Le scoperte scientifiche stanno superando la nostra capacità di trasformarle in farmaci utili per combattere le malattie. La soluzione non può essere affidata a un solo settore, ma deve passare per una maggior collaborazione fra industria e università: per massimizzare la comprensione del funzionamento dei nuovi farmaci, entrambi i settori devono mobilitare le proprie competenze. Solo così aumenterà la probabilità che le nuove terapie siano efficaci.
Negli ultimi 15 anni è diventato finalmente possibile scoprire sistematicamente i geni che svolgono un ruolo cruciale in una serie di patologie umane, dal cancro alle malattie autoimmuni, a quelle cardiache e perfino alla schizofrenia. I progressi in questo senso stanno accelerando grazie alla capacità dei ricercatori di individuare varianti genetiche che predispongono alle malattie, modificare il genoma nelle cellule viventi e creare modelli animali che imitino più strettamente la biologia umana. Le conoscenze così acquisite ci consentono di far luce sulle cause ultime delle malattie.
Le scoperte scientifiche stanno superando la nostra capacità di trasformarle in farmaci utili per combattere le malattie. La soluzione non può essere affidata a un solo settore, ma deve passare per una maggior collaborazione fra industria e università: per massimizzare la comprensione del funzionamento dei nuovi farmaci, entrambi i settori devono mobilitare le proprie competenze. Solo così aumenterà la probabilità che le nuove terapie siano efficaci.
Ma c’è un problema: le scoperte scientifiche stanno superando la nostra
capacità di convertirle in medicinali utili per i pazienti.
L’industria farmaceutica
è un motore potente per la scoperta di nuove terapie. Tuttavia, i suoi
sforzi si sono concentrati soprattutto su alcuni bersagli che si erano già dimostrati
raggiungibili, come ad esempio le chinasi e altri enzimi. Altri, meno
a portata di mano (come i fattori di trascrizione e le interazioni proteinaproteina)
vengono spesso considerati troppo rischiosi o costosi da raggiungere,
sebbene siano sovente fattori chiave in molte malattie.
Ma anche nel caso di bersagli più rispondenti a un trattamento farmacologico,
spesso non sappiamo come progettare strategie di intervento clinico che
incidano sulla base molecolare della malattia: per esempio, come utilizzare
la genetica per identificare i pazienti più adatti a sperimentare un farmaco
o come identificare i marcatori biologici per controllarne rapidamente l’efficacia,
soprattutto nei test di prevenzione. Per velocizzare lo sviluppo delle
terapie è necessario però che sia l’industria sia il mondo accademico – attraverso
le grandi case farmaceutiche e la finanza – modifichino il proprio
modo di pensare e di lavorare insieme.
Le risposte non possono essere fornite esclusivamente da un solo settore, ma
vanno ricercate nella collaborazione più stretta con tutti i vari partner del
settore privato.
Industria e università condividono l’obiettivo del miglioramento della salute
dei pazienti, ma attraverso competenze e prospettive complementari. Nel
mondo accademico, i nostri contributi derivano spesso dalla scoperta e
dall’innovazione precoci, basate su profonde conoscenze biologiche e non
condizionate dalla necessità di ricavare un profitto per gli investitori. L’industria
biofarmaceutica fornisce, invece, il proprio apporto attraverso la profonda esperienza nella ricerca di nuovi medicinali, l’impiego di équipe più
ampie e la capacità di effettuare sperimentazioni cliniche su larga scala.
Questo modello di interazione sì è rivelato efficace, ma appare ormai sempre
più chiaro che manca qualcosa.
I rapporti
tra il mondo accademico e quello industriale spesso assomigliano a
una corsa a staffetta in cui i corridori condividono il testimone solo per un
breve periodo di tempo prima che passi di mano.
Tuttavia per affrontare alcuni problemi biomedici, è importante che si ricorra
contemporaneamente alle competenze di entrambi i settori, trovando i
modi più adatti in cui possano estendere lo scambio di conoscenze, di tecniche
e di idee.
Una più stretta collaborazione richiede l’avvio di comuni iniziative nella
sfera della ricerca terapeutica che inizino prima e si estendano in seguito.
Le conoscenze acquisite dall’industria farmaceutica in campo clinico dovrebbero
essere tenute in considerazione sin dalle prime fasi dei progetti
accademici di ricerca farmacologica. Allo stesso modo, la scienza accademica dovrebbe accompagnare tutte le fasi del processo di introduzione dei
nuovi farmaci in campo terapeutico (per imparare il più possibile, ad esempio,
dalle sperimentazioni cliniche). Con l’obiettivo di massimizzare la
comprensione dei meccanismi di funzionamento e quindi le probabilità che
le nuove terapie saranno efficaci.
Per essere più fruttuosa, insomma, la collaborazione fra industria e università
dovrebbe:
• tendere a migliorare la salute, aprendo nuovi orizzonti anziché limitarsi
a progressi incrementali;
• partire dal presupposto che lo sviluppo dei farmaci dovrebbe essere fondato
sulla base biologica delle malattie;
• impegnarsi a condividere apertamente le conoscenze biologiche con la
comunità scientifica. È evidente che dovrebbe, al tempo stesso, proteggere
anche la proprietà intellettuale sui potenziali prodotti terapeutici, senza la
quale gli investitori non finanzierebbero mai le sperimentazioni cliniche
necessarie a dimostrarne l’efficacia.
Le istituzioni accademiche
dovrebbero selezionare con molta attenzione i propri partner industriali, e
viceversa. I loro rapporti dovrebbero basarsi su valori e competenze complementari,
sul rispetto di rigorosi principi etici e sul riconoscimento del
fatto che il settore pubblico e quello privato hanno compiti, obblighi e responsabilità
differenti. Il mondo accademico non può essere spinto dal desiderio
di profitto, ma deve mettere al primo posto l’interesse pubblico. E
l’industria, dal canto suo, non può impegnarsi oltre misura nella ricerca di
base, poiché ha l’obbligo di garantire ai propri azionisti un ritorno sugli
investimenti. Ciò non toglie, tuttavia, che vi siano aree sempre più ampie
di sovrapposizione.
Al Broad Institute, di Mit e di Harvard, abbiamo deciso di svolgere ricerche
che sono importanti dal punto di vista dei pazienti anche se la loro attrattiva
commerciale è limitata. Cerchiamo di affrontare problemi scientificamente
difficili (come ad esempio patologie senza precedenti o ritenute
incurabili) e di dedicare attenzione sia alle malattie dei paesi sviluppati che
a quelle dei paesi in via di sviluppo (comprese quelle spesso considerate
poco redditizie, come la malaria o la tubercolosi).
Nel settore privato scegliamo collaboratori che condividono il nostro orientamento
scientifico, rispettano la distinzione dei nostri compiti e sono disposti
ad assumere in modo costante gli impegni scientifici ed economici necessari
per lo sviluppo di una ricerca terapeutica ad alto rischio ma potenzialmente
molto fruttuosa.
Niente di tutto questo è facile. E spesso nemmeno i migliori progetti portano
alla scoperta di terapie efficaci.
Todd Golub è Chief Scientific Officer al Broad Institute di MIT e di Harvard.
Originariamente pubblicato il 9 ottobre 2017 (in inglese) sul sito web del Broad Institute:
www.broadinstitute.org.
www.aspeninstitute.it
27 dicembre - 2017