GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.
ARTICOLI PRECEDENTI. Sun Tzu - Alessandro Magno - Marco Aurelio- Nabucodonosor - Elisabetta I - Carlo Magno - Hammurabi - Gilgames - Sargon - San Benedetto - Cesare - Saladino - Nerone - Carlo V - Attila - Pietro il grande - Caterina di Russia - Adriano - Gengis Khan - Napoleone Bonaparte - Akhenaton - Tutanchamon - Ramsete II - Ciro il Grande - Chandragupta Maurya - Augusto - Qin Shi Huang - Traiano - Barbarossa - Kanishka I - Antonino Pio - Lucio Vero -
Costantino
«[…] il grande Costantino […] Questo mostro senza scrupoli, con l’aura di santo, fece tagliare la gola al figlio, strangolò sua moglie, assassinò suo suocero e suo cognato, intrattenne alla sua corte una combriccola di preti cristiani bigotti e assetati di sangue, di cui ne sarebbe bastato uno solo per riuscire a istigare metà dell’umanità a massacrare l’altra metà». Con queste note, tratte dai suoi Complete Works e opportunamente registrate da Karlheinz Deschner nella Storia criminale del cristianesimo, il poeta inglese Percy Bysshe Shelley si erse come una delle poche voci fuori dal coro altrimenti inneggiante all’uomo che una robusta tradizione indicò come il “Grande”.
Il percorso di Costantino iniziò a Naisso, in Mesia, oggi Niš nei pressi di Sofia, il 27 febbraio verosimilmente del 280. Sua madre, la celeberrima Elena che la Chiesa non esiterà a fare santa, era una sguattera dedita alla pulizia delle stalle. Fu probabilmente mentre svolgeva le sue mansioni che incontrò Flavio Valerio Costanzo detto Cloro cioè “Pallido”, uomo di modesta famiglia ma ufficiale dell’esercito romano con una brillante carriera, Elena si unì a lui attraverso un’unione non legale.
Elena fu lungimirante, considerato che qualche anno più tardi, nel 288, l’amante diveniva prefetto del pretorio su designazione di Massimiano, allora augusto dell’occidente: molto meno sagace si dimostrò nel prevedere che quella nomina avrebbe comportato inevitabili macchinazioni politiche per assecondare le quali Costanzo Cloro fu costretto a sposare Teodora, la figlia di Massimiano, e a mettere conseguentemente da parte Elena.
Il loro figlio, al quale era stato imposto il nome di Flavio Valerio Costantino, fu lasciato alla corte dell’augusto Diocleziano, che lo accolse alla stregua di ostaggio trattenuto in garanzia della fedeltà paterna. Lì Costantino visse la sua infanzia e la sua giovinezza dimostrando le sue "qualità": coraggioso e intelligente, ma soprattutto mostrò una natura ambiziosa, crudele e sanguinaria, apprezzata da Diocleziano che seppe valorizzarla, elevando il giovane al rango di tribunus ordinis primi.
Costantino, al seguito di Diocleziano, partecipò alle sortite in Palestina e in seguito sul Danubio, dove si fece le ossa combattendo i sarmati; quindi nel 296 fu in Egitto, a sedare una rivolta scoppiata ad Alessandria. Soprattutto quest’ultima azione si inseriva in un piano di ampio respiro attraverso il quale Diocleziano intendeva porre rimedio a una situazione piuttosto delicata, sia sul fronte interno che su quello estero. Mentre la frontiera occidentale rimaneva più o meno stabile, grazie a onerosi tributi che seppure dissanguando l’Erarium permettevano di placare le tribù barbare che premevano su quell’asse, il fronte orientale ribolliva a causa dei Sasanidi i quali, nonostante le sconfitte subite da Marco Aurelio Caro – che al pari di Traiano si era spinto sino a Ctesifonte –, erano riusciti a riconquistare tutti i territori persi, costringendo il precedente imperatore Numeriano alla ritirata.
Costantino dunque partecipò all'offensiva con cui Diocleziano occupò il cuneo mesopotamico all’interno del regno persiano, riuscendo in tal modo a riattivare le esportazioni verso l’Oriente e a sedare così automaticamente le rivolte civili e militari, innescate nell’area da un clima di insofferenza economica. Quindi si trattò di rivolgere lo sguardo a nord-ovest, dove nel frattempo bande armate di contadini galli, i cosiddetti Bacaudae, agitavano lo spauracchio della costituzione di un imperium galliarum: il tutto mentre lungo le coste atlantiche e in tutto il mare del Nord imperversava la flotta del ribelle batavo-romano Carausio il quale, inviato dapprima a contrastare i ribelli, aveva fatto invece lega con loro e, sfruttando Boulogne-sur-mer come base d’appoggio, effettuava vere e proprie scorrerie piratesche che avevano di fatto isolato la Britannia.
Diocleziano, prendendo spunto da un progetto dell'imperatore Marco Aurelio Caro (in carica dal 282 al 283), divise l’impero in due parti riservando a sé il controllo dell’Oriente e affidando a Massimiano l’Occidente; l'imperatore d'oriente risultava leggermente superiore a quwello d'occidente. Stabiliti i due augusti, Diocleziano dispose che esistessero due cesari, ognuno destinato a prendere il posto degli attuali imperatori una volta che questi, completato il loro mandato, avessero abdicato.
Il meccanismo prevedeva infatti che ogni dieci anni gli augusti abdicassero spontaneamente e contemporaneamente per far posto ai cesari i quali, una volta assunto il potere, sarebbero divenuti augusti a loro volta e tenuti a nominare i futuri cesari, che li avrebbero poi sostituiti dopo dieci anni. Si innescava così un’alternanza che, nelle intenzioni di Diocleziano, avrebbe dovuto superare il vincolo del diritto ereditario e le guerra fratricide tra comanedanti di legione per accaparrarsi il titolo.
Massimiano scelse il genero Galerio come suo successore, mentre Massimiano onorava del titolo di cesare proprio il padre di Costantino, Costanzo Cloro, allora impegnato in qualità di prefetto del pretorio contro Carausio verso il quale, fresco di nomina, rinnovò i suoi sforzi fino ad averne ragione.
Assecondando il delicato equilibrio di contrappesi del potere, Costantino passò alle dipendenze di Galerio, con cui dopo il 296 partiva alla volta dell’Oriente per combattere e sconfiggere persiani e sarmati. Lo sforzo dei tetrarchi sembrò tappare le falle dell’impero, permettendo dunque a Diocleziano di raggiungere la fatidica data del 305 in cui, come previsto, abdicò in favore di Galerio, prontamente imitato da Massimiano che traslava la dignità augustea a Costanzo Cloro. A quel punto si trattava di nominare i due cesari.
In molti erano più che sicuri che uno dei designati sarebbe stato Costantino, come dimostrò l’impressionante mole di monete stampata in quell’anno ad Alessandria, recanti l’effigie del giovane in qualità di cesare. Invece Galerio esercitò a proprio vantaggio le prerogative derivate dall’essere augusto d’oriente, obbligando Costanzo Cloro a eleggere un oscuro soldato, Flavio Severo, mentre la designazione che gli competeva ricadde su Massimino Daia, un semibarbaro che vantava il pregio di essere suo genero; la riforma di Diocleziano mostrava che se un augusto temeva di nominare un valido cesare avrebbe nominato un fantoccio. Costanzo Cloro richiamò a sé il figlio, adottando la scusa di voler beneficiare del suo aiuto nella campagna che stava conducendo contro i pitti in Britannia, ma Galerio rispose negativamente, preferendo mantenere in ostaggio Costantino finché acconsentì che Costantino lasciasse Nicomedia, dove era segregato, e raggiungesse il padre. Per quasi un anno i due combatterono fianco a fianco contro i barbari di Bretagna finché il 25 luglio del 306 Costanzo Cloro non morì in battaglia presso Eboracum, attuale York. L’esercito o meglio, la I Flavia Galliciana Constantia, la I Flavia Martis e la XII Victrix, ovvero le legioni affidate al padre e ora sotto il comando del generale alemanno Croco, in quello stesso giorno lo proclamarono augusto imperatore.
Questa proclamazione che equivaleva a una vera e propria usurpazione del potere imperiale, portò una profonda scossa al sistema tetrarchico. Si scatenò a quel punto un effetto domino destinato a mandare all’aria l’intero impianto. Galerio, rimasto ormai unico rappresentante della prima tetrarchia dioclezianea e perciò in posizione preminente sugli altri imperatori, concesse a denti stretti a Costantino il riconoscimento del titolo di cesare. Avrebbe volentieri voluto fargliela pagare, ma fu indotto a ricorrere a quella soluzione intermedia per il timore di complicare la situazione nelle province occidentali e in virtù della popolarità di cui Costantino godeva ancora alla corte di Nicomedia. Quindi, cercando di salvare il salvabile, Galerio lasciò che l’ordinamento dioclezianeo facesse il suo corso permettendo che il cesare Severo, alle cui dipendenze figurava l’Italia, venisse promosso al rango di augusto.
Il 28 ottobre 306, a Roma fu acclamato augusto Massenzio, il figlio di Massimiano. Questi, che aveva rinunciato al potere di malavoglia, aiutò il figlio a disfarsi di Severo, che scomparve dalle scene alla fine dello stesso anno. Dopo questo primo successo il vecchio Massimiano temeva la riscossa e la vendetta di Galerio, per contrastare la quale pensò di allearsi con Costantino.
Per cercare di sbrogliare la matassa, Galerio decise di chiedere la mediazione di Diocleziano; questi, salomonicamente, confermò Galerio e Massimino Daia nei ruoli di augusto e cesare per l’Oriente; per l’Occidente l’antico imperatore propose la carica di augusto a Valerio Liciniano Licinio, mentre Costantino e Massenzio venivano retrocessi entrambi al ruolo di cesare attraverso la vaga formula di filii Augustorum.
Costantino al momento dovette fare buon viso a cattiva sorte anche perché le Gallie, una delle regioni che al pari di Britannia, Germania superiore e inferiore e Spagna gli erano state riconosciute, subiva l’attacco dei franchi.
La situazione intanto si faceva sempre più incandescente: tutti gli attori rimasti in campo, ovvero Galerio, Licinio e Massimino in Oriente, Massenzio e Costantino in Occidente, avocavano a sé il diritto di fregiarsi del titolo di augusto. A sparigliare le carte arrivò la morte di Galerio che scatenò i quattro contendenti che, al momento, intrecciarono alleanze. Risultarono così due schieramenti in cui Costantino e Licinio contrastarono Massenzio e Massimino, rispettivamente in Occidente e in Oriente.
Ad aprire le ostilità ci pensò Costantino che, nella primavera del 312, lasciava la città di Treviri, l’Augusta Treverorum eletta a propria residenza imperiale, e puntava diretto contro l’Italia, dov’era asserragliato Massenzio. A seguirlo, secondo il resoconto del cronista Zosimo, autore della Historía néa, (“Storia Nuova”) nel V secolo, furono 90.000 fanti e 8000 cavalieri, praticamente un quarto delle truppe di cui poteva disporre, formate da barbari catturati in guerra, germani e altri popoli celtici, oltre a una nutrita schiera assoldata in Britannia.
Lasciata dunque a custodia delle frontiere la maggioranza della sua armata, Costantino si affacciò in Italia attraverso il passaggio del Monginevro. Massenzio dispose la sua avanguardia difensiva allo sbocco della valle di Susa, affidandola al prefetto del pretorio Ruricio Pompeiano, che si asserragliava nella città di Segusium mentre reparti di armate pesanti dirigevano sul nemico attacchi mirati a spezzarne l’unità. Gli attacchi fallirono e la stessa guarnigione di Susa, che avrebbe dovuto opporre resistenza, fu sterminata, offrendo a Costantino l’occasione di manifestare la sua “clemenza” concedendo che la città fosse risparmiata dal saccheggio. Seguirono le battaglie di Rivoli e Verona vinte da Costantino e dove Ruricio perse la vita.
Alla resa di Verona si aggiungeva quella di Aquileia, fondamentale nello scacchiere tattico perché unica via verso oriente. Da qui, finalmente Costantino poteva iniziare la discesa che l’avrebbe condotto all’appuntamento con il destino: il XII milium della via Flaminia, circa 19 chilometri a nord di Roma.
Fu lì infatti che lo storico Aurelio Vittore, nel suo De Caesaribus del IV secolo, localizzò l’inizio dello scontro tra Costantino e Massenzio, nella località nota come Saxa Rubra. I due contendenti si erano dati battaglia con la percezione che essa avrebbe rappresentato il momento culminante della loro corsa verso il potere. Soprattutto Massenzio, che proprio in quel frangente festeggiava l’anniversario del suo dies imperii, ovvero il giorno della proclamazione avvenuto sei anni prima, tra il 27 e il 28 ottobre del 306 d.C. Sarà stato per questo che, impaziente di festeggiare, uscì dall’Urbe a intercettare l’avversario all’altezza di quel fatidico dodicesimo miglio della Flaminia. Ciò attesterebbero le evidenze archeologiche, che riconobbero il punto esatto dello scontro in località Malborghetto, grazie alla presenza di un enorme arco quadrifronte in opera laterizia che in antico era ricoperto di marmi pregiati e che poi, nel Medioevo, già riconosciuto come il luogo dei fatti, fu trasformato in chiesa, poi torre e quindi casale.
Massenzio si sarebbe avventato su Costantino adottando una tattica sconsiderata, seppur confortata da un’innegabile superiorità numerica.
L’anonimo dei Panegyrici latini asseriva che il rapporto era rispettivamente di 40.000 contro 100.000; Massenzio cercò lo scontro aperto in un punto teoricamente a lui favorevole, ossia collinare e impraticabile alla cavalleria nemica. Il contatto tra gli eserciti si trasformò ben presto in uno scontro totale che vide, dopo un’iniziale prevalenza di Massenzio, l’arretramento del suo esercito. La battaglia dovette svolgersi a più riprese se è vero che il suo epilogo si risolse la mattina del 28 ottobre del 312 nei pressi del Ponte Milvio, come riportato da una pletora di testimonianze, tra le quali spiccano quelle di Lattanzio e di Eusebio di Cesarea.
Lì Massenzio dovette ripiegare dopo che, evidentemente a Saxa Rubra, aveva dovuto cedere terreno. Fece dunque dispiegare l’esercito lungo la costa destra del Tevere, «in modo che l’acqua bagnasse i piedi dei soldati dell’ultima fila», obbligando così di fatto i suoi uomini a non arretrare; quindi si preoccupò di distruggere il ponte originale in pietra, in luogo del quale fece costruire un altro poggiato su passerelle di legno facilmente rimuovibili che, secondo i suoi piani, al momento del passaggio dell’esercito avversario doveva essere abbattuto, provocando la caduta della milizia d’oltralpe nel fiume.
Quella che doveva essere una trappola si rivelò invece fatale per lui. Costantino, come di consueto, guidò le cariche della cavalleria gallica, che fiaccarono le ali dello schieramento nemico fino a infrangerle. A quel punto sfondò al centro imprigionando l’esercito di Massenzio nella sacca dell’ansa tiberina, dove i soli che opposero una resistenza degna di questo nome furono i pretoriani che, difendendo insieme al loro onore la propria vita, perirono nello stesso punto in cui erano tasti schierati. Il resto dell’esercito invece si diede a una fuga disperata, che si interruppe proprio sulle tavole del ponte apparecchiato alle sue spalle, che non resse al peso e rovinò, facendo concludere quella rotta in un annegamento al quale non scampò lo stesso Massenzio. La battaglia si risolse dunque in un massacro, che spalancò a Costantino le porte di Roma e il conseguente trionfo, nel quale sfilò lasciandosi precedere da una picca sulla quale svettava la testa mozzata del rivale.
L'episodio che portò quella battaglia a cambiare il corso della Storia sarebbe stato il “segno” che avrebbe scorto Costantino prima della battaglia o meglio, la visione che ne avrebbe determinato la definitiva conversione al cristianesimo con tutte le conseguenze che ne derivarono. La più antica versione risale a Lattanzio, il quale due anni dopo i fatti scriveva nel De Mortibus Persecutorum, che Costantino, la notte prima dello scontro, fece un sogno in cui gli comparve il “segno celeste di Dio”, ovvero un simbolo composto da due lettere sovrapposte, che corrispondevano, rispettivamente, alla lettere greche “chi” e “rho”, ovvero le iniziali della parola, il “Cristo”.
Qualche tempo dopo, Eusebio di Cesarea, che diverrà amico personale di Costantino, nella sua Vita Constantini afferma che il futuro imperatore ebbe una prima visione in Gallia, in cui distinse la scritta «Toutô nika», che più tardi Rufino tradusse in «Hoc signo victor eris» e che la tradizione trasformò nel più noto «In hoc signo vinces». Quindi lo stesso autore propose una seconda versione redigendo la Historia Ecclesiastica, in cui afferma che la medesima scritta fu notata campeggiare al centro di una croce luminosa che tutti i soldati di Costantino videro stagliarsi chiaramente nel cielo il giorno precedente lo scontro. Gli uomini di Costantino avrebbero affrontato il nemico con un vessillo riportante uno staurogramma (Lo staurogramma è un monogramma ottenuto sovrapponendo due lettere greche maiuscole, tau (T) e rho (P). Dato che il rho è scritto con un carattere più alto del tau, il simbolo risultante è una croce latina, in cui il braccio verticale superiore è dotato anche dell'occhiello del rho).
Trascurando manifestazioni magiche come segni, sogni e visioni, è inverosimile che prima della battaglia gli uomini di Costantino
abbiano potuto confezionare un gran numero di vessilli con questo nuovo simbolo. Ma ammesso pure che i soldati si siano ingegnati a fregiare le proprie insegne, si trattò di una prassi comune adottata dai legionari per distinguere le proprie forze da quelle dell’avversario, tanto più quanto questo era costituito da altri soldati romani, le cui insegne e i cui armamenti così simili avrebbero potuto generare confusione.
Come se ciò non bastasse, lo staurogramma assomigliava al simbolo del culto solare con cui le genti galliche, la maggioranza delle quali costituiva le truppe di Costantino, rendevano omaggio al dio Belenos, attraverso la raffigurazione del sole esamero e quel sole era così prossimo al Sol invictus, una delle divinità alle quali Costantino risultava essere particolarmente devoto, al pari del padre Costanzo Cloro. E infatti, nel famosissimo arco eretto tre anni dopo a fianco dell’Anfiteatro Flavio, voluto dal Senato per celebrare la vittoria, comparirà appunto il Sol invictus, ma non ci sarà traccia né del labaro né della croce; e in quella stessa iscrizione che compare sul fornice, in cui si consegnò ai posteri il successo raggiunto, si incise che questo fu raggiunto instinctu divinitatis, “per suggerimento della divinità”, senza specificare di quale si trattasse.
Si può ragionevolmente ipotizzare dunque che Costantino, se mai ricorse al simbolo in oggetto, lo utilizzò alla stregua di un segno magico, una sorta di talismano benefico che esulava diametralmente da una sua presunta e consapevole adesione alle dottrine del cristianesimo. Se l’avvicinamento a questo ci fu, come lascerebbe intendere la promulgazione del cosiddetto “editto di Milano” dell’anno successivo, esso fu verosimilmente l’indizio di una posizione religiosa sincretistica, volta cioè a fondere cristianesimo e paganesimo e interessata soprattutto alla conservazione e il consolidamento del potere, in coerenza con la tradizione romana.
Non va comunque sottovalutato il fatto che Costantino visse (e ne fu inevitabilmente influenzato), in un'epoca segnata da un diffuso senso religioso che, composto da superstizione e fanatismo, riempì il vuoto lasciato dalla tradizione politeistica romana; fortemente erosa dallo stoicismo, filosofia e stile di vita in voga presso l'intellighenzia dell'impero.
Dotato di una personalità complessa, Costantino era anche un uomo superstizioso, quindi timoroso di perdere il favore delle diverse “possibili” divinità e costantemente alla ricerca di quella più potente, al fine di salvaguardare il potere.
È vero che dopo il 312 Costantino rinnegò progressivamente le cerimonie pagane, ma è vero anche che iscrizioni e formule dei panegirici mantennero un carattere pagano, e che egli stesso rimase pontifex maximus accettando il battesimo solo alla vigilia della morte.
L’abbandono del politeismo apparve un avvicinamento al monoteismo solare prima ancora che a quello cristiano: nonostante ciò i due elementi risultarono profondamente intrecciati. Cristo poteva essere inteso come l’inviato di quel Dio superiore che egli adorava sotto l’emblema del sole. Giova ricordare che, presumibilmente, all'epoca, il 25 dicembre era giornata di grandi festeggiamenti per il sol invictus e tale giorno di festa pagana è rimasto anche nella dottrina cristiana. Letteralmente natale significa "nascita". La festività del Dies Natalis Solis Invicti ("Giorno di nascita del Sole Invitto") veniva celebrata nel momento dell'anno in cui la durata del giorno cominciava ad aumentare dopo il solstizio d'inverno: la "rinascita" del sole. Il termine solstizio viene dal latino solstitium, che significa letteralmente "sole fermo" (da sol, "sole", e sistere, "stare fermo"). Infatti nell'emisfero nord della Terra tra il 22 e il 24 dicembre il Sole sembra fermarsi in cielo (fenomeno tanto più evidente quanto più ci si avvicina all’equatore). In termini astronomici, in quel periodo il sole inverte il proprio moto nel senso della "declinazione", cioè raggiunge il punto di massima distanza dal piano equatoriale. Il buio della notte raggiunge la massima estensione e la luce del giorno la minima. Si verificano cioè la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno. Subito dopo il solstizio, la luce del giorno torna gradatamente ad aumentare e il buio della notte a ridursi. Il giorno del solstizio cade generalmente il 21, ma per l’inversione apparente del moto solare diventa visibile il terzo/quarto giorno successivo. Il sole, quindi, nel solstizio d’inverno giunge nella sua fase più debole quanto a luce e calore, pare precipitare nell’oscurità, ma poi ritorna vitale e "invincibile" sulle stesse tenebre. E proprio il 25 dicembre sembra rinascere, ha cioè un nuovo "Natale". Questa interpretazione "astronomica" può spiegare perché il 25 dicembre sia una data celebrativa presente in culture e paesi così distanti tra loro. Tutto parte da una osservazione attenta del comportamento dei pianeti e del sole, e gli antichi, per quanto possa apparire sorprendente, avevano a disposizione strumenti che permettevano loro di osservare e descrivere movimenti e comportamenti degli astri; è presumibile che questi strumenti non fossero in grado di osservare il "moto" del sole se non due o tre giorni dopo il solstizio. Costantino, nel 330 ufficializzò per la prima volta il festeggiamento cristiano della natività di Cristo, che con un decreto fu fatta coincidere con la festività pagana della nascita di Sol Invictus. Verso la metà del IV secolo papa Giulio I ufficializzò la data del Natale da parte della Chiesa cattolica, come tramandato da Giovanni Crisostomo nel 390 (« In questo giorno, 25 dicembre, anche la natività di Cristo fu definitivamente fissata in Roma. » - Giovanni Crisostomo -). La scelta del 25 dicembre come festività in onore del sol invictus era resa particolarmente importante perchè si innestava, concludendola, nella festa romana più antica e partecipata, i Saturnali.
Costantino, del resto, ascolterà tra i suoi consiglieri il vescovo Osio di Cordova ed educherà i figli nella nuova religione; chiamerà addirittura dall’Oriente lo scrittore cristiano Lattanzio come precettore del figlio primogenito Crispo, salvo poi ricordarsi della propria natura sanguinaria che lo spinse a uccidere nel 326 quest’ultimo, falsamente accusato dalla sua seconda moglie Fausta di aver tentato di sedurla. L’ambivalenza di Costantino si espresse subito dopo quando il rimorso del gesto, se da un lato può aver influito su un suo ipotetico avvicinamento alla fede, dall’altro lo spinse ad ammazzare la moglie istigatrice.
D’altronde il sentiero di sangue con il quale tracciò le sue imprese non si era di certo esaurito all’indomani della vittoria del Ponte Milvio; appena messo piede a Roma, infatti, perpetrò il massacro dell’intera famiglia del suo avversario. Quindi, incassato il favore pressoché unanime del Senato, Costantino si fece interprete di quelle disposizioni per le quali passerà giustamente alla Storia. La prima di queste si concretizzò con lo scioglimento del corpo pretoriano, i cui sopravvissuti furono mandati in prima linea sul limes, a combattere quei germani i cui reparti scelti di cavalieri costituiranno per contrappasso la nuova guardia privata dell’imperatore, organizzata attraverso l’istituzione delle scholae palatinae che tanta fortuna avranno poi nella lunga vita di Bisanzio.
Nel febbraio dell’anno successivo, ils Costantino si mosse alla volta di Milano dove avrebbe incontrato Licinio, con il quale, stipulata un’alleanza sancita attraverso il matrimonio con la sorella Costanza, si apprestava a formalizzare la divisione dell’impero riservando a sé il dominio sull’Occidente e riconoscendo all’altro quello sull’Oriente.
Fu in tale circostanza che vide la luce quello che molto impropriamente è stato definito come l’editto di Milano e altrettanto confusamente indicato come il dispositivo attraverso il quale entrambi gli augusti sancivano una nuova politica di tolleranza nei confronti dei cristiani.
Piuttosto, si trattò della riconferma di quanto sancito nel documento di Galerio del 311, con il quale era stato definitivamente posto termine alle persecuzioni, con conseguente emanazione di precise disposizioni rivolte ai governatori delle province affinché applicassero quanto lì stabilito. E cioè che, dopo aver valutato come prioritario per «la tranquillità comune e pubblica» l’interesse alla pace religiosa, si riconfermava l’obbligo che «fosse assicurato il rispetto e la venerazione della divinità» qualunque essa fosse, per tutti e in particolare per i cristiani, «in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia» per gli augusti e per tutti coloro che vivevano sotto la loro autorità. Alla base era dunque l’idea per cui la libertà religiosa, come divieto di alcun impedimento in materia di coscienza, fosse funzionale al mantenimento della pace religiosa; quest’ultima, a sua volta, era vista come condizione necessaria per la pace politica e la conservazione dell’unità dello Stato, che era e rimaneva il fine ultimo e supremo; fu, pertanto, Galerio, e non Costantino, il primo imoperatore che dette diritto di cittadinanza al cristianesimo.
Costantino già nel mese precedente aveva ordinato la restituzione alle chiese dei beni confiscati durante le persecuzioni e aveva elargito al clero esenzioni, privilegi e favori. Fu in tale ambito che nacque quel falso che passerà alla storia come “Donazione di Costantino”, secondo la quale l’imperatore avrebbe concesso all’allora vescovo di Roma Silvestro il primato sulle chiese patriarcali orientali e soprattutto la giurisdizione civile sulla città di Roma, sull’Italia e sull’impero romano d’Occidente. Il documento verrà riconosciuto come un falso dal filologo Lorenzo Valla nel 1440, e considerato redatto piuttosto intorno al VII o l’VIII secolo; ma nel Medioevo esso ebbe il potere di “giustificare” le pretese temporali della Chiesa, le cui conseguenze per più di un verso scontiamo ancora oggi.
Licinio intanto non se ne stava con le mani in mano e già nell’aprile del 313 pensò che fosse giunto il momento di risolvere le questioni in casa eliminando l’altro contendente ancora rimasto in lizza, ovvero Massimino Daia, che venne raggiunto, sconfitto e costretto a rifugiarsi a Tarso dove morì di malattia poco dopo. Ora finalmente poteva attuarsi la diarchia prospettata a Milano dai due augusti superstiti e vincitori. Licinio, che non voleva essere da meno dell’omologo, già nel giugno del 313 emanava un rescritto con cui, confermando il provvedimento di Galerio e preso atto che in alcuni casi i diritti lì sanciti non erano stati rispettati, mostrava l’intento di attuare in Oriente la medesima risoluzione prospettata da Costantino in Occidente.
Fu evidente dunque che l’ambito religioso non era altro che l’ennesimo terreno di scontro. Entrambi ambiziosi e inorgogliti dalle vittorie riportate, aspettavano solo il momento di prendersi tutto. Lo si vide subito dalle prime schermaglie a partire dalla primavera del 314. Costantino manifestò l’intenzione di nominare cesare l’altro suo cognato Bassiano, marito della sorellastra Anastasia, affidandogli il governo dell’Illirico. Licinio però istigò Bassiano alla ribellione, costringendo Costantino a reprimerla, condannare a morte il traditore e muovere contro Licinio stesso, sconfiggendolo a Cibalis in Pannonia l’8 ottobre 314. Licinio riparò a Sirmio, poi in Tracia, dove dichiarò Costantino decaduto dall’impero, nominando in sua vece Augusto per l’Occidente Aurelio Valerio Valente. Una seconda battaglia fu combattuta nel novembre 314 a Campus Mardiensis (Castra Iarba presso l’odierna Harmanlii) sulla strada che conduceva da Adrianopoli a Filippopoli; essa si concluse con la ritirata di Licinio verso il Danubio.
Costantino acconsentì a trattare la pace, che fu conclusa a condizione che l’Illirico passasse nelle sue mani e che Valente fosse deposto o ucciso (sic!). Per dimostrare almeno esteriormente quell’unità dell’impero che sostanzialmente scricchiolava paurosamente, i due accettarono la carica di consoli per il 315 e, fatto ancor più sostanziale, il 1° marzo 317 furono nominati cesari e quindi implicitamente dichiarati eredi al trono i due figli di Costantino, Crispo e Costantino (il primo nato da Minervina, l’altro da Fausta), e il figlio illegittimo di Licinio, Licinio Liciniano.
Si assistette così a una sorta di alternanza che vide Licinio e Crispo consoli nel 318, mentre l’anno successivo fu la volta di Costantino e Liciniano. A partire dal 320 anche questa pallida forma di “convivenza” scomparve: Costantino e il figlio omonimo ressero il consolato per quell’anno e quello seguente, mentre nel 322 i due consoli nominati da Costantino in Occidente, ovvero Petronio Probiano e Amnio Anicio Giuliano, non furono riconosciuti da Licinio, che avocò a sé e al proprio figlio la nomina.
Nel frattempo Costantino si preoccupava di di difendere il confine: nel 320 il figlio Crispo riportò una vittoria sui franchi, mentre lui stesso nel 322 respinse un’invasione dei sarmati nella Pannonia orientale, li inseguì oltre il Danubio e riportò da questa campagna molti prigionieri e ricche prede. L’anno seguente i goti invasero la Tracia, che sebbene ricadesse sotto la giurisdizione di Licinio non poteva contare sul suo sostegno, considerato che al momento questi era troppo distante per intervenire efficacemente: Costantino, che si trovava a Tessalonica intento a predisporre una flotta per ogni eventualità, respinse egli stesso l’invasione.
Licinio lesse nell’azione una pretesa violazione dei confini, che gli offriva lo spunto per dichiarare guerra al collega, nella primavera del 324. Ad aggravare i rapporti fra i due imperatori aveva certamente contribuito l’atteggiamento ostile adottato da Licinio contro i cristiani negli ultimi anni, proprio quando Costantino mostrava invece di legarsi a loro. Si giunse così allo scontro che il 3 luglio del 324 si combatté in Tracia presso Adrianopoli, attuale Edirne. Secondo Zosimo, Licinio si era accampato su un monte che sovrastava la piana bagnata dall’Ebro, godendo quindi di un’ottima posizione strategica dalla quale contemplava una flotta di 350 triremi ormeggiata lungo il corso del fiume, alla quale si aggiungevano 150.000 fanti e 15.000 cavalieri.
Costantino, partito dal Pireo, raggiunse la foce dell’Ebro con una flotta di 200 navi da guerra e 2000 da carico, seguita da oltre 120.000 fanti e 10.000 tra marinai e cavalleria. I due eserciti si fronteggiarono per parecchi giorni, finché Costantino ruppe gli indugi, ricorrendo a uno stratagemma motivato dall'osservazione come, in un certo tratto, il fiume che lo separava dal nemico apparisse più stretto. Ordinò dunque a una parte dei suoi uomini di fingere di apprestarsi a costruire un ponte, distraendo così il nemico mentre lui, con un gruppo di armati, si attestava su un monte vicino che, ricco di vegetazione, copriva le sue manovre.
Da lì, piombò sull’avversario attraverso il guado che aveva precedentemente individuato, in un’azione così repentina da cogliere alla sprovvista le forze di Licinio, che finirono presto in rotta, lasciando sul campo ben 34.000 caduti secondo le stime di Zosimo. Con questa vittoria, tutta l’Europa romana a parte Bisanzio cadeva nelle mani di Costantino, mentre Licinio era costretto a riparare in Asia dove nominava cesare il suo magister officiorum Martiniano. Costantino si avvantaggiò ulteriormente della vittoria navale ottenuta dal figlio Crispo presso l’Ellesponto, che gli permise di lasciare un piccolo presidio e l’intera flotta a cingere d’assedio Bisanzio: lui e il suo esercito, invece, attraversarono il Ponto Eusino valendosi di piccole imbarcazioni, piombando così inaspettati in Asia Minore.
La battaglia decisiva si svolse a Crisopoli il 18 settembre del 324, tingendosi tra le altre cose di carattere religioso: Costantino combatteva sotto gli stendardi del labaro, mentre Licinio ostentava i simboli di una riscoperta paganità. Un massiccio assalto frontale condotto con veemenza dai veterani di Costantino mise in fuga le truppe di Licinio. Quando poco dopo anche Bisanzio si arrendeva, Licinio, riparato a Nicomedia, dovette riconoscere il trionfo di Costantino, deporre il potere insieme con Martiniano e accontentarsi di aver salva la vita, grazie all’intercessione della moglie Costanza.
Quella clemenza durò poco: già l’anno successivo Licinio cominciò a intessere accordi coi barbari del Danubio e, una volta scoperto, fu accusato di alto tradimento e condannato a morte.
Finalmente l’impero aveva un unico capo, il quale dimostrò da subito di avere le idee chiare. Neanche fece in tempo a cingere l’alloro che già l’anno successivo, nel 325, Costantino interveniva nel famoso concilio di Nicea, determinando il destino della Chiesa e, con esso, quello dell’intero Occidente.
Occorre fare un passo indietro e ricordare che nel 313 una legge da lui promossa salvaguardava i sacerdoti della chiesa cattolica dalle ingiurie degli eretici. Seguiva due anni dopo un ulteriore provvedimento, che minacciava di gravi pene gli ebrei che avessero perseguitato i loro correligionari che si fossero convertiti ad Dei cultum. Ancora: il 21 marzo 315 o 316 Costantino (insieme a Licinio) proibì di marchiare a fuoco le persone sul volto, dando valore di legge alle seguenti parole: «Se qualcuno sarà stato condannato al carcere o alle miniere per la gravità dei crimini di cui è colpevole, non venga marchiato sul volto, mentre sarà possibile che una volta sola la pena possa comportare un marchio sulle mani o sulle gambe. Questo affinché il volto, che è stato fatto a somiglianza della bellezza celeste, non venga sfigurato».
Altre prove di una vicinanza di Costantino al cristianesimo furono le due leggi del 319, l’una mirata a concedere ai sacerdoti cristiani speciali immunità, e l’altra, conservata nel successivo Codex Theodosianus, nella quale veniva proibita l’arte divinatoria nelle case private, pena il rogo per l’aruspice e per chi l’aveva invitato. Nel 321 permise di far testamento a favore delle chiese cattoliche e nello stesso anno dichiarò la domenica giorno festivo a tutti gli effetti. Ancora nel 323 minacciò di gravi pene chi avesse obbligato i cristiani a celebrare cerimonie pagane.
Tutte queste risoluzioni, dunque, lascerebbero supporre che la conversione costantiniana fosse sincera e indiscutibile. In realtà, fatti salvi i dubbi espressi in precedenza, resto convinto che la sua adesione fosse strumentale, ispirata all’idea della religione come instrumentum regni e della Chiesa come garante e fondamento dell’ordine sociale e politico, avviando una prassi che caratterizzerà tutta la storia dell’Occidente: sostituendo gli dèi dell’Olimpo con il Dio di Cristo, la svolta costantiniana ebbe in sé le premesse di una riduzione della fede cristiana a legge morale e, quindi, a religione civile, inaugurando l’ambigua contaminazione tra croce e spada.
Lo si vide nettamente quando, subito dopo la battaglia di Ponte Milvio, divenuto padrone, tra gli altri territori, dell’Africa, dovette affrontare lo scisma donatista che stava lacerando la chiesa di quell’area. Per sintetizzare estremamente la vicenda, Costantino non ebbe dubbi a schierarsi con la parte della chiesa ritenuta funzionale ai propri propositi, quella cioè che si scagliava contro i seguaci di Donato di Case Nere, il vescovo di Numidia che, all’indomani delle persecuzioni dioclezianee non aveva perdonato ai lapsi, ovvero a coloro che erano rientrati in seno al cristianesimo dopo averlo abbandonato per salvarsi dalla furia imperiale, il loro mancato martirio.
Troppo eversivi, i donatisti, per essere tollerati da chi prospettava una pace sociale, troppo intransigenti, nel loro radicalismo che subordinava l’efficacia del battesimo e dell’ordine sacro alla dignità di chi li amministrava, e che si spinsero addirittura a professare l’obiezione di coscienza, minando attraverso la saldezza dell’esercito imperiale. Pur non potendo tollerare manifestazioni così estreme, Costantino si limitò a supervisionare il concilio con cui ad Arles la parte “sana” del cristianesimo reagiva con la scomunica della frangia ormai considerata eretica, preoccupandosi poi tra il 317 e il 321 di scatenare una campagna repressiva contro i donatisti e i loro sostenitori, espropriandone le chiese ed esiliandone i capi.
Ma se fino a quel momento era stato spettatore attento, con il concilio di Nicea dal quale sono partito, l’imperatore compì il salto di qualità che lo rese protagonista assoluto. Fu sostanzialmente lui a imboccare e pilotare il vescovo di Alessandria Alessandro e il suo segretario Atanasio nella disputa che li opponeva al vescovo Ario, il quale negava che in Cristo potessero convivere la doppia natura divina e umana, riconoscendogli solo quest’ultima.
Costantino non solo ottenne la sconfessione delle tesi ariane, ma riuscì addirittura a porre il suo sigillo su un Credo nel quale il Dio che vi era professato, indivisibile nella sua doppia natura divina e umana, diventava funzionale e speculare al potere dell’imperatore, che di quel dualismo diventava manifestazione evidente; con buona pace dell’autonomia ecclesiastica, che sceglieva di soffocare i suoi afflati vitali e a sua libertà per divenire de facto Chiesa di Stato, comprendendo come attraverso quel “sacrificio” si sarebbe garantita un futuro millenario.
Che l’interesse dogmatico di Costantino fosse tutt’altro che genuino lo dimostrò il fatto che non troppo tempo dopo, le imprese del patriarca Alessandro e molto più quelle del suo successore Atanasio, ovvero gli esponenti della riconosciuta ortodossia ecclesiastica, furono tali da indurre l’imperatore a ricredersi delle sue scelte e ad appoggiare il partito di Ario, tanto che quando accetterà in punto di morte il battesimo, Costantino lo farà attraverso la mano benedicente del vescovo Eusebio di Nicomedia, un ariano.
Ma intanto, il cattolicesimo si avviava a diventare la confessione fondamentale del cristianesimo e Costantino, magari suo malgrado, verrà ricordato come uno dei suoi padri fondatori. Eppure, come abbiamo visto, appena l’anno successivo al concilio, ovvero il 326, inscenava la tragedia euripidea e il bagno di sangue con cui decimava moglie e figlio. Quindi ripartiva per Roma, dove avrebbe celebrato i ventennali del suo regno. Ma la città, ancora fortemente pagana, non apprezzò il coinvolgimento dell’imperatore nelle questioni cristiane, e sembra che i festeggiamenti non siano andati a buon fine; anzi, l’insoddisfazione fu talmente alta da trasformarsi in tumulti e aperte contestazioni.
Deve essere stato in quel frangente che Costantino maturò definitivamente l’idea di “abbandonare” Roma e costruirsi una capitale a propria somiglianza. Dapprima aveva pensato a ricostruire l’antica Troia, poi la sua scelta cadde su Bisanzio, per le sue qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini orientali e danubiani.
Oltre a ciò, furono diverse altre le ragioni che lo spinsero a quella soluzione: anzitutto l’ambizione di legare il proprio nome a un imperituro monumento della sua gloria; in secondo luogo la considerazione che la posizione di Roma non sembrava più opportuna, date le mutate condizioni dell’impero. Già Diocleziano aveva svalutato l’antica capitale, stabilendo la sua residenza a Nicomedia; e nella stessa Italia a più riprese si era data un’importanza sempre maggiore a Milano. In terzo luogo, per un imperatore cristiano, quale sempre più si manifestava Costantino, Roma rappresentava pur sempre la città del paganesimo.
La prima pietra della nuova residenza imperiale, che prese il nome di Costantinopoli, fu posta il 26 novembre 326, mentre l’inaugurazione solenne si svolse l’11 maggio 330. La città divenne da allora in poi la dimora di Costantino; fu da lì che emanò gran parte delle riforme amministrative, monetarie e militari che oltre a tutte le imprese sin qui menzionate fecero dell’imperatore il personaggio eccezionale che fu.
Costantino si preoccupò di integrare e perfezionare l’opera dioclezianea, sostituendo al sistema di designazione e di adozione per la successione al trono, un sistema dinastico.
Persuaso che la via dinastica fosse la sola percorribile, procedette nello stesso anno a una ripartizione del territorio dell’impero tra i suoi tre figli, Costantino, Costanzo (creato cesare nel 323 o nel 324) e Costante (creato cesare nel 333) e i suoi nipoti Dalmazio e Annibaliano. Assegnò quindi a Costantino la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Illirico, l’Italia e l’Africa, a Dalmazio (creato cesare nel 335) la Tracia, la Macedonia e l’Acaia: infine ad Annibaliano, che aveva sposato sua figlia Costanza, offrì il Ponto e l’Armenia, col titolo di rex regum Ponti.
Nonostante il ritorno al sistema tetrarchico di Diocleziano (dato che a quattro soli dei suoi eredi era stato attribuito il titolo di cesare), Costantino riservò a sé la suprema direzione degli affari dello Stato e la sorveglianza dei giovani principi.
Costantino istituì una nuova nobiltà di corte offrendo ai personaggi più eminenti del suo impero il titolo di patrizio, che non avendo più nulla a che fare con l’antico status romano attribuiva a chi ne era insignito una specie di parentela col sovrano. Nella stessa ottica, acquisiva un’importanza sempre maggiore il servizio personale dell’imperatore compendiato da quel momento in poi nella designazione di cubiculum. Il capo degli eunuchi di corte otteneva così il titolo di praepositus sacri cubiculi e diventò a Costantinopoli un personaggio molto autorevole specialmente in seguito, con Teodosio: da lui dipendeva il primicerius sacri cubiculi, sovrintendente del personale di servizio e dei trenta silentiarii addetti a mantenere l’ordine e il silenzio intorno al sovrano. L’antico consilium principis prese il nome di sacrum consistorium, i cui componenti restavano permanentemente in carica assumendo la carica di comites, titolo che prima di Costantino designava i compagni di viaggio e di guerra dell’imperatore; da comites deriva il titolo nobiliare di Conte.
La direzione del consistorium fu affidata a un nuovo dignitario, il quaestor sacri palatii, vero e proprio fiduciario dell’imperatore, mentre il servizio di segreteria fu affidato ai notarii che formarono una schola, ovvero un vero e proprio corpo organizzato il cui capo diventava il primicerius notariorum. La rivoluzione burocratica di Costantino previde inoltre l’istituzione di un’altra carica destinata a ricoprire un ruolo di primissimo piano: quella del magister officiorum,.
Costui aveva il compito di vigilare l’organizzazione dei praefecti praetorio e di controllare tutta l’amministrazione statale, e aveva il diretto il controllo delle scholae palatinae e delle scholae agentium in rebus, addette al servizio di polizia e della trasmissione degli ordini imperiali ed esercitavano anche funzioni di spionaggio.
Costantino pose mano anche nell’organizzazione dell’impero in diocesi voluta da Diocleziano, le raccolse in prefetture rette dai prefetti del pretorio e le ridusse a tre: Italia, Gallia e Oriente. Pur limitando il raggio d’azione dei prefetti all’ambito civile e politico, privandoli dunque di ogni residua prerogativa militare, l’imperatore concesse a costoro un discreto potere tra cui, oltre all’amministrazione suprema della giustizia e delle finanze, spiccava il carattere di inappellabilità delle sentenze da essi formulate; non poteva metterle in discussione neppure il sovrano.
La sistemazione dell’apparato burocratico, secondo il Gibbon, rappresentò una vera e propria iattura: lo storico inglese denuncia particolarmente l’impaludamento amministrativo determinato dalla moltiplicazione di cariche fino ad allora inesistenti, tale da creare un controllo farraginoso e vessatorio (per non dire spionistico) su tutte le province dell’impero. Il giudizio di Gibbon non fu tenero neppure in merito alla riforma militare che Costantino contestualmente pose in essere, considerandola anzi una delle cause maggiori del successivo disgregamento dell’impero, inaugurato con la nomina di barbari ai vertici dell’esercito.
Il supremo comando rimase affidato all’imperatore, dal quale dipendevano il comandante in capo della fanteria (magister peditum) e il comandante in capo della cavalleria (magister equitum): i due uffici potevano essere attribuiti a una sola persona, che diveniva in quel caso magister utriusque militiae. Avendo privato i vicarii delle diocesi e i praesides o consulares delle province delle prerogative militari, queste furono affidati ai duces, i quali non si comprende bene se rispondessero direttamente all’imperatore o a uno dei due magistri menzionati.
Costantino plasmò anche il corpo dell’esercito. Questo fu diviso in due macrostrutture che prevedevano la distinzione tra truppe dedite al controllo del confine, denominate appunto limitanei, e armate di movimento denominate comitatensis. Mentre le prime furono sostanzialmente lasciate “ai margini”, con paghe ridotte e armamenti inadeguati, Costantino potenziò enormemente le seconde, utilizzate soprattutto come deterrente contro qualsiasi tentativo di usurpazione. Ciò fu ottenuto tramite l’aggregazione di unità ritirate dalle province di frontiera, oppure mediante la creazione di nuove unità a cui si sommavano più vexillationes di cavalleria e nuove unità di fanteria chiamate auxilia. A parte, c’erano naturalmente le scholae palatinae, che divennero l’élite indiscutibile dell’intero apparato.
Indipendentemente dai giudizi negativi, Costantino si dotava di un formidabile strumento di intervento militare, con cui sia lui che i suoi figli poterono fronteggiare le minacce che costantemente premevano dall’esterno. Fu così che nel 332, in compagnia del sedicenne Costantino II, l’imperatore si mosse contro i goti che avevano osato molestare i sarmati, ormai alleati dell’impero, invadendo prima i loro territori e poi le stesse province imperiali balcaniche. Sconfitti nei pressi dell’odierna Varna, i goti non solo scontarono la morte di 100.000 soldati ma furono così costretti a impetrare la pace fornendo alcuni ostaggi a garanzia, tra cui Ariarico, figlio del loro re. Il fattore rilevante fu che i goti accettarono un trattato in cui essi stessi si legarono all’impero come federati, impegnandosi a difenderne i confini e a fornire come ausiliaria ben 40.000 armati.
Ciò dimostrò come sotto Costantino, che tra le sue indubbie doti poteva sfoggiare anche un’invidiabile attitudine guerresca, la politica militare romana, piuttosto asfittica negli ultimi anni, risultò piuttosto rinvigorita dalle iniziative dell’imperatore, al punto da esercitare di nuovo un’ascendenza considerevole nei barbari d’oltre frontiera. A differenza di Diocleziano che, preoccupandosi di concentrare sul limes la maggior parte delle truppe, raggiungendo l’apice di quella cultura difensivista inaugurata da Augusto, Costantino, sganciando e liberando dai compiti sedentari le truppe migliori, costituirà le premesse per una salvaguardia dei confini più elastica e reattiva, che risulterà vincente almeno fino al periodo di Valentiniano, ovvero per una trentina d’anni.
Intanto, l’imperatore intascava per la seconda volta il titolo vittorioso di Gothicus maximus e quello di Debellatori gentium barbararum, mentre la monetazione del 332 e 333 celebrò la Gothia e la Sarmatia quasi fossero diventate nuove province romane. Proprio in seguito a questi eventi Costantino potrebbe aver dato inizio alla costruzione del nuovo tratto di limes, il cosiddetto Novac (in romeno il “solco di Novac”), che correva parallelo al corso del basso Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fino al fiume Siret, inglobandone i territori nuovamente “riconquistati” alla causa romana. Non a caso, infatti, Aurelio Vittore racconta che oltre al ponte già costruito sul Danubio nel 328, si edificarono nell’area numerosi forti e fortini in diverse località, posti a protezione dei confini imperiali.
Due anni più tardi, nel 334, Costantino era di nuovo da quelle parti, stavolta per sanare un conflitto scoppiato all’interno dei sarmati in cui si fronteggiarono le due fazioni dei Limigantes e degli Argaragantes, come a dire gli schiavi contro i padroni, che per una volta ne uscirono con le ossa rotte. Piuttosto che un intervento militare si trattò di gestire l’enorme massa di sfollati argaragantes scacciati dal Banato i quali, non meno di 300.000, furono dirottati verso le regioni più spopolate della penisola balcanica e dell’Italia.
Costantino trovò anche il tempo di mettere mano a una poderosa riforma monetaria, introducendo una nuova moneta d’oro chiamata solidus, dal peso di 4,48 grammi, per far fronte alla penuria aurea. Sulla base di essa, il vecchio aureo andava in pensione, mentre il follis d’argento, ormai deprezzato, veniva sostituito dalla siliqua, che aveva il valore di 1/24 di solidus. La benemerita iniziativa, che avrà effetti duraturi per svariati secoli rimanendo invariata sotto l’impero bizantino, servì piuttosto a fornire una base solida alla preponderante fiscalizzazione attraverso la quale Costantino non solo poteva permettersi spese folli nell’abbellimento della nuova capitale.
Di riflesso, la riforma monetaria ebbe l'effetto collaterale di impoverire ulteriormente coloro che, non avendo accesso alla nuova moneta, subivano gli effetti nefasti dell’inflazione causata dalla svalutazione delle altre monete (non più tutelate dallo Stato) al cospetto del solidus, scivolando in un baratro che li distanziava sempre più dalle classi agiate. La rabbia del popolo fu registrata dall’Epitome de Caesaribus, in cui il giudizio su Costantino subiva una vertiginosa caduta espressa nella seguente analisi: «per dieci anni eccellente, nei dodici anni successivi predone».
Sapore II , salito nel 337 sul trono persiano dopo aspri e sanguinosi contrasti, si rivelò un sovrano audace e ambizioso che ebbe l’ardire di inviare un’ambasciata all’imperatore con la quale richiedeva la restituzione delle cinque province sul Tigri, quelle che i persiani avevano dovuto cedere all’impero dopo la vittoria di Galerio su re Narsete nel 297. La risposta fu la preparazione immediata della guerra.
Fu l’ultimo progetto che Costantino accarezzò: ammalatosi improvvisamente, sperò di trovare ristoro nei bagni caldi di Nicomedia, ma le sue condizioni peggiorarono finché il 22 maggio 337 morì nei pressi di Ancirone, un sobborgo della città eletta come suo ricovero. La sua salma fu trasportata a Costantinopoli dove fu sepolta nella chiesa dei Santi Apostoli, da lui stesso fatta costruire allo scopo.
I suoi discendenti non fecero neppure in tempo a sigillare la splendida bara di porfido rosso che già organizzavano una strage destinata a decimare gran parte dei membri della famiglia. Fu allora chiaro a tutti quale fosse il retaggio più vincolante lasciato da Costantino: un’inestinguibile sete di sangue.
Eugenio Caruso
- 21 dicembre 2017