Gli imperi vengono e vanno. Nel 1884, l’impero britannico era così dominante da far diventare il meridiano di Greenwich l’orologio del mondo. Questa decisione causò l’irritazione di Parigi, storica rivale di Londra; ma fu resa più o meno inevitabile dal dominio marittimo della Gran Bretagna di allora. Più di un secolo dopo, Greenwich rimane lo standard su cui si allineano le lancette di tutti i paesi del mondo. Ma la Gran Bretagna ha perduto la sua grandezza. Lo stesso è accaduto all’impero zarista o all’impero ottomano. E recentemente, al XIX Congresso del Partito comunista, il leader dell’ex Impero di Mezzo, la Cina, ha dovuto promettere che il suo paese tornerà all’antica gloria nel giro di pochi decenni.
Gli storici contemporanei, da Paul Kennedy a Niall Ferguson, hanno dimostrato che questo ciclo – l’ascesa e il declino delle nazioni imperiali – si ripete a tutte le latitudini. Ma hanno forse trascurato quello che colpisce oggi: un Impero può anche dissolversi, anzi ciclicamente si dissolve. Ma la sua eredità resta potente sul piano emotivo. Nei paesi ex imperiali, la nostalgia – il rimpianto di ciò che era e non è più – sta diventando un elemento fondante della politica interna. E quindi delle relazioni internazionali.
Quando Xi Jinping e Donald Trump si incontrano a Pechino, entra
in gioco il rapporto fra l’Impero di Mezzo ritrovato e l’”America
First”, erede un po’ arrogante ma anche riluttante di più di mezzo
secolo di Pax americana. In condizioni del genere, competizione e cooperazione coesistono;
per quanto Donald Trump possa insistere sulla riduzione del deficit
commerciale con la Cina, la verità è che l’integrazione economica
crea anche un interesse a limitare il conflitto. Nazionalismo nostalgico
e globalizzazione si giocano insomma la loro partita, producendo
un precario equilibrio.
Prendiamo un altro esempio importante, la Gran Bretagna. Sarebbe
quasi impossibile capire il dibattito su Brexit senza tenere conto che
la perdita dell’Impero resta un trauma nazionale non dichiarato,
Freud direbbe rimosso. I britannici sembrano ancora immersi nel
limbo denunciato con chiarezza da Dean Acheson, segretario di Stato
americano, nel 1962: “La Gran Bretagna ha perso un impero e
non ha ancora trovato un ruolo”. Per chi ha perso un impero proprio,
è difficile accettare di diventare parte di un impero altro, come potrebbe
essere definita, in forme sui generis, l’Unione Europea. E in
effetti, il ruolo della Gran Bretagna nell’UE è sempre stato contrastato,
sia da parte inglese che europea: in uno dei passaggi migliori
del suo discorso a Firenze su Brexit, il primo ministro Theresa May
ha ammesso che questo senso di estraneità fra l’isola e il continente
non si è mai dissolto del tutto. Anche perché l’ambizione britannica
rimane quella di sempre: restare al comando del proprio destino.
Magari, come dichiarato con ingenuità dai “Brexiteers”, costruendo
relazioni commerciali da “Impero 2.0”. Un futuro immaginario, in
nome della nostalgia del passato e di un’inclinazione imperiale qua-
si congenita. Come disse Franklin Delano Roosevelt al suo amico
Winston Churchill: “I britannici si impossesserebbero di qualunque
tipo di terra, anche di uno scoglio o di una striscia di sabbia. Avete
400 anni di istinto espansionistico nel vostro sangue.”
La peculiarità dei nostri tempi, tuttavia, è che la Gran Bretagna non
è un’eccezione o il sintomo più estremo di questa sindrome della politica
contemporanea. Pochi paesi appaiono immuni all’ascesa di
leader che fanno appello alla gloria nazionale passata; che coltivano
e usano volutamente la nostalgia, insomma, per guadagnare
consenso. Si va appunto dagli slogan alla Trump (“Make America
Great Again”), ai disegni di Xi Jinping sulla riaffermazione della
potenza cinese, alle rivendicazioni di Vladimir Putin nell’ex sfera di
influenza dell’impero russo e sovietico, alle ambizioni neoottomane
di Recep Tayyip Erdogan. O si pensi a tutti quei movimenti nazionalistici
che popolano l’Europa e si richiamano a un’età dell’oro, quando
l’omogeneità etnico-religiosa era dominante. Sembra l’epoca del
nazionalismo nostalgico.
Richiami al passato, più o
meno espliciti, da parte di politici ambiziosi non sono certo una novità.
Ma oggi possono fare leva su una vera e propria epidemia di
nostalgia, che tende a idealizzare il passato, considerandolo per
molti versi migliore del presente. Le ragioni sono in parte socioeconomiche:
la percezione secondo cui si “stava meglio prima” è chiaramente
diffusa nella classe media occidentale, come risultato della
crisi finanziaria del 2008. Ma vi sono numerosi fattori di natura
strutturale che rischiano di rendere il fenomeno del nazionalismo
nostalgico qualcosa di permanente.
Consideriamo, anzitutto, il peso della demografia. La popolazione
che invecchia – fenomeno che comincia a coinvolgere dopo l’Occidente
anche le nuove potenze economiche, Cina per prima – è più
vulnerabile al rimpianto del passato. Studi scientifici hanno dimostrato
che passata la soglia della mezza età si tende a essere più
esposti al cosiddetto “reminiscence bump” – la tendenza a dare sempre
più peso ai ricordi della propria giovinezza. Non è un caso che,
secondo il Public Religion Research Institute, oltre il 50% della popolazione
americana pensi che lo standard di vita americano sia
peggiorato dagli anni Cinquanta a oggi. Un risultato abbastanza
simile, riportato da YouGov, lo si riscontra anche nel Regno Unito,
dove il 43% della popolazione pensa che si stesse meglio ai tempi
dell’ascesa al trono della regina Elisabetta, nel 1962.
Vi è, in molti casi, la nostalgia dovuta alla perdita del proprio
status globale, a fronte di un sistema internazionale ormai quasi
“apolare”. Prendiamo il caso della Turchia: il referendum costituzionale
tenutosi nel 2017, che ha considerevolmente aumentato il
potere del presidente, ha di fatto introdotto una sorta di neosultanato,
permettendo a Erdogan di rimanere potenzialmente in carica
fino al 2029. Secondo alcuni commentatori, l’allontanamento di
Ankara dalla democratizzazione di stampo occidentale trae ispirazione
dal tardo impero ottomano sotto la guida di Abdulhamid II,
che governò per più di trent’anni a cavallo tra fine Ottocento e
inizio Novecento. Guardando invece verso il “vicino estero” che separa
l’Europa e la Russia, una recente ricerca del Pew Research
Institute ritiene che esista ormai, insieme alla russofobia, anche un
diffuso sostegno per “una Russia forte”, che faccia da contrappeso
all’influenza dell’Occidente.
Infine, il ritmo sostenuto e accelerato dell’innovazione tecnologica
gioca un peso indubbio come alimento continuo di ansia nostalgica.
Il progresso tecnologico non si
muove più su un percorso lineare, ma piuttosto su uno esponenziale,
cogliendo impreparati i decisori politici e spiazzando i lavoratori
che faticano ad adattarsi. Ogni rivoluzione industriale ha impiegato
meno anni per sprigionare i propri effetti rispetto a quella precedente.
Secondo il futurista Ray Kurzweil, gli anni compresi tra il
2000 e il 2014 hanno registrato progressi equivalenti a quelli
dell’intero ventesimo secolo. Uno studio ampiamente citato dell’Università
di Oxford sottolinea che il 47% dell’occupazione negli
Stati Uniti è a rischio di automazione. Il Fondo monetario internazionale
ha recentemente sostenuto che circa la metà dei lavori distrutti
negli ultimi quattro decenni può essere ricondotta all’impatto
della tecnologia, mentre solo un quarto è dovuto alla globalizzazione.
Chi stenta a stare al passo con le nuove tecnologie chiederà in
modo sempre più insistente ai propri rappresentanti politici di prendere
le loro difese.
La nostalgia, oltre che essere una risposta
comprensibile all’impatto “spiazzante” degli sviluppi tecnologici
e della globalizzazione, può assumere forme per così dire “benigne”:
la consapevolezza della propria storia ha il sapore della rassicurazione.
E una forte coscienza nazionale è un fondamento decisivo
per la solidità di una comunità. Vale ancora la frase di Vladimir
Nabokov: “One is always at home in one’s past” (si è sempre a casa
nel proprio passato). E tuttavia molto più spesso – nonostante la sua
aurea romantica – la nostalgia, ossia il dolore del ritorno nella sua
etimologia greca, finisce per diventare una patologia; che andrebbe
quindi considerata come tale. Del resto, proprio con questo significato
il termine nostalgia venne introdotto nel XVII secolo dal medico
Johannes Hofer, il quale elaborò il concetto constatando le sofferenze
dei mercenari svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV, costretti
a stare a lungo lontani dalle loro terre.
Idealizzare il passato rappresenta un modo efficace per spingere i
cittadini a ritenere possibili facili soluzioni ai complessi problemi di
oggi, facendo leva sulle loro insicurezze. Miti di un paradiso perduto
tendono a svilupparsi secondo un rassicurante modello narrativo di
ordine/disordine/ordine. I tempi gloriosi dell’impero britannico e ottomano
hanno lasciato spazio al caos economico e politico. Solo un
ritorno alle origini può riportare alla prosperità perduta – e aiutare,
in società polarizzate, la costruzione di consenso interno.
La fine della Pax americana è resa inevitabile da un leader come
Donald Trump, che tende a sottolineare i costi delle alleanze internazionali
costruite nel dopoguerra e che ritiene che gli Stati Uniti
possano tornare all’antica grandezza solo attraverso una politica
estera chiaramente fondata sull’esclusività dei propri interessi nazionali
(America First).
Certamente, le varie forme di nazionalismo nostalgico hanno proprie
peculiarità, affondano le loro radici in contesti storici diversi e vengono
portate avanti da leader politici con personalità contrastanti e
all’interno di contesti istituzionali molto eterogenei. Qualunque generalizzazione
non renderebbe giustizia alla complessità del fenomeno.
Quel che è certo, però, è che oggi la nostalgia, anziché essere
contenuta, viene accarezzata dalla politica e sta diventando una forza trainante delle relazioni internazionali. Ciò avviene in una fase di
transizione del potere globale, per sua natura rischiosa.
Gli Stati Uniti non sembrano più avere la volontà di garantire per
tutti la stabilità del sistema internazionale emerso dalle guerre del
secolo scorso. I vecchi paesi sconfitti, grandi potenze economiche, si
muovono ormai liberamente: mentre la destra estrema fa il suo ingresso
al Bundestag, il premier giapponese Abe progetta di modificare
la Costituzione pacifista imposta dai vincitori. È la fine definitiva
del secondo dopoguerra, in Europa e in Asia. Il viaggio di Trump
nell’area che Washington definisce “Indo-Pacific” lo conferma.
Mentre il potere economico si sposta verso Est, le migrazioni modificano
i vecchi assetti Sud-Nord e gli attori non statali competono per
l’influenza globale come mai in precedenza.
La combinazione fra queste scosse tettoniche all’ordine globale e la
diffusione orizzontale di sentimenti nostalgici non può che creare
tensioni nazionali. O nazionalistiche. Tensioni crescenti e pericolose.
Nostalgia del passato o coraggio di abbracciare il presente? Su questa
scelta psicologica, in parte generazionale, democrazie occidentali
e nuove potenze autoritarie si contenderanno il futuro.
Edoardo Campanella e Marta Dassù
www.aspeninstitute.it
26 dicembre - 2017