bene soffermarsi sul significato celato dietro l’attributo per cui Ottaviano divenne celebre, ovvero Augustus. La parola possiede chiaramente la stessa radice di augur, ossia augure, il sacerdote che presiedeva all’interpretazione dei segni divini tramite l’osservazione del cielo. Ma anche quella di inauguratus, ossia colui che ha subito la cerimonia di inaugurazione, appannaggio del rex, che solo in virtù di essa era autorizzato a governare ottenendo l’auctoritas, altro termine con la stessa radice. Il significato di questa, aug-, è ben esplicata dal verbo a cui ha dato vita, ossia augere, che significa accrescere. La funzione di “accrescimento” è un concetto centrale fra quelli che hanno strutturato la religione romana. Eloquente è il fatto che il rito religioso romano per eccellenza, ossia il sacrificio, prevedesse una formula come macte esto, che, rivolta al dio a cui si sacrificava, assumeva proprio il significato di “sii accresciuto”. La funzione del sacrificio era, infatti, quella di “accrescere” il potere e l’essenza delle divinità, quasi come se gli alimenti a loro sacrificati, fossero del semplice latte o il sangue di un bue, fornissero nutrimento alla loro forza. Così come gli dèi “erano accresciuti” da questi riti, chi era particolarmente “toccato” dalla loro influenza ne “era accresciuto” nella propria sostanza di essere umano. Ciò non significava certo diventare degli esseri semi-divini, ma semplicemente ricevere un “accrescimento” rispetto alla normale condizione di uomo.
Fu sotto tale ottica che la parola Augustus assunse la pienezza del suo significato: Ottaviano diveniva “l’inaugurato senza inaugurazione”, ottenendo quella particolare superiorità senza la necessità di dover essere protagonista di una cerimonia a cui non aveva il diritto, la cui attuazione sarebbe stata vista come un atto di forza e che avrebbe fatto ritornare, soprattutto fra i senatori, per l’ennesima volta nel giro di pochi anni, lo spauracchio della monarchia. Sebbene ideologicamente fondamentale, l’assunzione di quel titolo fu solo una piccola porzione del capolavoro diplomatico compiuto da Ottaviano nel 27. Nella stessa circostanza infatti, colui che d’ora in avanti verrà additato come Augustus riuscì a farsi attribuire ben tre province, la scelta delle quali non fu fatta certo a caso.
Spagna, Gallia e Siria, infatti, erano i territori in cui era di stanza la maggioranza delle truppe, che in tal modo passavano sotto il controllo diretto di un solo uomo, prevenendo così l’insorgenza di future guerre civili. D’altro canto era esattamente ciò che gli chiedeva il popolo al quale, poco interessato alle sfumature antropologiche sottolineate prima, dopo vent’anni di sfracelli e di conflitti premeva solamente per la pace e la prosperità, per raggiungere le quali era più che disposto a correre il rischio di conferire poteri assoluti a uno solo. E infatti fu proprio agitando lo “spettro” della pace che Ottaviano ottenne quelle province che si sommarono all’Egitto, alla cui diretta podestà aveva già provveduto all’indomani della vittoria di Azio, preoccupandosi di togliere di mezzo Cesarione, lo sfortunato figlio dell’amore tra Cleopatra e Cesare che, in virtù del suo retaggio, avrebbe potuto accampare ingombranti diritti.
Un principio che Ottaviano aveva assimilato bene consisteva nel controllo pressoché totale dell’esercito. Non a caso, il termine con il quale a partire da Ottaviano in poi verranno designati coloro che siederanno sullo scranno più alto di Roma, sarà proprio imperator, a indicare appunto la persona che esercitava il potere illimitato sulle forze militari. Fu tale potere, l’imperium, che Ottaviano riuscirà a convogliare nelle sue mani senza turbare l’apparenza delle istituzioni repubblicane. Per far ciò si preoccupò di ottenere il riconoscimento di quelle province elencate prima: queste, gravitando tutte su confini non pacificati, manifestavano proprio a causa della loro turbolenza una condizione di eccezionalità che poteva garantire ad Augusto il mantenimento di una carica parimenti straordinaria. Ciò consentiva all’erede di Cesare di perpetuare una posizione di potere del tutto anomala, senza una giustificazione istituzionale nell’ordinamento che, formalmente, restava quello repubblicano. Insomma, senza darlo a vedere Augusto comandava nel senso più pieno del termine, appoggiandosi saldamente sull’essenza stessa della forza di Roma: l’esercito, che oltre a incarnare lo strumento per la conservazione del potere personale, garantiva la sicurezza interna di ogni regione, stabilendo una pace, a volte solo apparente, nei territori di confine. Ma era anche un formidabile elemento propulsivo per l’economia e per la società, proponendosi come fattore di mobilità sociale in cui le reclute potevano ambire a diventare ufficiali con tutti i vantaggi del caso.
Senza contare che solo grazie a esso era possibile lo sfruttamento dei popoli sottomessi, su cui si innestava la distribuzione di grano e anche di denaro, coi quali neutralizzare le rivendicazioni popolari. Per chiudere il cerchio, dunque, si può affermare che pace e stabilità dipendessero paradossalmente da quello strumento altrimenti adibito alla guerra. Da qui l’attenzione che Augusto pose alla sua lealtà e naturalmente alla sua efficienza.

La “spina dorsale” dell’esercito era costituita da tempo immemore dalle legioni, ognuna formata da 5000 uomini. Rigorosamente addestrate, queste rappresentarono la chiave di volta dei successi militari romani nella conquista del mondo antico, grazie alla loro organizzazione in unità tattiche fortemente articolate, che permetteva una facilità di movimento e di penetrazione nel territorio nemico senza pari. Appare evidente quanto, in ambito militare, esercizio e addestramento giochino un ruolo fondamentale. Attraverso di essi, il soldato romano acquisiva non solo quell’abilità e resistenza che gli permisero di contrastare il nemico, ma anche il senso tattico e la disciplina che gli consentirono di primeggiare soprattutto psicologicamente.
Assodato ciò, Augusto comprese che la sopravvivenza di un esercito efficiente era determinata dalle strutture economiche, sociali e politiche di uno Stato. Fu per questo che, all’indomani di Azio, ridusse considerevolmente il numero delle legioni di cui disponeva, per raggiungere un numero di truppe che oltre a svolgere sufficientemente il proprio compito fosse altresì possibile approvvigionare. Si giunse così al tradizionale numero di 28 legioni mantenute in ferma permanente, anche se Tacito informa che nel 23 a.C. esse erano state diminuite a 25 e che nel 9 d.C., tre erano andate perdute nella disfatta di Teutoburgo, senza mai più essere rimpiazzate.
A queste legioni, reclutate fra i circa quattro milioni di cittadini romani, in prevalenza italiani, si aggiungevano truppe ausiliarie (coorti di fanteria e altre di cavalleria raccolte tra i popoli soggetti all’impero e comandate da ufficiali romani). In più, sempre fedele all’idea che una manifestazione di forza avrebbe distolto eventuali oppositori, soprattutto in casa, Augusto si preoccupò di rafforzare la sua immagine con la creazione di una guardia pretoria permanente, una vera e propria guardia personale formata da nove coorti e rimpinguata dalla crème delle legioni, cui furono concessi paga e privilegi speciali.
Predisposto in tal modo il suo apparato, Augusto ebbe cura che questo gli rimanesse indissolubilmente fedele. Così, se da un lato si dimostrò spietato contro chiunque potesse destabilizzare l'equilibrio instaurato con le sue truppe, dall’altro si sincerò che l’esercito avvertisse i benefici del suo comando, in modo da non sfilacciare quel legame. Quanto fosse fragile, verrà rivelato dagli eventi futuri, nei quali più di un imperatore non ritenuto meritevole della lealtà del suo esercito, finirà nella polvere. Augusto non corse questo rischio e anzi, in virtù di ciò che era stato in grado di realizzare, divenne per molti un dio in terra, come ebbe a sottolineare lo storico inglese David Shotter nel suo Cesare Augusto, secondo cui «solamente un essere sovrumano avrebbe potuto trasformare il caos in serenità».

A completare l'opera di "divinazione" di Ottaviano ci pensò la propaganda che, sin dalle prime mosse, costituì la solida colonna su cui far poggiare l’intero impianto della politica. Tutto grazie all’“inquadramento” dei principali intellettuali del tempo, ottenuto per mezzo dell’abilità di Mecenate, che promettendo sostentamento e protezione a tutti quelli che vi avrebbero aderito, fondò un circolo culturale difficilmente eguagliabile. Così, uomini del calibro di Virgilio, Livio, Properzio e Orazio si consumarono in un’inesausta opera in cui Augusto era presentato come il nuovo Romolo, il novello fondatore di Roma, da sempre atteso per porre fine alla tragedia delle guerre civili e instradare l’Urbe su uno sfavillante cammino che l’avrebbe condotta a una nuova età dell’oro.
Quando, oltre all'esaltazione dei poeti, si manifestarono anche edifici, templi e un gran numero di statue di eccezionale fattura a esaltare magnificamente questo Stato quasi paradisiaco, i romani finirono quasi per crederci. Ciò permise ad Augusto di compiere l’ulteriore svolta del 23 a.C., quando giudicò che la sua posizione già particolare assunta all’interno della politica romana andasse definita ancora meglio. Rinunciò alla carica di console che aveva continuato a mantenere, consentendo così il ritorno a un normale e “repubblicanissimo” ricambio annuale di entrambi i massimi magistrati. Ovviamente, in cambio di quella concessione, il Senato era prontissimo a elargire nuove e importanti qualifiche. L’imperium proconsolare già posseduto fu ridefinito e potenziato con l’autorizzazione a comprendere anche all’interno del pomerium di Roma, come in generale accadeva e continuerà ad accadere per i proconsoli “normali”. Ma oltre a ciò Augusto ricevette un altro attributo, talmente caratterizzante che egli stesso comincerà a contare gli anni di “regno” proprio da quel momento: da quando, cioè, assunse la tribunicia potestas. Attraverso questa, egli si attribuì le prerogative dei tribuni della plebe, che oltre al diritto di veto e a quello di presentare proposte di legge, vantavano la precedenza assoluta in merito alle convocazioni del Senato.
In tal modo Augusto acquistava l’autorità per poter sopravanzare chiunque, incarnando una figura del tutto nuova, per non dire unica, nell’ambito delle cariche istituzionali romane. Sebbene il Senato continuasse a funzionare come sempre aveva fatto, con la regolare elezione dei consoli e degli altri magistrati anno per anno, l’imperator ormai si stagliava al di sopra di questo meccanismo: apparentemente senza invaderne la normalità ma, in effetti, mantenendone uno stretto controllo grazie all’autorità conferitagli dall’acquisizione dei nuovi titoli. Se a ciò si aggiunge che Augusto otteneva di poter trasmettere a un successore tali prerogative, appare chiaro come da quel momento in poi si possa dire completato il processo di rivoluzione mascherato da restaurazione, messo in piedi almeno sette anni prima e mantenuto con l’illusione della resurrezione del mito senatus populusque e del riscatto della dignità del corpo civile romano. In sostanza, senza modificare la lex romana aveva trasformato la posizione di imperator, da quella di comandante dell'esercito per situazioni eccezionali in quella di capo di un impero.
Definita la forma e soprattutto la sostanza del suo potere, Augusto poteva perseguire liberamente nella realizzazione del suo progetto, che a conti fatti non si distingueva troppo da quello di Cesare: prosecuzione del riassetto istituzionale volto al consolidamento della posizione raggiunta e rafforzamento dell’impero sia rispetto ai suoi nemici interni sia rispetto a quelli esterni.

L’infaticabile azione militare che lo stesso Augusto vantò nelle Res Gestae parlando con orgoglio delle sue vittorie personali e degli onori militari che gli furono accreditati, rispondeva all’istanza che abilmente si era cucito addosso di una vera e propria missione, dal carattere fondamentalmente civilizzatore, attraverso il quale si era posto l'obbligo di “romanizzare” i popoli finora sottomessi e quelli di là da sottomettere. È chiaro come tanto fervore fosse determinato da contingenze strategiche oltre che politiche ed economiche, eppure Augusto riuscì a mascherare gli intenti di un’aggressività imperialista con il mito delle aspirazioni universalistiche di Alessandro Magno. Così, il suo progetto di espansione territoriale trovò notevoli consensi nell’opinione pubblica, che da secoli considerava quasi come un obbligo l’espansione di Roma ai danni di altri popoli: l’imperium sine fine, preconizzato da Virgilio, secondo cui gli dèi avevano concesso a Roma un dominio senza limiti, era un intimo convincimento non solo del poeta, ma di tutto il ceto dirigente di Roma.
Fu così che nei suoi quarant’anni di principato, Augusto conquistò una somma di territori che portarono l’impero romano a un robusto incremento della sua estensione. Autentico successore dei grandi generali dell’età repubblicana, egli conquistò il Nord della Spagna, l’arco alpino con la Resia e il Norico, l’Illirico e la Pannonia e anche l’intera regione a nord dell’Acaia e della Macedonia, fino al Danubio; in Asia Minore vennero acquisite una parte del Ponto, la Paflagonia, la Galazia, la Cilicia e la Giudea.
L’imperatore si preoccuperà di rinsaldare la sicurezza dei territori imperiali con campagne nelle aree di confine, come quella condotta da Druso e Tiberio nella zona alpina, che nel 15 a.C. frutterà anche l’annessione di Rezia e Norico; o l’altra incentrata nell’area strategica compresa fra il Reno, l’Elba e il Danubio, dove attraverso la conquista della Pannonia Augusto potrà avanzare le frontiere fino al raggiungimento di tale limite, considerato il confine naturale contro i barbari del settentrione e dell’Europa orientale. Oltre a queste, però, Augusto si lanciò in avventure dal sapore più propagandistico, come le guerre contro i parti o contro le tribù germaniche. La lotta contro i primi era quasi fisiologica, considerato che l’impero dei parti era la sola realtà antagonistica che Roma conoscesse. Fino ad allora, il maggiore successo raggiunto era stato segnato da Marco Antonio, che nelle sue campagne era arrivato a formare uno stato cuscinetto, l’Armenia, ma non ad attaccare direttamente la potenza nemica.
La conquista della Germania era un vecchio pallino di Giulio Cesare, che già nei suoi Commentarii aveva rivelato il suo interesse verso il mondo al di là del Reno. Per la verità, Augusto si sarebbe accontentato di mantenere il confine sul fiume, ma nel 12 a.C. ordinò al figliastro Nerone Druso di avanzare verso oriente in direzione dell’Elba, volendo rafforzare l’instabile regione posta in prossimità del corso superiore dei fiumi Reno e Danubio, probabilmente spinto dalla volontà di assumere su di sé l’eredità cesariana, compiendo l’impresa che il predecessore aveva solo ipotizzato.
Nonostante gli intenti, amplificati dalla propaganda che si sforzò di far apparire le campagne germaniche come un atto di conquista, essa si limitò a una guerra di contenimento, naufragata nel 9 d.C. nel disastro di Teutoburgo. Là, le truppe confederate germaniche riunite sotto il volitivo capo dei cherusci Arminio (uno che si era fatto le ossa combattendo proprio sotto i romani) annientarono letteralmente tre legioni affidate al proconsole Publio Quintilio Varo. Lo shock per la disfatta fu tale che il povero Varo si diede la morte per la vergogna, mentre Augusto, secondo quanto raccontato da Svetonio, per molti mesi successivi fu vittima di eccessi di collera durante i quali gridava: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni!».
Tanto più che una questione ormai improcrastinabile richiedeva tutta la sua attenzione, assorbendone le energie in cerca di una soluzione: come trasmettere un potere costituito da tante sfaccettature? Come garantirne la continuità in un ambiente in cui le cariche erano rigorosamente elettive e chi ne veniva investito cambiava di anno in anno?

Non era un problema da poco, considerato che la dignità imperiale era e rimarrà per sempre “qualcosa” di estraneo rispetto alla sfera del diritto romano, alimentando il paradosso secondo cui la principale istituzione di Roma era formalmente illegale. Come se non bastasse, a partire dal 13 a.C., Augusto aveva assunto anche la carica di pontifex maximus lasciata vacante dall’imbelle Lepido, e incamerata con l’obiettivo di rilanciare il patrimonio religioso romano ridotto al lumicino. Augusto finiva così per acquisire inevitabilmente quell’aura di religiosità che, sulla scorta della moda orientale, contribuì ad alimentare il culto della personalità dell’imperator.
Ora, istituzionalizzare la figura imperiale significava stravolgere l’ordinamento repubblicano, con conseguente perdita della sovranità del Senato e del corpo civico romano e rottura degli equilibri stabiliti dalla lex. L’impero era la negazione del senatus populusque, l’annullamento di quella che veniva percepita come la più grande conquista dei romani, ossia la loro organizzazione in una repubblica. Proprio basandosi su ciò, il genio di Augusto poté fingere di inserire la forma assunta dal suo potere all’interno del solco stabilito dal diritto.
La nascita della sua “anomalia” era stata determinata proprio dalla necessità di scongiurare il ritorno della monarchia e impedire così che la natura intima di Roma, definita dal diritto nato appunto per salvaguardarla, fosse stravolta. È chiaro che una soluzione del genere era, nella migliore delle interpretazioni, un serpente che si mordeva la coda: per salvare l’istituzione repubblicana si accettava un potere che di fatto l’annullava. Eppure, la capacità “persuasiva” di Ottaviano, espressa secondo modalità che al giorno d’oggi non esiteremmo a definire “mafiose”, permise che quel pasticcio fosse universalmente accettato, dando il via a ciò che molto probabilmente fu l’aspetto più vulnerabile dell’istituzione imperiale: la sua sostanziale incapacità di essere definita da regole, contorni e specificità. Il che si tradusse in un’evidente banalità: imperatori “forti” manterranno il potere; gli altri lo perderanno, scatenando quelle crisi che saranno il costante contrappunto della storia centenaria dell’impero.
Augusto appartenne certamente ai primi e poté con disinvoltura trasmettere il potere, o meglio la forma istituzionalizzata di quello che si concretizzava nell’imperium proconsolare e, soprattutto, nella tribunicia potestas, a chiunque avesse scelto. Peccato che, se l’inganno abbindolò gli uomini, molto meno persuase gli dèi che, di fatto, ebbero premura di togliere di mezzo tutti i successori che di volta in volta Ottaviano designava: prima Marcello, il figlio della sorella Ottavia, poi i suoi due nipoti Gaio Cesare e Lucio Cesare, figli della ribelle Giulia. Allora la scelta ricadde ineluttabilmente su Tiberio, l’unico al quale Ottaviano non aveva mai pensato e che, invece, fu proprio colui che la spuntò, lasciando adito al lecito sospetto già anticipato che forse, a compiere la strage che eliminò i rivali non fossero gli dèi ma le “premure” della madre Livia.
Comunque sia andata, Augusto compì il grande passo e, come aveva fatto Cesare con lui, adottò Tiberio, superando così l’empasse della non consanguineità con il successore. Mantenere la carica imperiale all’interno della ristretta cerchia familiare dell’imperatore fu infatti la più immediata modalità di successione, instaurando un principio che risulterà essere quello maggiormente seguito sia attraverso la pratica dell’adozione, sia attraverso la trasmissione per consanguineità, che si concretizzerà con il succedersi di varie dinastie.
Nonostante ciò, la scelta operata da Augusto non creò una prassi che fosse chiara e stabile. Già il fatto stesso che siano esistite più dinastie indica che presto o tardi l’una dovesse cedere il passo a un’altra: fu esattamente ciò che accadde a quella cui Ottaviano apparteneva, la giulio-claudia, che nel 68 d.C. segnò tragicamente il passo con il suicidio obbligato di Nerone, portando alla confusione successiva che si risolse solo con l’avvento di Vespasiano, capace di inaugurare il potere dei Flavi. La giulio-claudia vide: TIBERIO, CALIGOLA, CLAUDIO, e NERONE; la flavia vide VESPASIANO, TITO, DOMIZIANO, NERVA, TRAIANO, ADRIANO, ANTONINO PIO, MARCO AURELIO e COMMODO.
Fu dunque chiaro che la conclamata impossibilità di “regolarizzare” la figura imperiale, piuttosto che lasciare larghissimo spazio di manovra al capo dello Stato romano, come si potrebbe pensare, costringeva il regnante di turno a doversi appoggiare sulla forza bruta e sulla repressione e a essere continuamente preoccupato per la stabilità della propria supremazia, non protetta né regolata da alcuna legge: elemento che spiega i veri e propri stati paranoici in cui caddero alcuni imperatori, fra cui già il primo successore di Augusto. Senza contare che la colpa dell’illegalità finirà per costituire uno degli aspetti più negativi se non aberranti dell’istituzione imperiale: esso consentirà l’avvento di personalità incapaci di reggere il fardello del governo di Roma e dei suoi territori.

Nell’agosto del 14, dopo aver disposto che il suo successore Tiberio partisse per l’Illiricum a risistemare l’amministrazione della provincia, Augusto decise di accompagnarlo fino a Benevento; salvo essere colto da un improvviso malore all’addome che lo costrinse a riparare nella sua villa di Capri, dove riposò per quattro giorni. Quindi partì alla volta di Napoli, dove seppur tormentato dai dolori intestinali assistette ai ludi istituiti in suo onore, al termine dei quali riuscì a spingersi sino al luogo convenuto per l’imbarco del figlio adottivo, che vide partire per la missione affidatagli.
Durante il viaggio di ritorno si aggravò, tanto da essere costretto a fermarsi a Nola. Fu lì che il 19 agosto lo colse la morte. In quel fatale giorno, poco prima che la fine giungesse, chiese uno specchio, si fece sistemare i capelli e, chiamati familiari e amici, si accommiatò da loro con le seguenti parole: «La commedia è finita, applaudite».

 

Eugenio Caruso - 25 novembre 2017

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Le Res gestae divi Augusti, cioè "Le imprese del divino Augusto", o Index rerum gestarum, sono un resoconto redatto dallo stesso Augusto prima della morte e riguardante le opere che compì durante la sua vita. Il testo ci è giunto inciso in latino e in traduzione greca sulle pareti del tempio di Augusto e della dea Roma (Monumentum Ancyranum) ad Ancìra, l'odierna Ankara in Turchia.
Secondo le volontà dello stesso Augusto, espresse nel rotolo contenente le sue imprese e da lui affidato alle Vestali assieme al testamento, alle disposizioni per il suo funerale e a un bilancio dello stato redatto un anno prima di morire, il testo delle Res Gestae doveva essere inciso su tavole di bronzo da porre davanti alla sua tomba, il Mausoleo. Il luogo scelto da Augusto aveva una valenza fortemente ideologica. Al di là della struttura di ascendenza ellenistica del Mausoleo, campeggiante la statua di Augusto e prossima all'Ara pacis, va ricordato che prima del principe erano stati sepolti tutti coloro che in qualche modo erano connessi alla nuova dinastia, Marco Claudio Marcello, Agrippa, Druso maggiore, la sorella Ottavia, Lucio e Gaio Giulio Cesare, i nipoti designati alla successione. Il luogo ideale nel quale esporre le Res Gestae, grazie al quale il lettore sarebbe stato indotto, non solo dalle parole, ma anche dal contesto architettonico, a non distinguere la storia dalle imprese private e la memoria pubblica da quella privata.
Oltre al testo di Ankara, si conoscono copie epigrafiche frammentarie provenienti dalla medesima provincia di Galazia (l'unica annessione orientale di Augusto), da Antiochia (testo latino) a poca distanza da Yalvaç, da Apollonia (greca), identificata nel sito dell'attuale villaggio di Uluborlu, località entrambe a non molta distanza da Ankara. Aree lontane dalla costa dell'Asia minore e non molto ellenizzate, mentre nessuna copia da Efeso o Pergamo. Ciò può essere spiegato col fatto che Augusto volesse dare alla regione asiatica interna (così frammentata in realtà culturali, sociali e religiosi diverse) un assetto politico stabile, basato sul riconoscimento del potere di Roma e di Augusto, il suo tramite. Non stupisce perciò che le Res Gestae fossero incise sul tempio dedicato al culto imperiale: piccole città, come Apollonia, Ancira, Antiochia erano pertanto unite dal filo conduttore del culto di Augusto.
Quanto al testo più completo, quello di Ancira, esso fu riconosciuto per la prima volta nel 1555 da A. Ghiselin de Busbecq, ambasciatore di Ferdinando I d'Asburgo presso il Solimano. Già lo scopritore lamentava dello scadente stato di conservazione del testo, che credeva inciso sui muri della residenza del governatore. L'indagine archeologica moderna ha invece dimostrato con certezza che l'edificio era un tempio dedicato a Roma e Augusto, che un tempo, secondo le opinioni più recenti, sarebbe stato edificato in origine in onore della Grande Madre dell'Anatolia. La scelta di non edificare un nuovo tempio serviva proprio per collegare strettamente il culto di Roma con quello verso la divinità più antica della regione.
Dell'originario tempio dedicato ad Augusto e Roma, si conservano ora solo il pronao e le due pareti laterali, una delle quali presenta uno squarcio di notevoli dimensioni. All'interno del pronao, a sinistra e a destra, è inciso il testo latino dell'iscrizione disposto simmetricamente in sei colonne di scrittura, per un'altezza di 2,70 m e larghezza di 4 m. La traduzione greca si sviluppa all'esterno, lungo la parete laterale intatta della cella, ordinata su 19 colonne, alte circa 1,25 m. I ruderi del tempio misurano ancora 12 m di altezza e 32, 50 m di lunghezza. Nel 1997 è stato lanciato un grido d'allarme per lo stato di conservazione del testo, ormai ampiamente illeggibile, affinché non vada perduta la memoria di Augusto: l'allarme è stato accolto dall'Università degli Studi di Trieste che ha attivato il Progetto Ancyra, finalizzato alla messa in sicurezza del tempio e alla conservazione dell'iscrizione.
Funzione e testo delle Res Gestae
Non è facile capire a quale genere letterario appartengano le Res Gestae: testamento, politico, resoconto, memoria, autobiografia, iscrizione sepolcrale, memoriae vitae. In uno stile volutamente stringato e senza concessioni all'abbellimento letterario, Augusto riporta gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano e per quali servizi da lui resi, le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo stato, ai veterani e alla plebe, e i giochi e rappresentazioni dati a sue spese (dalle informazioni che Augusto fornisce si può capire quanto grande fosse la potenza economica dell'imperatore)e infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Lo scrupolo con cui elenca le cariche religiose è indice di un nascente processo di sacralizzazione del potere, che trova espressione anche nel titolo di augustus, ottenuto dal Senato.
Augusto parla di sé in prima persona. Si serve di periodi brevi; il lessico è concreto e lascia al lettore la possibilità di cogliere immediatamente il testo. La data di composizione è indicata dallo stesso Augusto, quando afferma di essere nel settantaseiesimo anno, cioè nel 14 d.C., essendo nato nel 63 a.C. Dato che nel cap. 4 cioè il riferimento alla trentasettesima tribunicia potestas conferita il giugno del 14 d.C. e visto che egli morì nell'agosto del medesimo anno, è lecito ritenere che Augusto abbia completato la redazione delle Res Gestae nelle ultime settimane di vita. Il documento non menziona il nome dei nemici e neppure di nessun membro della sua famiglia, a eccezione dei successori designati, Agrippa, Gaio e Lucio Cesari e Tiberio.
I modelli a cui Augusto si rifece sono a Roma la colonna di Caio Duilio, vincitore dei cartaginesi nel 260 a.C. a Milazzo, esposta nel Foro di Augusto; la tavola, scritta in prima persona, le strade fatte costruire da Publio Popilio Lenate, console del 132 a.C.; nonché l'iscrizione fatta porre da Annibale nel tempio di Giunone Licinia a Capo Colonna. L'aspetto ellenizzante tuttavia pare evidente nell'esaltazione di un capo di Stato, che però trova un sincretismo con concetti romani, tanto da produrre comunque l'impressione di essere di fronte a un uomo d'eccezione, che compie cose non accessibili agli esseri comuni. Nelle province, soprattutto orientali, veniva perseguita una continuità con sovrani cosmocratici, come Alessandro Magno o Dario I; a Roma, al contrario, Augusto si ricollegava agli Scipioni, a Pompeo, a Cesare pur, in qualche modo, superandoli. Con le Res Gestae, quindi sia un uomo colto della nobilitas, un orientale, o un semplice membro della plebe urbana trovava modo di comprendere il messaggio che il primo imperatore divinizzato, non a caso figlio del Divo Giulio, lasciava ad intendere.
Augusto racconta che all'età di 19 anni costituì un esercito a sue spese e con la benedizione del Senato. Nello stesso anno fu eletto console. Con questi mezzi riuscì ad esiliare e punire gli assassini di Giulio Cesare, suo padre adottivo (1-3). Questi passi delle Res Gestae mostrano i cardini dell'ideologia augustea. Ottaviano, uscito vincitore dalle guerre civili, impone la propria lettura storica: il suo intervento nelle guerre civili non è di parte, ma in difesa e per conto del Senato e dello stato romano.
Tuttavia Augusto omette alcuni avvenimenti: cita la sua elezione a console, poiché erano morti entrambi i consoli. Ma non specifica che i consoli erano morti in guerra con lui e aveva vinto la guerra e imposto al Senato la sua elezione marciando su Roma armato. Tralascia inoltre di citare contro chi aveva combattuto, cioè Marco Antonio, per nascondere le sue posizioni ambigue verso costui: infatti in un primo momento lo combatté, poi lo nominò triumviro insieme a lui e infine lo sconfisse ad Azio.

« Narrazione delle imprese del divino Augusto attraverso le quali sottomise tutto il mondo al potere del popolo romano, e del denaro che spese per la Repubblica e per il popolo romano, come sta scritto in due stele di bronzo a Roma.»

Pars prima.Capitoli 1-14
« 1. A 19 anni[7], di mia iniziativa e con spesa privata, misi insieme un esercito, con il quale vendicai la Repubblica oppressa nella libertà dalla dominazione di una fazione. In quel nome, essendo consoli Gaio Vibio Pansa e Aulo Irzio (43 a.C.), il Senato mi incluse nel suo ordine per decreto onorifico, dandomi assieme il rango consolare e l'imperium militare. La Repubblica mi ordinò di provvedere, essendo io propretore, insieme ai consoli che nessuno potesse portare danno. Nello stesso anno il Popolo romano mi elesse console[8] e triumviro per riordinare la Repubblica, poiché entrambi i consoli erano stati uccisi in guerra. »
«2. Mandai in esilio quelli che trucidarono mio padre punendo il loro delitto con procedimenti legali[9]; e muovendo poi essi guerra alla repubblica li vinsi due volte in battaglia.[10] »
«3. Combattei spesso guerre civili ed esterne in tutto il mondo per terra e per mare; e da vincitore lasciai in vita tutti quei cittadini che implorarono grazia. Preferii conservare i popoli esterni, ai quali si poté perdonare senza pericolo, piuttosto che sterminarli. Quasi cinquecentomila cittadini romani in armi sotto le mie insegne; dei quali inviai più di trecentomila in colonie o rimandai nei loro municipi, compiuto il servizio militare; e a essi assegnai terre o donai denaro in premio del servizio. Catturai 600 navi oltre a quelle minori per capacità alle triremi.»
« 4. Due volte ebbi un'ovazione trionfale e tre volte celebrai trionfi curuli e fui acclamato ventun volte imperator, sebbene il senato deliberasse un maggior numero di trionfi, che declinai. Deposi l'alloro dai fasci in Campidoglio, sciogliendo così i voti solenni che avevo pronunciato per ciascuna guerra. Per le imprese per terra e per mare compiute da me o dai miei legati, sotto i miei auspici, cinquantacinque volte il senato decretò solenni ringraziamenti agli dèi immortali. I giorni poi durante i quali per decreto del senato furono innalzate pubbliche preghiere furono ottocentonovanta. Nei miei trionfi furono condotti davanti al mio carro nove re o figli di re. Ero stato console tredici volte quando scrivevo queste memorie ed ero per la trentasettesima volta rivestito della podestà tribunizia. »
« 5. Non accettai la dittatura che sotto il consolato di Marco Lello e Lucio Arrunzio mi era stata offerta, sia mentre ero assente sia mentre ero presente nell'Urbe, e dal popolo e dal senato. Non mi sottrassi invece, in una estrema carestia ad accettare la sovrintendenza dell'annona, che ressi in modo tale da liberare in pochi giorni dal timore e dal pericolo l'intera Urbe, a mie spese e con la mia solerzia. Anche il consolato, offertomi allora annuo e a vita, non accettai. »
« 6. Sotto il consolato di Vinicio e Lucrezio e poi di Publio Lentulo e Gneo Lentulo e ancora di Fabio Massimo e Tuberone nonostante l'unanime consenso del senato e del popolo romano affinché io fossi designato unico sovrintendente delle leggi e dei costumi con sommi poteri, non accettai alcuna magistratura conferitami contro il costume degli antenati. E allora ciò che il senato volle che fosse da me gestito, lo portai a compimento tramite il potere tribunizio, di cui chiesi ed ottenni dal senato per più di cinque volte consecutive un collega. »
« 7. Fui triumviro per riordinare la Repubblica per dieci anni consecutivi. Fui Princeps senatus fino al giorno in cui scrissi queste memorie per 40 anni. E fui pontefice massimo, augure, quindecemviro alle sacre cerimonie, settemviro degli epuloni, fratello arvale, sodale Tizio, feziale. »
« 8. Durante il mio quinto consolato accrebbi il numero dei patrizi per ordine del popolo e del senato. Tre volte procedetti a un'epurazione del senato. E durante il sesto consolato feci il censimento della popolazione,[11] avendo come collega Marco Agrippa. Celebrai la cerimonia lustrale dopo quarantadue anni. In questo censimento furono registrati quattromilionisessantatremila cittadini romani. Poi feci un secondo censimento[12] con potere consolare, senza collega, sotto il consolato di Gaio Censorio e Gaio Asinio, e in questo censimento furono registrati quattromilioni e duecentotrentamila cittadini romani. E feci un terzo censimento[13] con potere consolare, avendo come collega mio figlio Tiberio Cesare, sotto il consolato di Sesto Pompeio e Sesto Apuleio; in questo censimento furono registrati quattromilioni e novecentotrentasettemila cittadini romani. Con nuove leggi, proposte su mia iniziativa, rimisi in vigore molti modelli di comportamento degli avi, che ormai nel nostro tempo erano caduti in disuso, e io stesso consegnai ai posteri esempi di molti costumi da imitare. »
« 9. Il senato decretò che venissero fatti voti per la mia salute dai consoli e dai sacerdoti ogni quattro anni. Il seguito a questi voti spesso, durante la mia vita, talvolta i quattro più importanti colleghi sacerdotali, talvolta i consoli allestirono giochi. Anche i cittadini, tutti quanti, sia a titolo personale, sia municipio per municipio, unanimemente, senza interruzione, innalzarono pubbliche preghiere per la mia salute in tutti i templi. »
« 10. Il mio nome per senatoconsulto fu inserito nel carme Saliare e fu sancito per legge che fossi inviolabile per sempre e che avessi la potestà tribunizia a vita. Rifiutai di diventare pontefice massimo al posto di un mio collega ancora in vita, benché fosse il popolo a offrirmi questo sacerdozio, che mio padre aveva rivestito. E questo sacerdozio accettai, qualche anno dopo, sotto il consolato di Publio Sulpicio e Gaio Valgio, morto colui che ne aveva preso possesso approfittando del disordine politico interno, e confluendo ai miei comizi da tutta l'Italia una moltitudine tanto grande quanta mai a Roma si dice vi fosse stata fino a quel momento. »
« 11. Il senato deliberò al mio ritorno la costruzione dell'altare della Fortuna Reduce, davanti ai templi dell'Onore e della Virtù, presso la porta Capena, e ordinò che su di esso i pontefici e le vergini Vestali celebrassero un sacrificio ogni anno nel giorno in cui, sotto il consolato di Quinto Lucrezio e Marco Vinicio, ero tornato a Roma dalla Siria, e designò quel giorno Augustalia, dal mio soprannome. »
« 12. Per decisione del senato una parte dei pretori e dei tribuni della plebe con il console Quinto Irzio Lucrezio e con i cittadini più influenti mi fu mandata incontro in Campania, e questo onore non è stato decretato a nessuno tranne che a me[14]. Quando, sotto consolato di Tiberio Nerone e Publio Quintilio, tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia, dopo aver portato a termine con successo i programmi prestabiliti[15], il senato decretò che per il mio ritorno dovesse essere consacrato l'altare della Pace Augusta vicino al Campo Marzio, e ordinò che su di esso i magistrati, i sacerdoti e le vergini Vestali facessero ogni anno un sacrificio. »
« 13. Il tempio di Iano Quirino Giano), che i nostri antenati vollero che venisse chiuso quando fosse stata partorita la pace con la vittoria per tutto l'impero Romano per terra e per il mare, prima che io nascessi, dalla fondazione della città fu chiuso in tutto due volte, sotto il mio principato per tre volte il senato decretò che dovesse essere chiuso.[16] »
« 14. I miei figli, che la sorte mi strappò in giovane età, Gaio e Lucio Cesari, in mio onore il senato e il popolo romano designarono consoli all'età di quattordici anni, perché rivestissero tale magistratura dopo cinque anni. E il senato decretò che partecipassero ai dibattiti di interesse pubblico dal giorno in cui furono accompagnati nel Foro. Inoltre i cavalieri romani, tutti quanti, vollero che entrambi avessero il titolo di principi della gioventù e che venissero loro donati scudi e aste d'argento[17].»

Pars altera. Capitoli 15-24
« 15. Alla plebe di Roma[18] pagai in contanti a testa trecento sesterzi (1.800 euro [0]) in conformità alle disposizioni testamentarie di mio padre[19], e a mio nome diedi quattrocento sesterzi a ciascun provenienti dalla vendita del bottino delle guerre, quando ero console per la quinta volta[20]; nuovamente poi, durante il mio decimo consolato[21], con i miei beni pagai quattrocento sesterzi di congiario a testa, e console per l'undicesima volta[22] calcolai e assegnai dodici distribuzioni di grano, avendo acquistato a mie spese il grano in grande quantità e, quando rivestivo la potestà tribunizia per la dodicesima volta[23], diedi per la terza volta quattrocento nummi a testa. Questi miei congiari non pervennero mai a meno di duecentocinquantamila uomini. Quando rivestivo la potestà tribunizia per la diciottesima volta ed ero console per la dodicesima volta[24] diedi sessanta denari a testa a trecentoventimila appartenenti alla plebe urbana. E ai coloni che erano stati miei soldati, quando ero console per la quinta volta, distribuii a testa mille nummi dalla vendita del bottino di guerra; nelle colonie ricevettero questo congiario del trionfo circa centoventimila uomini. Console per la tredicesima volta diedi sessanta denari alla plebe che allora riceveva frumento pubblico; furono poco più di duecentomila uomini[25].»
« 16. Pagai ai municipi il risarcimento dei terreni che durante il mio quarto consolato[26] e poi sotto il consolato di Marco Crasso e Gneo Lentulo Augure[27] assegnai ai soldati. E la somma, che pagai in contanti, per le proprietà italiche ammontò a circa seicento milioni di sesterzi (circa 3 miliardi e seicento milioni di euro) e fu di circa duecentosessanta milioni ciò che pagai per i terreni provinciali. E a memoria del mio tempo compii quest'atto per primo e solo fra tutti coloro che fondarono colonie di soldati in Italia o nelle province. E poi sotto il consolato di Tiberio Nerone e Gneo Pisone e nuovamente sotto il consolato di Gaio Antistio e Decimo Lelio e Gneo Calvisio e Lucio Pasieno e di Lucio Lentulo e Marco Messalla e Lucio Caninio e Quinto Fabrizio[28] ai soldati che, terminato il servizio militare, feci ritornare nei loro municipi, pagai premi in denaro contante, e per questa operazione spesi circa quattrocento milioni di sesterzi.»
« 17. Quattro volte aiutai l'erario con denaro mio, sicché consegnai centocinquanta milioni di stesterzi a coloro che sovrintendevano l'erario. E sotto il consolato di Marco Lepido e Lucio Arrunzio trasferii l'erario militare[29], che fu costituito su mia proposta perché da esso si prelevassero i premi da dare ai soldati che avessero compiuto venti o più anni di servizio[30], centosettanta milioni di sesterzi prendendoli dal mio patrimonio.»
« 18. Dall'anno in cui furono consoli Gneo e Publio Lentulo[31], scarseggiando le risorse dello Stato, feci donazioni in frumento e in denaro ora a centomila persone ora a molte più, attingendo dal mio granaio e dal mio patrimonio. »
« 19. Ho eretto la Curia[32] e il portico contiguo e il Tempio di Apollo[33] sul Palatino con i portici, il tempio del divino Giulio, il Lupercale, il portico nei pressi del circo Flaminio - tollerai che fosse chiamato Ottavio, dal nome di chi aveva eretto la struttura precedente, in quello stesso luogo -, il Pulvinar al Circo Massimo, i templi sul Campidoglio di Giove Feretro e Giove Tonante, il tempio di Quirino, i templi di Minerva e di Giunone Regina e di Giove Liberatore sull'Aventino, il tempio dei Lari in cima alla Via Sacra, il tempio dei Penati sulla Velia, il tempio di Iuventas e il tempio della Grande Madre sul Palatino. »
« 20. Restaurai il Campidoglio e il Teatro di Pompeo, l'una e l'altra opera con grande spesa, senza apporvi alcuna iscrizione del mio nome. Restaurai gli acquedotti cadenti per vetustità in parecchi punti, e raddoppiai il volume dell'acqua detta Marcia con l'immissione nel suo condotto di una nuova sorgente. Terminai il Foro Giulio e la basilica fra il Tempio di Castore e il Tempio di Saturno, opere iniziate e quasi ultimate da mio padre, e dopo averne ampliato il suolo, iniziai a ricostruire la medesima basilica, che era stata divorata da un incendio intitolandola al nome dei miei figli, e stabilii che, se non l'avessi terminata io da vivo, fosse terminata dai miei eredi. Console per la sesta volta[11], restaurai nell'Urbe, per volontà del senato, ottantadue templi degli dèi, e non ne tralasciai nessuno che in quel tempo dovesse essere restaurato. Console per la settima volta[34], rifeci la Via Flaminia dall'Urbe a Rimini e tutti i ponti, tranne il Milvio e il Minucio[35].»
« 21. Su suolo privato costruii il Tempio di Marte Ultore e il Foro di Augusto col bottino di guerra.[36] Presso il Tempio di Apollo su suolo comprato in gran parte da privati costruii un teatro, che volli fosse intitolato a mio genero, Marco Marcello. Consacrai doni ricavati dal bottino di guerra nel Campidoglio, e nel Tempio del Divo Giulio, e nel Tempio di Apollo, e nel tempio di Vesta[37], e nel tempio di Marte Ultore: essi mi costarono circa cento milioni di sesterzi. Console per quinta volta[38], restituii trentacinquemila libbre di oro coronario[39] ai municipi e alle colonie d'Italia che lo donavano per i miei trionfi, e in seguito, tutte le volte che fui proclamato imperator, non accettai l'oro coronario, anche se i municipi e le colonie lo decretavano con la medesima benevolenza con cui lo avevano decretato in precedenza.»
« 22. Tre volte allestii uno spettacolo gladiatorio a nome mio e cinque volte a nome dei miei figli o nipoti; e in questi spettacoli combatterono circa diecimila uomini. Due volte a mio nome offrii al popolo spettacolo di atleti fatti venire da ogni parte, e una terza volta a nome di mio nipote[40]. Allestii giochi a mio nome quattro volte, invece al posto di altri magistrati ventitré volte. In nome del collegio dei quindecemviri, come presidente del collegio, avendo per collega Marco Agrippa, durante il consolato di Gaio Furnio e Gaio Silano, celebrai i Ludi Secolari[41]. Durante il mio tredicesimo consolato[42] celebrai per primo i Ludi di Marte che in seguito e di seguito negli anni successivi, per decreto del senato e per leggi, furono celebrati dai consoli. Allestii per il popolo ventisei volte, a nome mio o dei miei figli e nipoti, cacce di belve africane, nel circo o nel foro o nell'anfiteatro, nelle quali furono ammazzate circa tremilacinquecento belve.»
« 23. Allestii per il popolo uno spettacolo di combattimento navale al di là del Tevere, nel luogo in cui ora c'è il bosco dei Cesari[43], scavato il terreno per un lunghezza di milleottocento piedi e per una larghezza di milleduecento; in esso vennero a conflitto trenta navi rostrate triremi o biremi, e, più numerose, di stazza minore; in questa flotta combatterono, a parte i rematori, circa tremila uomini.»
« 24. Nei templi di tutte le città della provincia d'Asia ricollocai, vincitore, gli ornamenti che, spogliati i templi, aveva posseduto a titolo privato colui al quale avevo fatto guerra.[44] Mie statue pedestri ed equestri e su quadrighe, in argento, furono innalzate nell'Urbe in numero di ottanta circa, ma io spontaneamente le rimossi e dal denaro ottenuto ricavai doni d'oro che collocai nel tempio di Apollo a nome mio e di quelli che mi tributarono l'onore delle statue.»

Pars tertia. Capitoli 25-35
«25. Stabilii la pace sul mare liberandolo dai pirati[45]. In quella guerra catturai circa trentamila schiavi che erano fuggiti dai loro padroni e avevano impugnato le armi contro lo Stato, e li consegnai ai padroni perché infliggessero una pena. Tutta l'Italia giurò spontaneamente fedeltà a me[46] e chiese me come comandante della guerra in cui (poi) vinsi presso Azio; giurarono parimenti fedeltà le province di Gallia, delle Spagne, di Africa, di Sicilia e di Sardegna. I senatori che militarono allora sotto le mie insegne furono più di settecento, tra essi, o prima o dopo, fino al giorno in cui furono scritte queste memorie, ottantatré furono eletti consoli, e circa centosettanta sacerdoti.»
« 26. Allargai i confini di tutte le province del popolo romano, con le quali erano confinanti popolazioni che non erano sottoposte al nostro potere. Pacificai le provincie delle Gallie e delle Spagne[47], come anche la Germania nel tratto che confina con l'Oceano, da Cadice alla foce del fiume Elba[48]. Feci sì che fossero pacificate le Alpi[49], dalla regione che è prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, senza aver portato guerra ingiustamente a nessuna popolazione. La mia flotta navigò l'Oceano dalla foce del Reno verso le regioni orientali fino al territorio dei Cimbri, dove né per terra né per mare giunse alcun romano prima di allora[50], e i Cimbri e i Caridi e i Sennoni e altri popoli germani della medesima regione chiesero per mezzo di ambasciatori l'amicizia mia e del popolo romano. Per mio comando e sotto i miei auspici due eserciti furono condotti, all'incirca nel medesimo tempo, in Etiopia e nell'Arabia detta Felice[51], e grandissime schiere nemiche di entrambe le popolazioni furono uccise in battaglia e conquistate parecchie città. In Etiopia arrivò fino alla città di Nabata, di cui è vicinissima Meroe. In Arabia l'esercito avanzò fin nel territorio dei Sabei, raggiungendo la città di Mariba.»
«27. Aggiunsi l'Egitto all'impero del popolo romano.[52] Pur potendo fare dell'Armenia maggiore una provincia dopo l'uccisione del suo re Artasse, preferii, sull'esempio dei nostri antenati, affidare quel regno a Tigrane, figlio del re Artavaside e nipote di re Tigrane, per mezzo di Tiberio Nerone, che allora era mio figliastro[53]. E la medesima popolazione che in seguito cercava di staccarsi e si ribellava, domata per mezzo di mio figlio Gaio, affidai da governare al re Ariobarzane, figlio di Artabazo re dei Medi, e dopo la sua morte a suo figlio Artavaside[54]. E dopo che questi fu ucciso, mandai su quel trono Tigrane, discendente della famiglia reale armena. Riconquistai tutte le province che al di là del mare Adriatico sono volte a Oriente[55], e Cirene, ormai in gran parte possedute da re, precedentemente, la Sicilia e la Sardegna, occupate nel corso della guerra servile[56].»
«28. Fondai colonie di soldati in Africa, in Sicilia, in Macedonia, in entrambe le Spagne, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in Pisidia. L'Italia poi possiede, fondate per mia volontà, ventotto colonie, che durante la mia vita furono assai prosperose e popolose[57].»
«29. Recuperai dalla Spagna e dalla Gallia e dai Dalmati, dopo aver vinto i nemici, parecchie insegne militari perdute da altri comandanti. Costrinsi i Parti a restituirmi spoglie e insegne di tre eserciti romani e a chiedere supplici l'amicizia del popolo romano[58]. Quelle insegne, poi, riposi nel penetrale che è nel tempio di Marte Ultore.»
«30. Le popolazioni dei Pannoni, alle quali prima del mio principato l'esercito del popolo romano mai si accostò, sconfitte per mezzo di Tiberio Nerone, che allora era mio figliastro e luogotenente, sottomisi all'impero del popolo romano, estesi i confini dell'Illirico fino alla riva del Danubio. E un esercito di Daci, passati al di qua di esso, sotto i miei auspici fu vinto e sbaragliato, e in seguito il mio esercito, condotto al di là del Danubio, costrinse la popolazione dei Daci a sottostare ai comandi del popolo romano.»
«31. Furono inviate spesso a me ambascerie di re dall'India, non viste prima di allora da alcun comandante romano. Chiesero la nostra amicizia per mezzo di ambasciatori i Basrani, gli Sciti e i re dei Sarmati che abitano al di qua e al di là del fiume Tànai[59], e i re degli Albani, degli Iberi e dei Medi.»
«32. Presso di me si rifugiarono supplici i re dei Parti Tiridate e poi Fraate, figlio del re Fraate, e Artavasde re dei Medi, Artassare degli Adiabeni, Dumnobellauno e Tincommio dei Britanni, Melone dei Sigambri, Segimero dei Marcomanni Svevi. Presso di me in Italia il re dei Parti Fraate, figlio di Orode, mandò tutti i suoi figli e nipoti, non perché fosse stato vinto in guerra, ma perché ricercava la nostra amicizia con il pegno dei suoi figli. E moltissime altre popolazioni sperimentarono, durante il mio principato, la lealtà del popolo romano, esse che in precedenza non avevano avuto nessun rapporto di ambascerie e di amicizia con il popolo romano.»
«33. Da me le popolazioni dei Parti e dei Medi, che me ne avevano fatto richiesta per mezzo di ambasciatori che erano le persone più ragguardevoli di quelle popolazioni, ricevettero i loro re: i Parti Vonone, figlio del re Fraate e nipote del re Orode; i Medi Ariobarzane, figlio del re Artavasde e nipote del re Ariobarzane.»
«34. Nel mio sesto e settimo consolato, dopo aver sedato l'insorgere delle guerre civili, assunsi per consenso universale il potere supremo, trasferii dalla mia persona al senato e al popolo romano il governo della repubblica[60]. Per questo mio atto, in segno di riconoscenza, mi fu dato il titolo di Augusto per delibera del senato e la porta della mia casa per ordine dello Stato fu ornata con rami d'alloro, e una corona civica fu affissa alla mia porta, e nella Curia Giulia fu posto uno scudo d'oro, la cui iscrizione attestava che il senato e il popolo romano me lo davano a motivo del mio valore e della mia clemenza, della mia giustizia e della mia pietà. Dopo di che, sovrastai tutti per autorità, ma non ebbi potere più ampio di quelli che mi furono colleghi in ogni magistratura.»
«35. Quando rivestivo il tredicesimo consolato, il senato, l'ordine equestre e tutto il popolo Romano, mi chiamò padre della patria[61], decretò che questo titolo dovesse venire iscritto sul vestibolo della mia casa, e sulla Curia Iulia e nel Foro di Augusto sotto la quadriga che fu eretta a decisione del senato, in mio onore. Quando scrissi questo, avevo settantasei anni.»

Appendix
«App. I. Somma di denaro che donò o all'erario o alla plebe romana o ai soldati congedati: seicento milioni di sesterzi.»
«App. II.Costruì nuove opere: i templi di Marte, di Giove Tonante e Feretrio, di Apollo, del Divo Giulio, di Quirino, di Minerva, di Giunone Regina, di Giove Libertà, dei Lari, degli dèi Penati, della Giovinezza, della Grande Madre, il Lupercale, il palco del Circo, la Curia con Calcidico, il Foro di Augusto, la Basilica Giulia, il Teatro di Marcello, il Portico di Ottavia, il bosco dei Cesari al di là del Tevere.»
«App. III. Restaurò il Campidoglio e sacri templi in numero di ottantadue, il Teatro di Pompeo, gli acquedotti,la via Flaminia.»
« Spese sostenuta per spettacoli scenici, giochi gladiatori, gare atletiche, cacce e per la naumachia, e quantità di denaro donato a colonie, municipi, città distrutte da terremoti e incendi, o singolarmente ad amici e senatori, di cui completò il censo: enormi.»

Note
0.^ Ora, per capire cosa un cittadino romano poteva comprare con il proprio denaro basta leggere uno dei listini di una delle Taberne pompeiane, fissati sul muro dal calore dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; da queste apprendiamo che un chilo di pane costava 2 assi, come un litro di vino; un piatto di legumi o verdure costava 1 asse; una prostituta nel “lupanare” costava 1 sesterzio, una tunica 12 sesterzi; uno schiavo generico, costava 625 denari, 2500 sesterzi. Approssimativamente possiamo dire che 1 sesterzio = 6 euro.
1.^ Svetonio, Augustus, 101.
2.^ Sul testo di tutti i frammenti dalle varie località menzionate vedi C. Barini, Res Gestae Divi Augusti, ex monumentis Ancyrano, Antiocheno, Apolloniensi, Roma 1937
3.^ F. Guizzi, Augusto. La politica della memoria, Roma 1999, pp.71-73
4.^ Progetto Ancyra
5.^ I. Borsak, Zum Monumnetum Ancyranum, "AAntHung" 38 (1998), pp. 41-50.
6.^ Livio, XXVIII, 46, 1; Polibio, III, 33, 18; 56.
7.^ Ottaviano allora si trovava ad Apollonia in Macedonia, in attesa dell'arrivo di Cesare per la programmata campagna partica del dittatore, di cui forse doveva divenire il magister equitum.
8.^ Il 19 agosto del 43 a.C. assieme a Quinto Pedio, figlio o nipote di Giulia, una sorella di Cesare, che fu legato di Cesare in Gallia e proconsole in Spagna.
9.^ Si tratta della Lex Pedia de interfectoribus Caesaris del 43 a.C., che promuoveva l'esilio, e la perdita della cittadinanza romana agli uccisori di Cesare
10.^ La battaglia di Filippi nell'ottobre-novembre del 42 a.C. contro Bruto e Cassio.
11.^ a b 28 a.C.
12.^ 8 a.C. Per alcuni studiosi cristiani questo censimento coincide col "primo censimento" (il secondo fu quello provinciale del 6-7 d.C.) ricordato in Luca 2,1-2, in occasione del quale nacque Gesù (vedi Censimento di Quirinio).
13.^ 14 d.C.
14.^ Si tratta della legazione inviata nel 19 a.C. per esortare Augusto a far rapido ritorno a Roma, dove persistevano disordini sorti in seguito alle pretese di Marco Egnazio Rufo di accedere al consolato; infatti in quell'anno era stato nominato un solo console, Gaio Senzio Saturnino e Augusto, non vendo accettato il consolato, aveva stabilito che il posto vacante fosse occupato da Quanto Lucrezio Vespillone, uno dei membri della legazione.
15.^ Dal 16 al 13 a.C., Augusto si trattenne in Gallia e in Spagna dove ottenne un successo di grande portata politica col pacificare quelle terre e col gettare le basi per un profondo processo di romanizzazione.
16.^ Nel 30 a.C., dopo la vittoria su Cleopatra, nel 25 a.C. dopo le Guerre cantabriche e una terza volta, non ancora identificata con certezza.
17.^ Il titolo, modellato su quello offerto ad Augusto di Princeps senatus, fu conferito dal ordo equester, in quanto il termine iuventus in senso più lato designava tutto il corpo di equites equo publico, ossia i cavalieri sotto i 35 anni tecnicamente ancora iuniores e i figli di senatori sotto i 25 anni che non avevano ancora ricoperto alcuna magistratura senatoria.
18.^ La plebe urbana erano i cittadini residenti a Roma, appartenenti non soltanto alle quattro tribù urbane (Esquilina, Palatina, Collina, Suburbana) , ma anche ai cittadini iscritti alle tribù rustiche e residenti a Roma da più generazioni.
19.^ 44 a.C.
20.^ Nel 30 a.C.; il bottino è in gran parte il tesoro dei Tolomei acquisito per diritto di conquista nella compagna contro Cleopatra (e Antonio) dello stesso anno.
21.^ Al ritorno dalle Guerre cantabriche nel 24 a.C.
22.^ Nel 23 a.C.
23.^ In occasione dell'elezione di Augusto a pontefice massimo nel 12 a.C.
24.^ 5 a.C. in occasione della deductio in Forum di Gaio Cesare
25.^ In occasione della deductio in Forum di Lucio Cesare nel 2 a.C.
26.^ Nel 30 a.C., dopo la battaglia di Azio
27.^ Nel 14 a.C.
28.^ Le coppie consolari indicano gli anni 7, 6, 4, 3, e 2 a.C.
29.^ L'istituzione dell'erario militare avvenne nel 6 d.C.
30.^ Nel 5 d.C Augusto fissò la nuova durata del servizio militare: 16 anni per i pretoriani, 20 per i legionari. Ma la ferma veniva spesso prolungata, come Augusto stesso riconosce, sino a 30 o 40 anni.
31.^ 18 a.C.
32.^ Si tratta della Curia Iulia (iniziata a suo tempo da Cesare) inaugurata nel 29 a.C. in occasione del triplice trionfo. Cassio Dione, LI, 22, 1
33.^ Iniziato nel 36 a.C. dopo la vittoria navale su Sesto Pompeo a Nauloco
34.^ Nel 27 a.C.
35.^ Nulla si sa con esattezza di questa costruzione.
36.^ Ricavato dalla battaglia di Filippi e dalle proscrizioni
37.^ Non è chiaro se si tratti del tempio di Vesta sul Foro Romano o una piccola edicola ricavata nel palazzo imperiale e inaugurata nel 12 a.C., dopo l'elezione di Augusto a pontefice massimo
38.^ 29 a.C.
39.^ L'oro coronario era un donativo in oro o in denaro, fatto a un generale vittorioso, al posto della corona aurea o trionfale.
40.^ Druso minore, figlio di Tiberio.
41.^ Furono celebrati il 17 a.C. dalla notte del 3 maggio a tutto il 17 giugno, periodo più felice dell'anno, quello della mietitura. Venivano chiamati saeculares perché avrebbero dovuto avere la cadenza di un secolo. Essi esaltavano il rinnovarsi della vita e, nell'intenzione di Augusto, il rinnovarsi di Roma dopo l'oscuro periodo delle guerre civili.
42.^ 2 a.C.
43.^ Un bosco fatto piantare da Augusto in onore di Gaio e Lucio Cesari; Tacito, Annales, XIV, 5, 2.
44.^ Si tratta naturalmente di Marco Antonio; qui Augusto tace il nome sia per il fatto che per decreto del senato tutto ciò che rendeva onore a Marco Antonio doveva essere distrutto o celato sia perché, in linea con la sua propaganda, Augusto voleva che il bellum fosse considerato externum, quindi contro Cleopatra, e non, come invece fu, civile
45.^ Si tratta della guerra contro Sesto Pompeo,figlio di Gneo Pompeo Magno, che aveva occupato la Sardegna, la Corsica e la Sicilia e dalle quali affamava l'Italia con un'imponente flotta. La guerra, nel 38-36 a.C., si concluse con la vittoria di Ottaviano a Nauloco nel 36 a.C.
46.^ Augusto fa riferimento alla coniuratio totius Italiae et provinciarum in verba Octaviani del 32 a.C. Un atto politico anticostituzionale ed extracostituzionale, giacché si trattava di un atto plebiscitario fondato su un giuramento d'origine militare esteso a tutta la popolazione civile dell'Italia e delle province occidentali. Su di esso, Ottaviano fondò il suo potere sino al 27 a.C. quando divenne Augusto; fu sulla scorta di questa investitura come dux (come lui stesso si definisce) che il futuro imperatore condusse la guerra contro Cleopatra e Antonio.
47.^ Vedi sopra quanto detto al par. 12
48.^ Augusto si riferisce alle due campagne di Druso (12-9 a.C.) e di Tiberio 8-7 a.C. vanificate, come noto, dalla disfatta di Teutoburgo dove 3 legioni, sotto il comando di Publio Quintilio Varo, vennero distrutte dai Germani nel 9 d.C. Roma mantenne un controllo sulla zone costiera fino all'Elba.
49.^ La sottomissione dell'intero arco alpino avvenne in un serie di campagne militari fra il 35 ae il 7 a.C., di cui la più importante è la doppia manovra di Tiberio e Druso nel 15 a.C., in occasione della conquista della Rezia e della Vindelicia.
50.^ La spedizione marittima nel mare del Nord avvenne nel 5 a.C. durante la campagna germanica di Tiberio
51.^ Si tratta delle spedizioni del 3° e del 2° prefetto d'Egitto, rispettivamente Gaio Petronio ed Elio Gallo. Le campagne avvennero nel 24/25 a.C. in Arabia e nel 24-22 a.C. in Etiopia
52.^ Nel 30 a.C. dopo la morte di Antonio e Cleopatra, Ottaviano ridusse a provincia il regno d'Egitto, affidandolo ad un cavaliere di sua nomina, con il titolo di praefectus Alexandreae et Aegypti.
53.^ Svetonio, Tiberius, 9, 1
54.^ Nel 2 a.C. Tacito, Annales, II, 4, 1
55.^ Sono le province che nel trattato di Brindisi del 40 a.C. erano state affidate a Marco Antonio e che questi aveva poi donato a Cleopatra (Cassio Dione LV, 10)
56.^ Vedi sopra capitolo 12
57.^ Ricordiamo fra le altre, Trieste, Aosta e Torino.
58.^ Nel 20 a.C.Si tratta in particolare delle insegne di Crasso, perse nella battaglia di Carre nel 53 a.C. L'episodio è raffigurato nella lorica della statua d'Augusto, detta l'Augusto di Prima Porta
59.^ Tanais era il nome greco arcaico del fiume Don oltre al nome di una colonia greca (fondata nel III secolo a.C., ma l'area era visitata dai greci fin dal VII secolo) situata proprio in corrispondenza della foce del fiume. 60.^ Nella seduta del 13 gennaio del 27 a.C.
61.^ Il titolo di pater patriae venne assunto il 5 febbraio del 2 a.C.

 

Eugenio Caruso - 25 novembre 2017

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