Tiberio valido e degno successore di Ottaviano


GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.

ARTICOLI PRECEDENTI. Sun Tzu - Alessandro Magno - Marco Aurelio- Nabucodonosor - Elisabetta I - Carlo Magno - Hammurabi - Gilgames - Sargon - San Benedetto - Cesare - Saladino - Nerone - Carlo V - Attila - Pietro il grande - Caterina di Russia - Adriano - Gengis Khan - Napoleone Bonaparte - Akhenaton - Tutanchamon - Ramsete II - Ciro il Grande - Chandragupta Maurya - Augusto - Qin Shi Huang - Traiano - Barbarossa - Kanishka I - Antonino Pio - Lucio Vero - Costantino - Diocleziano - Settimio Severo - Cocceo Nerva - Gallieno - Giustiniano - Romolo Augusto - Teodorico - Alboino -

Tiberio

GC

Dinastia Giulio-Claudia

Tiberio Giulio Cesare Augusto ( Roma, 16 novembre 42 a.C. – Miseno, 16 marzo 37) è stato il secondo imperatore romano, appartenente alla dinastia giulio-claudia, dal 14 al 37. (Dinastia giulio-claudia: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone).
Alla nascita ebbe il nome di Tiberio Claudio Nerone; fu adottato da Augusto nel 4, e il suo nome mutò in Tiberio Giulio Cesare; alla morte del padre adottivo, il 19 agosto 14, ottenne il nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto e poté succedergli ufficialmente nel ruolo di princeps, sebbene già dall'anno 12 fosse stato associato nel governo dell'impero.
In gioventù Tiberio si era distinto per il suo talento militare conducendo brillantemente numerose campagne lungo i confini settentrionali dell'Impero e in Illirico. Dopo un periododi volontario esilio sull'isola di Rodi, rientrò a Roma nel 2 e condusse altre spedizioni in Illirico e in Germania, dove pose rimedio alle conseguenze della battaglia di Teutoburgo. Asceso al trono, operò molte importanti riforme in ambito economico e politico, e pose fine alla politica di espansione militare, limitandosi a mantenere sicuri i confini grazie anche all'opera del nipote Germanico Giulio Cesare. Dopo la morte di quest'ultimo, Tiberio favorì sempre più l'ascesa del prefetto del pretorio Seiano, allontanandosi da Roma per ritirarsi nell'isola di Capri. Quando il prefetto mostrò di volersi impadronire del potere assoluto, Tiberio lo fece destituire e uccidere.
La tradizione storiografica antica, rappresentata in primo luogo da Svetonio e Tacito, spesso dimentica le imprese militari che Tiberio aveva compiuto sotto Augusto e i provvedimenti politici che aveva preso nel primo periodo del suo principato, registrando invece tutte le critiche e le calunnie che i nemici riversarono su Tiberio, e fornendone dunque una descrizione fondamentalmente negativa. Tiberio, d'altro canto, non si adoperò per allontanare da lui critiche e sospetti, probabilmente infondati, a causa della sua personalità chiusa, malinconica e sospettosa. Egli, tuttavia, riuscì a impedire, con il suo governo fermo, ordinato e rispettoso delle regole poste da Augusto, che l'opera di quest'ultimo avesse un carattere di provvisorietà e andasse perduta.
Egli, infatti, riuscì nel corso del suo regno a dare quella continuità indispensabile al sistema del principato, ed evitare che la situazione degenerasse in nuove guerre civili, rimettendo ancora tutto in discussione e modificando nuovamente il modo di governare Roma e le sue province, come era accaduto ai tempi delle guerre civili tra Mario e Silla, Cesare e Pompeo e Antonio ed Ottaviano.
Tiberio nacque a Roma il 16 novembre del 42 a.C. dall'omonimo Tiberio Claudio Nerone, cesariano, pretore nello stesso anno, e da Livia Drusilla, di circa trent'anni più giovane del marito. Tanto dal ramo paterno che da quello materno apparteneva alla gens Claudia, un'antica famiglia patrizia giunta a Roma dalla Sabina nei primi anni della repubblica e distintasi nel corso dei secoli per il raggiungimento di numerosi onori e alte magistrature. Fin dall'origine, la gens Claudia si era divisa in numerose famiglie, tra le quali si distinse quella che assunse il cognomen Nero (Nerone, che in lingua sabina significa "forte e valoroso"), a cui apparteneva Tiberio. Egli poteva dunque dirsi membro di una stirpe che aveva dato alla luce personalità di altissimo rilievo.
Il padre era stato tra i più ferventi sostenitori di Gaio Giulio Cesare e, dopo la sua morte, si era schierato dalla parte di Marco Antonio, luogotenente di Cesare in Gallia, entrando in contrasto con Ottaviano, erede designato da Cesare. Dopo la costituzione del secondo triumvirato tra Ottaviano, Antonio e Lepido e le conseguenti proscrizioni, i contrasti tra i sostenitori di Ottaviano e quelli di Antonio si concretizzarono in una situazione di conflitto, ma il padre di Tiberio continuò ad appoggiare l'ex luogotenente di Cesare. Allo scoppio del bellum Perusinum, suscitato dal console Lucio Antonio e da Fulvia, moglie di Marco Antonio, il padre di Tiberio si unì agli antoniani, fomentando il malcontento che stava nascendo in molte regioni d'Italia. Dopo la vittoria di Ottaviano, che riuscì a sconfiggere Fulvia asserragliata a Perugia e a restaurare il proprio controllo su tutta la penisola italica, egli fu costretto a fuggire, portando assieme a sé la moglie e il figlio. La famiglia si rifugiò dunque a Napoli, e partì poi alla volta della Sicilia, controllata da Sesto Pompeo. I tre furono poi costretti a raggiungere l'Acaia, dove si stavano radunando le truppe antoniane che avevano lasciato l'Italia. Il piccolo Tiberio, costretto a prendere parte alla fuga e a patire le insicurezze del viaggio, ebbe dunque un'infanzia disagevole, fino a quando gli accordi di Brindisi, che ristabilivano una pace precaria, permisero agli antoniani fuoriusciti di fare ritorno in Italia.
Nel 39 a.C. Ottaviano decise di divorziare da sua moglie Scribonia, dalla quale aveva avuto la figlia Giulia, per prendere in sposa la madre del piccolo Tiberio, Livia Drusilla, della quale era sinceramente innamorato. Il triumviro chiese per le nozze l'autorizzazione del collegio dei pontefici, dal momento che Livia aveva già un figlio ed era in attesa di un secondo. I sacerdoti acconsentirono al matrimonio tra i due, ponendo, come unica clausola, che fosse accertata la paternità del nascituro. Il 17 gennaio del 38 a.C., dunque, Ottaviano sposò Livia Drusilla, la quale dopo tre mesi partorì un figlio a cui fu imposto il nome di Druso. La questione della paternità, in realtà, rimase incerta: alcuni sostenevano che Druso fosse nato da un rapporto adulterino tra Livia e Ottaviano, mentre altri lodavano il fatto che il neonato fosse stato generato nei soli novanta giorni che erano intercorsi tra il matrimonio e la sua nascita. Si poté in un secondo momento accertare come la paternità di Druso dovesse spettare al padre di Tiberio, poiché Livia e Ottaviano non si erano ancora incontrati nel momento in cui il bambino fu concepito.
Mentre Druso fu allevato dalla madre nella casa di Ottaviano, Tiberio rimase presso l'anziano padre fino all'età di nove anni: nel 33 a.C. quest'ultimo morì e fu il giovanissimo figlio a pronunciarne la laudatio funebris dai rostri del Foro. Tiberio si trasferì dunque nella casa di Ottaviano assieme alla madre e al fratello, proprio mentre le tensioni tra Ottaviano e Antonio sfociavano in un nuovo conflitto, che si concluse nel 31 a.C. con lo scontro decisivo di Azio. Nel 29 a.C., durante la cerimonia del trionfo di Ottaviano dopo la definitiva vittoria su Antonio ad Azio, fu Tiberio a precedere il carro del vincitore, conducendo il cavallo interno di sinistra, mentre Marcello, nipote di Ottaviano, montava quello esterno di destra, trovandosi dunque al posto d'onore.
All'età di quindici anni fu vestito della toga virile, e fu dunque iniziato alla vita civile: si distinse come difensore e accusatore in numerosi processi giudiziari, e si dedicò contemporaneamente all'apprendimento dell'arte militare. Si dedicò inoltre, con grande interesse, a studi di oratoria latina, retorica greca e diritto; frequentava i circoli culturali legati ad Augusto, dove si parlava tanto in greco quanto in latino: conobbe dunque Gaio Cilnio Mecenate e gli artisti che egli finanziava, come Quinto Orazio Flacco, Publio Virgilio Marone e Sesto Properzio.
Data la mancanza di vere e proprie scuole militari che permettessero di fare esperienza, nel 25 a.C. Augusto decise di inviare in Spagna i sedicenni Tiberio e Marcello, in qualità di tribuni militari. Lì i due giovani, che Augusto vedeva come suoi possibili successori, parteciparono alle fasi iniziali della guerra cantabrica, iniziata dallo stesso Augusto nell'anno precedente, e portata a termine, nel 19 a.C., dal generale Marco Vipsanio Agrippa.
Un anno più tardi, nel 24 a.C., all'età di diciotto o diciannove anni, Tiberio fu nominato questore dell'annona, in anticipo di cinque anni rispetto al tradizionale cursus honorum delle magistrature. Si trattava di un incarico particolarmente delicato, a cui spettava garantire l'approvvigionamento di frumento per l'intera città di Roma, che contava allora oltre un milione di abitanti, duecentomila dei quali potevano sopravvivere solo grazie alle distribuzioni gratuite di grano da parte dello Stato; l'Urbe, inoltre, si trovava ad attraversare un periodo di carestia dovuta a una piena del Tevere che aveva distrutto buona parte dei raccolti nelle campagne laziali, impedendo anche alle navi onerarie di giungere fino a Roma con le loro le derrate alimentari. Tiberio affrontò la situazione con vigore: acquistò a sue spese il grano che gli speculatori ammassavano nei loro depositi e lo distribuì gratuitamente, tanto da essere salutato come benefattore di Roma.
Fu dunque incaricato di condurre le ispezioni negli ergastula, prigioni sotterranee in cui venivano rinchiusi gli schiavi, i viaggiatori e coloro che chiedevano rifugio per evitare il servizio militare. Si trattava, questa volta, di un compito non particolarmente prestigioso, ma ugualmente delicato, poiché i padroni degli ergastula si erano resi odiosi a tutta la popolazione dell'Italia, creando così una situazione di tensione.
Nell'inverno del 21-20 a.C. Augusto ordinò al ventunenne Tiberio di condurre un esercito legionario, reclutato in Macedonia e Illirico, e di muovere in Oriente, verso l'Armenia. Essa era, infatti, una regione di fondamentale importanza per l'equilibrio politico di tutta l'area orientale: svolgeva un ruolo di cuscinetto tra l'impero romano a ovest e quello dei parti ad est, ed entrambi volevano farne un proprio stato vassallo, che assicurasse la protezione dei confini. Dopo la sconfitta di Marco Antonio e la caduta del sistema che egli aveva imposto in Oriente, l'Armenia era tornata sotto l'influenza dei parti, che favorirono l'ascesa al trono di Artaxias II. Augusto ordinò dunque a Tiberio di scacciare Artaxias, di cui gli armeni filoromani chiedevano la deposizione, e imporre sul trono il fratello minore Tigrane, di tendenze filoromane. I parti, spaventati dall'avanzata delle legioni romane, scesero a compromessi e sottoscrissero una pace con lo stesso Augusto, giunto intanto in Oriente da Samo, restituendo le insegne e i prigionieri di cui si erano impossessati dopo la vittoria su Marco Licinio Crasso nella battaglia di Carre del 53 a.C.
Ugualmente, anche la situazione armena si risolse prima dell'arrivo di Tiberio e del suo esercito grazie al trattato di pace tra Augusto e il sovrano partico Fraate IV: il partito filoromano poté prendere il sopravvento e alcuni agenti inviati da Augusto eliminarono Artaxias. Al suo arrivo, dunque, Tiberio non dovette far altro che incoronare Tigrane, che prese il nome di Tigrane III, come re cliente, in una cerimonia pacifica e solenne, tenutasi davanti agli occhi delle legioni romane. Al suo ritorno a Roma, il giovane generale fu celebrato con grandi feste e con la costruzione di monumenti in suo onore, mentre Ovidio, Orazio e Properzio scrissero composizioni in versi per celebrarne l'impresa. Il merito della vittoria spettò comunque ad Augusto, quale comandante in capo dell'esercito: egli fu infatti proclamato imperator per la nona volta, poté annunciare in senato il vassallaggio dell'Armenia senza tuttavia decretarne l'annessione e scrisse infine nelle sue Res Gestae Divi Augusti: « Pur potendo fare dell'Armenia maggiore una provincia dopo l'uccisione del suo re Artaxias, preferii, sull'esempio dei nostri antenati, affidare quel regno a Tigrane, figlio del re Artavaside e nipote di re Tigrane, per mezzo di Tiberio Nerone, che allora era mio figliastro. »
Nel 19 a.C. fu conferito a Tiberio il rango di ex-pretore, ovvero gli ornamenta praetoria, ed egli poté dunque sedere in Senato, tra gli ex-praetores. Sebbene Augusto, dopo la campagna in Oriente, avesse ufficialmente dichiarato in senato che avrebbe abbandonato la politica di espansione, ben sapendo che un'estensione territoriale eccessiva sarebbe stata letale per l'imperium romano, decise comunque di attuare altre campagne per rendere sicuri i confini. Nel 16 a.C. Tiberio, appena nominato pretore, accompagnò Augusto in Gallia Comata, dove trascorse i tre anni successivi, fino al 13 a.C., per assisterlo nell'organizzazione e governo delle province galliche. Augusto fu accompagnato dal figliastro anche in una campagna punitiva oltre il Reno, contro le tribù dei sigambri e dei loro alleati, tencteri ed usipeti, che nell'inverno del 17-16 a.C. avevano causato la sconfitta del proconsole Marco Lollio e la parziale distruzione della legio V Alaudae e la perdita delle insegne legionarie.
Nel 15 a.C. Tiberio, insieme al fratello Druso, condusse una campagna contro i reti, stanziati tra il Norico e la Gallia, e i vindelici. Druso aveva già in precedenza scacciato dal territorio italico i reti, resisi colpevoli di numerose scorrerie, ma Augusto decise di inviare anche Tiberio affinché la situazione fosse definitivamente risolta. I due, nel tentativo di accerchiare il nemico attaccandolo su due fronti senza lasciargli vie di fuga, progettarono una grande "operazione a tenaglia" che misero in pratica: Tiberio mosse dall'Elvezia, mentre il fratello minore da Aquileia e Tridentum, percorrendo la valle dell'Adige e dell'Isarco (alla cui confluenza costruì il Pons Drusi, presso l'attuale Bolzano), e risalendo infine l'Inn. Tiberio, che avanzava da ovest, sconfisse i vindelici nei pressi di Basilea e del lago di Costanza; in quel luogo i due eserciti poterono riunirsi e prepararsi a invadere la Baviera. L'azione congiunta permise ai due fratelli di avanzare fino alle sorgenti del Danubio, dove ottennero l'ultima e definitiva vittoria sui vindelici. Questi successi permisero ad Augusto di sottomettere le popolazioni dell'arco alpino fino al Danubio, e gli valsero una nuova acclamazione imperatoria, mentre Druso, figliastro prediletto di Augusto, per questa e altre vittorie, poté più tardi ottenere il trionfo. Su una montagna vicina al Principato di Monaco, presso l'attuale La Turbie, venne eretto il Trofeo di Augusto, per commemorare la pacificazione delle Alpi da un estremo all'altro e ricordare i nomi di tutte le tribù sottomesse.
Nel 13 a.C., guadagnatasi ormai la reputazione di ottimo comandante, fu nominato console e inviato da Augusto nell'Illirico: il valoroso Agrippa, infatti, che aveva a lungo combattuto contro le popolazioni ribelli della Pannonia, morì appena tornato in Italia. La notizia della morte del generale provocò una nuova ondata di ribellioni tra le genti sconfitte da Agrippa, in particolare dalmati e breuci, ed Augusto assegnò al figliastro il compito di pacificarle. Tiberio, assunto il comando dell'esercito nel 12 a.C., sgominò le forze nemiche e attuò una politica di durissima repressione contro gli sconfitti; grazie alla sua abilità strategica e all'astuzia che dimostrò poté ottenere una vittoria totale nel giro di soli quattro anni, avvalendosi dell'aiuto di generali esperti come Marco Vinicio, governatore della Macedonia e Lucio Calpurnio Pisone. Nel 12 a.C. sottomise i pannoni breuci, avvalendosi dell'aiuto fornitogli dalla tribù degli scordisci, sottomessa poco tempo prima dal proconsole Marco Vinicio. Privò i suoi nemici delle armi e vendette come schiavi la maggior parte dei loro giovani, dopo averli deportati, ed ottenne da Augusto gli ornamenta triumphalia. Contemporaneamente, lungo il fronte orientale, il governatore di Galazia e Panfilia Lucio Calpurnio Pisone era stato costretto ad intervenire in Tracia, poiché le genti del luogo, in particolare i bessi, minacciavano il sovrano trace Remetalce I, alleato di Roma.
L'11 a.C. vide Tiberio impegnato prima contro i dalmati, che si erano nuovamente ribellati, e poco dopo ancora contro i pannoni che avevano approfittato della sua assenza per cospirare nuovamente. Il giovane generale fu dunque notevolemente impegnato nel combattere contemporaneamente contro più popoli nemici e fu costretto più volte a spostarsi da un fronte all'altro. Nel 10 a.C. i daci si spinsero oltre il Danubio, effettuando gravi razzie nei territori di pannoni e dalmati. Questi ultimi, dunque, vessati anche dai tributi imposti loro da Roma, si ribellarono nuovamente. Tiberio, che si era recato in Gallia insieme ad Augusto al principio dell'anno, fu così costretto a far ritorno sul fronte illirico, per affrontarli e batterli ancora una volta. Al termine dell'anno poté finalmente fare ritorno a Roma insieme al fratello Druso e ad Augusto.
Conclusasi la lunga campagna, anche la Dalmazia, ormai definitivamente inglobata nello Stato romano e avviata al processo di romanizzazione, fu affidata come provincia imperiale al diretto controllo di Augusto: era infatti necessario che vi fosse stanziato permanentemente un esercito pronto a respingere eventuali assalti lungo i confini e a reprimere possibili nuove rivolte. Augusto, tuttavia, evitò in un primo momento di ufficializzare la salutatio imperatoria che i legionari avevano tributato a Tiberio e si rifiutò di tributare al figliastro anche la cerimonia del trionfo, contro il parere che il senato aveva espresso. A Tiberio fu comunque concesso di percorrere la via Sacra su di un carro ornato delle insegne trionfali e di celebrare un'ovazione: si trattò di un uso del tutto nuovo che, sebbene inferiore al festeggiamento del trionfo vero e proprio, costituiva comunque un notevole onore.
Nel 9 a.C. Tiberio si dedicò interamente alla riorganizzazione della nuova provincia dell'Illirico. Mentre da Roma, dove aveva festeggiato la sua vittoriosa campagna, tornava ai confini orientali, Tiberio fu avvisato che il fratello Druso, mentre si trovava sulle rive dell'Elba a combattere contro le popolazioni germaniche, era caduto da cavallo fratturandosi il femore. L'incidente sembrò di poco conto e fu dunque trascurato; le condizioni di Druso, tuttavia, peggiorarono repentinamente nel settembre. Tiberio lo raggiunse a Mogontiacum per portargli conforto, dopo aver percorso, in un giorno, oltre duecento miglia. Druso, alla notizia dell'arrivo del fratello, ordinò che le legioni lo accogliessero degnamente, e spirò più tardi tra le sue braccia. Fu dunque lo stesso Tiberio a condurre il corteo funebre che riportò la salma di Druso a Roma, precedendo tutti a piedi. A Roma, pronunciò una laudatio funebris nel Foro, mentre Augusto pronunciò la sua nel Circo Flaminio; il corpo di Druso fu poi cremato nel Campo Marzio e le ceneri deposte nel Mausoleo di Augusto.
Negli anni 8 - 7 a.C. Tiberio si recò nuovamente, mandato da Augusto, in Germania per continuare l'opera iniziata dal fratello Druso e combattere le popolazioni germaniche, dopo la sua prematura scomparsa. Attraversò dunque il Reno e le tribù dei barbari, spaventate, ad eccezione dei sigambri, avanzarono proposte di pace, ma ricevettero tuttavia un netto rifiuto, in quanto sarebbe stato inutile concludere una pace senza l'adesione dei pericolosi sigambri stessi; quando anch'essi inviarono degli uomini, Tiberio li fece massacrare e deportare. Per i risultati ottenuti in Germania, Tiberio ed Augusto guadagnarono nuovamente l'acclamazione ad imperator e Tiberio fu designato console per il 7 a.C. Poté dunque portare a termine l'opera di consolidamento del potere romano sulla regione costruendo numerosi forti, tra cui quelli di Oberaden e Haltern, ed espandendo dunque l'influenza romana fino al fiume Weser.
Perseguendo gli interessi politici della famiglia, Tiberio nel 12 a.C. era stato costretto da Augusto a divorziare dalla prima moglie, Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, che aveva sposato nel 16 a.C. e da cui aveva avuto un figlio, Druso minore. L'anno successivo sposò dunque Giulia maggiore, figlia dello stesso Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa. Tiberio era sinceramente innamorato della prima moglie Vipsania e se ne allontanò con grande rammarico; il sodalizio con Giulia, vissuto dapprima con concordia e amore, si guastò ben presto, dopo la morte del figlio ancora infante che era nato loro ad Aquileia. Il carattere di Tiberio, particolarmente riservato, si contrapponeva inoltre a quello licenzioso di Giulia, circondata da numerosi amanti.
Nel 6 a.C. Augusto decise di conferire a Tiberio la tribunicia potestas (era l'autorità di cui godevano i tribuni della plebe nell'Antica Roma. Durante l'età imperiale essa divenne, fin dai tempi di Augusto, uno degli elementi portanti dell'autorità imperiale in quanto garantiva il diritto di veto su qualsiasi decreto del Senato, il diritto di intercessio, l'immunità personale e la possibilità di comminare condanne capitali. La sua attribuzione assegnava, dunque, al personaggio che la riceveva tutte le prerogative concesse ai tribuni della plebe, senza tuttavia l'investitura della carica) per 5 anni. In questo modo Augusto sembrava voler avvicinare a sé il figliastro e poteva inoltre porre un freno all'esuberanza dei giovani nipoti, Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e Giulia, che aveva adottato e che apparivano come i favoriti nella successione.
Malgrado questo onore, Tiberio decise di ritirarsi dalla vita politica e abbandonare la città di Roma, per andarsene in un volontario esilio sull'isola di Rodi, che lo aveva affascinato fin dai giorni in cui vi era approdato, di ritorno dall'Armenia. Alcuni, come il Grant, sostengono che fosse indignato e sconcertato dalla situazione, altri che sentiva la scarsa considerazione di Augusto nei suoi confronti per essere stato usato quale tutore dei suoi due nipoti, Gaio e Lucio Cesare, gli eredi designati, oltre a un crescente disagio e disgusto nei confronti della nuova moglie.
Si trattava di una scelta strana e improvvisa, che Tiberio prese proprio nel momento in cui stava ottenendo numerosi successi, mentre si trovava nel mezzo della giovinezza e in piena salute. Augusto e Livia tentarono inutilmente di trattenerlo; il princeps arrivò addirittura a parlare della questione in senato. Tiberio, in risposta, decise di smettere di mangiare e rimase a digiuno per quattro giorni, fino a quando non gli fu concesso di lasciare l'Urbe per recarsi dove desiderava. Gli storici antichi non seppero dare un'interpretazione univoca della vicenda, che appariva, in effetti, alquanto strana. Svetonio riassunse tutte le motivazioni che potevano aver portato Tiberio a lasciare Roma:
« [...] è dubbio se per disgusto di sua moglie, che non osava né ripudiare né incriminare, ma che non poteva sopportare più oltre, o se, invece, per affermare o anche accrescere, con la lontananza, la sua autorità, nel caso che lo stato avesse bisogno di lui, evitando di stancare con la sua continua presenza. Certi stimano che, essendo allora adulti i figli di Augusto, cedette loro il passo spontaneamente, come se il secondo rango fosse stato un patrimonio a lungo usurpato, seguendo così l'esempio di Marco Agrippa che, quando aveva visto Marco Marcello chiamato a incarichi pubblici, si era ritirato a Mitilene per non sembrare, con la sua presenza in Roma, atteggiarsi a suo concorrente o a suo censore. Questa è, del resto, la versione che diede egli stesso, ma solo più tardi. In quell'epoca egli chiese un congedo motivandolo con il fatto che era sazio di onori e che voleva trovare riposo [...] » (Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio, 10; trad. di Felice Dessì, Le vite dei Cesari, BUR.)
« [Augusto] poiché volle in qualche modo frenare le intemperanze di Lucio e di Gaio, conferì a Tiberio la potestà tribunizia per cinque anni, e gli assegnò l'Armenia, che dopo la morte di Tigrane era diventata ostile. Gli toccò però entrare inutilmente in urto sia con i nipoti che con Tiberio, con i primi perché ritennero di essere stati declassati, con il secondo perché iniziò a temere il risentimento di loro. In ogni caso Tiberio fu mandato a Rodi con la scusa di aver bisogno di un periodo di insegnamento, [...] affinché fosse lontano da Lucio e da Gaio, sia dalla loro vista sia dalla loro portata. [...] Questa è la ragione più vera del suo allontanamento, anche se c'è una versione in base alla quale fu anche la moglie Giulia il motivo per cui aveva fatto ciò, dato che non riusciva più a sopportarla. [...] Altri dissero che Tiberio era indispettito per il fatto che non aveva ricevuto anche il titolo di Cesare, mentre secondo altri ancora era stato cacciato da Augusto stesso sulla base del fatto che stava ordendo un complotto contro i suoi figli [Gaio e Lucio]. » (Cassio Dione, Storia romana, LV,9,4-5 e 7.)
Per tutto il periodo della sua permanenza a Rodi (per quasi otto anni), Tiberio mantenne un atteggiamento defilato, evitando di porsi al centro dell'attenzione o di prender parte alle vicende politiche dell'isola: se non in un unico caso, infatti, non fece mai uso dei poteri che gli derivavano dalla tribunicia potestas di cui era stato investito. Quando, tuttavia, nell'1 a.C. smise di goderne, decise di chiedere il permesso di rivedere i suoi parenti: stimava infatti che, seppure partecipe delle vicende politiche, non avrebbe più potuto in alcun modo mettere a repentaglio il primato di Gaio e Lucio Cesare. Ricevette tuttavia un rifiuto. Decise allora di fare appello alla madre, che tuttavia non poté ottenere altro che Tiberio venisse nominato legato di Augusto a Rodi, e che dunque la sua disgrazia fosse almeno in parte celata. Si rassegnò così a continuare a vivere come un privato cittadino evitando tutti coloro che venivano a fargli visita sull'isola. Nel 2 a.C. la moglie Giulia fu condannata all'esilio sull'isola di Ventotene e il suo matrimonio con lei fu di conseguenza annullato da Augusto: Tiberio, per quanto contento della notizia, cercò di dimostrarsi magnanimo nei confronti di Giulia, nel tentativo di riconquistare la stima di Augusto. Nell'1 a.C. decise di far visita a Gaio Cesare che era appena giunto a Samo, dopo che Augusto gli aveva conferito l'imperium proconsolare e lo aveva incaricato di compiere una missione in Oriente dove, morto Tigrane III, il problema armeno si era riaperto. Tiberio lo onorò mettendo da parte ogni rivalità e umiliandosi ma Gaio, spinto dall'amico Marco Lollio, fermo oppositore di Tiberio, lo trattò con distacco. Soltanto nel 1 d.C., dopo sette anni dalla sua partenza, a Tiberio fu concesso di fare ritorno a Roma, grazie anche all'intercessione della madre Livia, ponendo fine a quello che aveva smesso di essere un esilio volontario. Gaio Cesare, che, infatti, si era allontanato da Lollio, decise di acconsentire al ritorno; Augusto, che aveva rimesso la questione nelle mani del nipote, lo richiamò così in patria, facendogli però giurare che non si sarebbe interessato in alcun modo al governo dello Stato.
A Roma, intanto, i giovani nobiles che sostenevano i due Cesari avevano sviluppato un forte sentimento di odio verso Tiberio e continuavano a vederlo come un ostacolo all'ascesa di Gaio Cesare. Qualcuno, durante un banchetto, aveva promesso a Gaio Cesare che, se l'ordinava, sarebbe andato a Rodi ad uccidere Tiberio, e molti altri nutrivano lo stesso proposito. Al suo ritorno nell'Urbe Tiberio dovette dunque agire con grande cautela, senza mai abbandonare il proposito di riacquisire il prestigio e l'influenza che aveva perduto nell'esilio di Rodi.
Proprio quando la loro popolarità aveva raggiunto i massimi livelli, Lucio e Gaio Cesare morirono, rispettivamente nel 2 e nel 4, non senza che si sospettasse che Livia Drusilla avesse avuto qualche ruolo nella loro morte: il primo si era misteriosamente ammalato, mentre il secondo era stato colpito a tradimento in Armenia, mentre discuteva con i nemici una proposta di pace. Tiberio, che al suo ritorno aveva lasciato la sua vecchia casa per trasferirsi nei giardini di Mecenate (dei quali resta oggi il cosiddetto Auditorium, fatto forse decorare con pitture di giardino proprio da Tiberio) e aveva evitato in ogni modo di partecipare alla vita pubblica, fu adottato da Augusto insieme all'ultimo figlio di Giulia maggiore, Agrippa Postumo. Il princeps lo costrinse però ad adottare a sua volta il nipote Germanico Giulio Cesare, figlio del fratello Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse già un figlio, concepito dalla prima moglie, Vipsania, di nome Druso minore e più giovane di un anno soltanto. L'adozione di Tiberio, che prese il nome di Tiberio Giulio Cesare, fu celebrata il 26 giugno del 4 con grandi festeggiamenti e Augusto ordinò che si distribuisse alle truppe oltre un milione di sesterzi. Il ritorno di Tiberio al potere supremo dava, infatti, non solo al Principato una naturale stabilità, continuità e una concordia interna, ma nuovo slancio alla politica augustea di conquista e gloria all'esterno dei confini imperiali.
Subito dopo la sua adozione, Tiberio fu nuovamente investito dell'imperium proconsolare maius (l'imperium proconsulare maius eera un'istituzione che conferiva il potere sulle province, di rango superiore rispetto ai governatori delle province stesse (maius) ed esercitato al di fuori del vincolo della collegialità delle magistrature repubblicane, come proconsole, ossia rivestito dopo il consolato e della tribunicia potestas quinquennale o decennale e inviato da Augusto in Germania, poiché i precedenti generali (Lucio Domizio Enobarbo, legato dal 3 all'1 a.C., e Marco Vinicio dall'1 al 3) non erano riusciti a espandere ulteriormente la zona d'influenza romana rispetto alle conquiste che Druso maggiore aveva portato a termine tra il 12 e il 9 a.C. Tiberio desiderava inoltre riacquistare il favore delle truppe dopo un decennio di assenza.
Dopo un trionfale viaggio durante il quale fu più volte festeggiato dalle legioni che già aveva comandato in precedenza, Tiberio giunse in Germania, dove, nel corso di due campagne svolte tra il 4 e il 5, occupò in modo permanente, con nuove azioni militari, tutte le terre della zona settentrionale e centrale comprese tra i fiumi Reno ed Elba. Nel 4 sottomise canninefati, cattuari e bructeri, e riportò sotto il dominio romano i cherusci, che se ne erano sottratti. Assieme al legato Gaio Senzio Saturnino, decise di avanzare ancora di più nel territorio germanico per superare il fiume Weser, e organizzò nel 5 una grande operazione che prevedeva l'impiego delle forze terrestri e della flotta proveniente dal Mare del Nord: poté così stringere in una morsa letale i temibili longobardi assieme a cimbri, cauci e senoni, che furono costretti a deporre le armi e ad arrendersi al potere di Roma.
L'ultimo atto necessario era quello di occupare anche la parte meridionale della Germania, ovvero la Boemia dei marcomanni di Maroboduo, al fine di completare il progetto di annessione e portare il confine dal fiume Reno all'Elba. Tiberio aveva progettato un complesso piano d'attacco che prevedeva l'impiego di numerose legioni, quando scoppiò una grande rivolta in Dalmazia e Pannonia, che fermò dunque l'avanzata di Tiberio e del suo legato Senzio Saturnino in Moravia. La campagna, progettata come una "manovra a tenaglia", costituiva infatti una grande operazione strategica in cui gli eserciti di Germania (2-3 legioni), Rezia (2 legioni) ed Illirico (4-5 legioni) dovevano riunirsi in un punto convenuto e sferrare l'ultimo attacco. Lo scoppio della rivolta dalmato-pannonica, però, impediva che le legioni dell'Illirico raggiungessero la Germania, e c'era inoltre il rischio che Maroboduo si alleasse ai ribelli per marciare contro Roma: Tiberio, dunque, quando era a pochi giorni di marcia dal territorio nemico, concluse in fretta un trattato di pace con il capo marcomanno, e si diresse al più presto in Illirico.
Dopo un quindicennio di relativa tranquillità, nel 6 l'intero settore dalmato-pannonico riprese le armi contro il potere di Roma: la causa della nuova insurrezione era il malgoverno dei magistrati inviati da Roma a gestire le province, che erano state vessate mediante l'imposizione di gravosi tributi. L'insurrezione ebbe inizio nella zona sudorientale dell'Illirico, fra il popolo dei dalmati desiziati, comandati da un certo Batone, a cui si unirono le tribù dei pannoni breuci, sotto il comando di un certo Pinnes e di un secondo Batone.
Con il timore di altre ribellioni ovunque nell'Impero, il reperimento delle reclute diventò problematico, tanto da dover essere utilizzata la "ferma" obbligatoria e nuove tassazioni per far fronte a una simile emergenza. Le forze messe in campo dai romani furono tanto ingenti, come dai tempi delle guerre annibaliche o cimbriche di Gaio Mario non si ricordava: dieci legioni e oltre ottanta unità ausiliarie, pari a circa cento/centoventimila armati.
Tiberio mandò avanti i suoi luogotenenti perché sbarrassero la strada ai nemici nel caso avessero deciso di marciare contro l'Italia: Marco Valerio Messalla Messallino riuscì a sconfiggere un esercito di 20.000 uomini e si asserragliò a Siscia, mentre Aulo Cecina Severo difese la città di Sirmium (Sirmio) evitandone la caduta, e respinse Batone il pannone presso il fiume Drava. Tiberio giunse sul teatro della guerra sul finire dell'anno, quando gran parte del territorio, ad eccezione di poche piazzeforti, era nelle mani dei ribelli, e anche la Tracia era scesa in guerra a fianco dei romani.
Poiché a Roma si temeva che Tiberio indugiasse nella risoluzione del conflitto, nel 7 Augusto inviò presso di lui Germanico Giulio Cesare in qualità di questore; il generale, intanto, meditava di riunire gli eserciti romani impegnati della regione lungo il fiume Sava, in modo tale da poter disporre di oltre dieci legioni. Da Sirmio, dunque, Cecina e Marco Plauzio Silvano condussero l'esercito verso Siscia, sconfiggendo le forze congiunte dei ribelli nella battaglia delle paludi Volcee. Ricongiunte le forze, Tiberio inflisse ripetute sconfitte ai nemici, ristabilendo l'egemonia romana sulla valle del Sava e consolidando le conquiste ottenute mediante la costruzione di alcuni forti. In previsione dell'inverno, dunque, separò nuovamente le legioni, inviandole a presidiare i confini, e trattenendone cinque con sé a Siscia.
Nell'8 Tiberio riprese le manovre militari e sconfisse in agosto un nuovo esercito pannone; a seguito della sconfitta, Batone il pannone tradì Pinnes consegnandolo ai Romani, ma fu poi catturato e giustiziato per ordine di Batone il dalmata, che prese il comando anche delle forze dei pannoni. Tuttavia Silvano, poco più tardi, riuscì a sconfiggere gli stessi pannoni breuci, che erano stati tra i primi popoli a ribellarsi. Iniziata ormai la penetrazione romana in Dalmazia, Tiberio dispose le truppe in modo tale da poter sferrare l'attacco finale nell'anno successivo.
Nel 9 Tiberio riprese le ostilità suddividendo in tre colonne l'esercito e ponendosi assieme a Germanico alla guida di una di esse. Mentre i suoi luogotenenti spegnevano gli ultimi residui focolari di ribellione, egli si addentrò nel territorio dalmata alla ricerca del capo ribelle Batone il dalmata: ricongiuntosi con la colonna guidata dal nuovo legato Marco Emilio Lepido, lo raggiunse nella città di Andretium, dove il ribelle si arrese ponendo fine, dopo quattro anni, al conflitto.
Nel 9, dopo che Tiberio aveva brillantemente sconfitto i ribelli dalmati, l'esercito romano di stanza in Germania, guidato da Publio Quintilio Varo, un amministratore più che un generale, fu attaccato e sconfitto in un'imboscata da un esercito germanico guidato da Arminio mentre attraversava la selva di Teutoburgo. Tre legioni, costituite dagli uomini più esperti e addestrati, furono totalmente annientate, e le conquiste romane oltre il Reno andarono perdute, poiché rimasero del tutto prive di un esercito di guarnigione che le custodisse. Augusto, inoltre, temeva che dopo una simile disfatta romana galli e germani, alleatisi, marciassero contro l'Italia; fondamentale perché questo timore potesse risultare vano fu l'apporto del sovrano dei marcomanni Maroboduo, che tenne fede ai patti stipulati con Tiberio nel 6 e rifiutò l'alleanza con Arminio. Al di là delle fantasiose ricostruzioni degli storici, con Augusto che dava testate nei muri gridando "Varo restituiscimi le mie divisioni", la sconfitta di Teutoburgo significò, per i romani, il punto di non ritorno alle ambizioni dell'impero di assoggettare i germani.
Tiberio, pacificato l'Illirico, tornò a Roma, dove decise di posticipare la celebrazione del trionfo che gli era stato tributato in modo tale da rispettare il lutto imposto per la disfatta di Varo. Il popolo avrebbe comunque desiderato che prendesse un soprannome, come Pannonico, Invitto o Pio, che ricordasse le sue grandi imprese; Augusto, tuttavia, respinse le richieste rispondendo che un giorno avrebbe preso anch'egli l'appellativo di Augusto, e poi lo inviò sul Reno, per evitare che il nemico germanico attaccasse la Gallia e che le province appena pacificate potessero rivoltarsi nuovamente ancora una volta in cerca dell'indipendenza.
Giunto in Germania, Tiberio poté constatare la gravità della disfatta di Varo e delle sue conseguenze, che impedivano di progettare una nuova riconquista delle terre che andavano fino all'Elba. Adottò, dunque, una condotta particolarmente prudente, prendendo ogni decisione assieme al consiglio di guerra ed evitando di far ricorso, per la trasmissione di messaggi, a uomini del luogo come interpreti; sceglieva allo stesso modo con cura i luoghi in cui erigere gli accampamenti, in modo tale da fugare qualsiasi pericolo di rimanere vittima di una nuova imboscata; mantenne, infine, tra i legionari una disciplina ferrea, punendo in modo estremamente rigoroso tutti coloro che trasgredivano i suoi rigidi ordini. In questo modo poté ottenere numerose vittorie e confermare il confine lungo il fiume Reno, mantenendo fedeli a Roma i popoli germanici, tra cui batavi, frisoni e cauci, che abitavano quei luoghi.
La successione fu una delle più grandi preoccupazioni della vita di Augusto, spesso affetto da malattie che avevano fatto più volte temere una sua morte prematura. Il princeps aveva sposato nel 42 a.C. Clodia Pulcra, figliastra di Antonio, ma l'aveva poi ripudiata l'anno successivo (41 a.C.), per sposare prima Scribonia e, poco dopo, Livia Drusilla.
Per alcuni anni Augusto sperò di avere come erede il nipote Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, che fece sposare con sua figlia Giulia, nel 25 a.C. Marcello fu così adottato, ma morì ancora in giovanissima età due anni più tardi. Augusto costrinse allora Agrippa a sposare la giovanissima Giulia, scegliendo dunque come successore il fidato amico, cui attribuì l'imperium proconsolare e la tribunicia potestas. Tuttavia anche Agrippa morì prima di Augusto, nel 12 a.C., mentre si distinguevano per le loro imprese Druso, favorito dello stesso Augusto, e Tiberio. Dopo la prematura morte di Druso, il princeps diede la figlia Giulia in sposa a Tiberio, ma adottò i figli di Agrippa, Gaio e Lucio Cesare: anch'essi morirono però in giovane età, non senza che si sospettasse un coinvolgimento di Livia. Augusto, dunque, non poté che adottare Tiberio, poiché l'unico altro discendente diretto di sesso maschile ancora in vita, il figlio di Agrippa, Agrippa Postumo, appariva brutale e del tutto privo di buone qualità, ed era stato mandato al confino nell'isola di Pianosa.
Secondo Svetonio, tuttavia, Augusto, per quanto affezionato al figliastro, ne biasimava spesso alcuni aspetti, ma scelse comunque di adottarlo per più motivi:
« [...] E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, [...] acconsentì ad adottarlo solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un caso di così grande importanza; credo piuttosto che abbia accuratamente pesato le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell'interesse dello stato, e che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l'unico sostegno del popolo romano. [...] » (Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio, 21; trad. di Felice Dessì, Vite dei Cesare, BUR.)
Tiberio, dunque, dopo aver portato a termine le operazioni in Germania, celebrò in Roma il trionfo per la campagna in Dalmazia e Pannonia nell'ottobre del 12, in occasione del quale si prostrò pubblicamente di fronte ad Augusto, e ottenne nel 13 il rinnovo della tribunicia potestas e l'imperium proconsulare maius, titoli che ne completavano di fatto la successione, elevandolo al rango effettivo di coreggente, insieme allo stesso Augusto: poteva, dunque, amministrare le province, comandare gli eserciti, ed esercitare pienamente il potere esecutivo. Tuttavia già dal momento della sua adozione Tiberio aveva iniziato a prendere parte attiva al governo dello Stato, coadiuvando il patrigno nella promulgazione delle leggi e nell'amministrazione.
Nel 14, Augusto, ormai prossimo alla morte, chiamò a sé Tiberio sull'isola di Capri: l'erede, che non ci era mai stato, ne rimase profondamente affascinato. Lì si decise che Tiberio si sarebbe nuovamente recato in Illirico per dedicarsi alla riorganizzazione amministrativa della provincia; i due ripartirono assieme per Roma, ma Augusto, colto da un improvviso malore, fu costretto a fermarsi nella sua villa di Nola, l'Octavianum, mentre Tiberio proseguì per l'Urbe e partì poi per l'Illirico, com'era stato concordato. Proprio mentre si avvicinava alla provincia Tiberio fu urgentemente richiamato indietro perché il patrigno, che non si era più potuto spostare da Nola, era ormai in fin di vita. L'erede poté giungere da Augusto e i due tennero assieme ancora un ultimo colloquio, prima che il princeps morisse (il 19 agosto).
Tiberio annunciò dunque la morte di Augusto, mentre sopraggiungeva anche la notizia del misterioso assassinio di Agrippa Postumo da parte del centurione addetto alla sua custodia. Temendo eventuali attentati alla sua persona, Tiberio si attribuì una scorta militare, e convocò il senato per il 17 settembre perché si discutesse delle onoranze funebri da rendere ad Augusto e se ne leggesse il testamento: egli lasciava come eredi del suo patrimonio Tiberio e Livia (che assumeva il nome di Augusta), ma assegnava numerosi donativi anche al popolo di Roma e ai legionari che militavano negli eserciti. I senatori decisero allora di tributare solenni onoranze funebri al princeps defunto, il cui corpo fu cremato nel Campo Marzio, e iniziarono poi a rivolgere preghiere a Tiberio perché assumesse il ruolo e il titolo che era stato di suo padre, e guidasse dunque lo Stato romano; Tiberio inizialmente rifiutò, secondo Tacito e Svetonio volendo in realtà essere supplicato dai senatori, perché non sembrasse che il governo dello Stato subisse svolte in senso autocratico e perché il sistema repubblicano rimanesse almeno formalmente intatto. Alla fine Tiberio accettò l'offerta dei senatori, probabilmente essendosi reso conto che vi era l'assoluta necessità di un'autorità.
Dopo la seduta del Senato del 17 settembre del 14 d.C., dunque, Tiberio divenne il successore di Augusto alla guida dello Stato romano, mantenendo la tribunicia potestas e l'imperium proconsulare maius insieme agli altri poteri di cui aveva usufruito Augusto, e assumendo il titolo di princeps. Rimase imperatore per quasi ventitré anni, fino alla sua morte, nel 37. Il suo primo atto fu quello di ratificare la divinizzazione del padre adottivo, Augusto (divus Augustus), come in precedenza era stato fatto con Gaio Giulio Cesare, confermandone inoltre il lascito ai soldati.
Fin dall'inizio del suo principato, Tiberio si trovò a dover convivere con l'incredibile prestigio che Germanico, il figlio di suo fratello, Druso maggiore, che egli stesso aveva adottato per ordine di Augusto, andava acquisendo presso i romani. Quando questi ebbe portato a termine le sue campagne sul fronte settentrionale, dove si era guadagnato la stima dei suoi collaboratori e dei legionari, riuscendo a recuperare due delle tre Aquile legionarie perdute nella battaglia di Teutoburgo, la sua popolarità era tale da consentirgli, se avesse voluto, di prendere il potere scacciando il padre adottivo, che in alcuni contesti era già malvisto poiché la sua ascesa al principato era stata segnata dalla morte di tutti gli altri parenti che Augusto aveva indicato come eredi. Il risentimento spinse quindi Tiberio ad affidare al figlio adottivo uno speciale compito in Oriente, in modo da allontanarlo da Roma; il Senato decise di conseguenza di conferire al giovane l'imperium proconsulare maius su tutte le province orientali. Tiberio, tuttavia, non aveva fiducia in Germanico, che in Oriente si sarebbe trovato lontano da qualsiasi controllo ed esposto alle influenze dell'intraprendente moglie Agrippina maggiore, e decise dunque di affiancargli un uomo di sua fiducia: la scelta di Tiberio ricadde su Gneo Calpurnio Pisone, che era stato collega nel consolato dello stesso Tiberio nel 7 a.C.. Germanico, dunque, partì nel 18 verso l'Oriente assieme a Pisone, che fu nominato governatore della provincia di Siria.
Germanico, tornato in Siria nel 19 dopo aver soggiornato in Egitto durante l'inverno, entrò in aperto conflitto con Pisone, che aveva annullato tutti i provvedimenti che il giovane figliastro di Tiberio aveva preso; Pisone, in risposta, decise di lasciare la provincia per fare ritorno a Roma. Poco dopo la partenza di Pisone, Germanico cadde malato ad Antiochia e morì il 10 ottobre dopo lunghe sofferenze; prima di spirare, lo stesso Germanico confessò la propria convinzione di essere stato avvelenato da Pisone, e rivolse un'ultima preghiera ad Agrippina affinché vendicasse la sua morte. Officiati i funerali, dunque, Agrippina tornò con le ceneri del marito a Roma, dove grandissimo era il compianto di tutto il popolo per il defunto. Tiberio, tuttavia, evitò di manifestare pubblicamente i suoi sentimenti, e non partecipò neppure alla cerimonia in cui le ceneri di Germanico furono riposte nel mausoleo di Augusto. In effetti Germanico potrebbe essere deceduto di morte naturale, ma la popolarità crescente enfatizzò molto l'avvenimento, che comunque è anche ingigantito da Tacito.
Subito, però, si manifestò il sospetto, alimentato dalle parole pronunciate da Germanico morente, che fosse stato Pisone a causarne la morte avvelenandolo. Si diffuse dunque anche la voce di un coinvolgimento dello stesso Tiberio, quasi fosse il mandante del delitto di Germanico, avendo lo stesso scelto personalmente di inviare Pisone in Siria: quando dunque lo stesso Pisone fu processato, accusato anche di aver commesso numerosi reati in precedenza, l'imperatore tenne un discorso particolarmente moderato, in cui evitò di schierarsi a favore o contro la condanna del governatore. A Pisone non poté comunque essere imputata l'accusa di veneficio, che appariva, anche agli accusatori, impossibile da dimostrare; il governatore, tuttavia, certo di dover essere condannato per altri reati che aveva commesso, decise di suicidarsi prima che venisse emesso un verdetto.
La popolarità di Tiberio, dunque, uscì danneggiata dall'episodio, proprio perché Germanico era molto amato. Tacito scrisse così di lui, decenni dopo la sua morte:
« [Germanico] ...giovane, aveva sentimenti liberali e una straordinaria affabilità, che contrastava con il linguaggio e l'atteggiamento di Tiberio, sempre arroganti e misteriosi... » (Tacito, Annales, I, 33)
La morte di Germanico aprì la strada per la successione all'unico figlio naturale di Tiberio, Druso, che aveva, fino a quel momento, accettato un ruolo secondario rispetto al cugino Germanico. Egli era soltanto di un anno più giovane del defunto, ma ugualmente abile, come risulta dal modo con cui fronteggiò la rivolta in Pannonia.
Intanto, Lucio Elio Seiano, nominato prefetto del Pretorio insieme al padre nel 16, riuscì presto a conquistarsi la fiducia di Tiberio. Accanto a Druso, dunque, favorito per la successione, si andò a collocare anche la figura di Seiano, che acquisì una grande influenza su Tiberio: il prefetto del Pretorio, infatti, che mostrava nel carattere una riservatezza del tutto simile a quella dell'imperatore, era invece animato da un forte desiderio di potere, e ambiva lui stesso a divenire il successore di Tiberio. Seiano vide inoltre crescere enormemente il suo potere quando le nove coorti pretoriane furono raggruppate nella stessa città di Roma, presso la Porta Viminalis. Tra Druso e Seiano si venne quindi a creare una situazione di aperta rivalità; il prefetto, allora, iniziò a meditare l'ipotesi di assassinare Druso e gli altri possibili successori di Tiberio, sedusse la moglie dello stesso Druso, Claudia Livilla e intraprese con lei una relazione. Poco tempo dopo, nel 23, lo stesso Druso morì avvelenato; l'opinione pubblica arrivò a sospettare, pur senza alcun fondamento, che potesse essere stato Tiberio a ordinare l'assassinio di Druso, ma appariva più verosimile che vi fosse stata coinvolta Claudia Livilla. Otto anni più tardi Tiberio venne a sapere che ad uccidere il figlio era stata proprio la nuora Livilla, insieme al suo più fidato consigliere, Seiano.
Tiberio, dunque, si trovò ancora una volta, all'età di 64 anni, privo di un erede, perché i gemelli di Druso, nati nel 19, erano troppo giovani, e uno di loro era morto poco dopo il padre. Scelse allora di proporre come suoi successori i giovani figli di Germanico, che erano stati adottati da Druso e che Tiberio pose sotto la tutela dei senatori. Seiano ebbe, allora, un potere sempre maggiore, tanto da poter sperare di divenire imperatore egli stesso dopo la morte di Tiberio, e iniziò una serie di persecuzioni prima contro i figli e la moglie di Germanico, Agrippina, poi verso gli amici dello stesso Germanico; molti di loro furono infatti costretti all'esilio, o scelsero di darsi la morte per evitare una condanna.


Eugenio Caruso - 03 febbraio 2018

LOGO

Tiberio, addolorato per la morte del figlio ed esasperato per l'ostilità del popolo di Roma, nel 26 decise di ritirarsi prima in Campania e l'anno successivo a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non fare mai più ritorno nell'Urbe. Egli aveva già sessantasette anni e sembra che il piano di allontanarsi da Roma lo accarezzasse già da diverso tempo. Si racconta che dopo aver visto il figlio morire agonizzante, avesse parlato di abdicare. Non poteva più sopportare di vedere intorno a sé gente che gli ricordava Druso, senza dimenticare che la vicinanza della madre Livia era divenuta per lui insopportabile. Una malattia che gli sfigurava il viso ne aveva, infine, aumentato la sucettibilità e l'ombrosità del carattere. Ma il suo ritiro fu un errore molto grave, sebbene Tiberio non avesse diminuito la cura con cui affrontava i problemi dell'Impero dalla villa di Capri.
Il prefetto del pretorio, intanto, godendo della totale fiducia dell'imperatore, prese il controllo di tutte le attività politiche, divenendo rappresentante incontrastato del potere imperiale. Egli era riuscito, inoltre, a convincere il princeps a concentrare tutte le nove coorti pretorie, in precedenza distribuite tra Roma e altre città italiche, nell'Urbe, (all'interno dei Castra Praetoria) a sua totale disposizione, ora che Tiberio aveva lasciato Roma.
Tiberio, invece, si impegnò a mantenersi informato sulla vita politica di Roma, e riceveva regolarmente missive che lo informavano delle discussioni intraprese in senato; egli stesso, grazie all'istituzione di un vero e proprio servizio postale, poteva esprimere il proprio parere, ed era anche in grado di impartire ordini ai suoi emissari nell'Urbe. L'allontanamento di Tiberio da Roma portò, comunque, a una progressiva esautorazione del senato, a tutto vantaggio di Seiano.
Il prefetto del pretorio, infatti, iniziò a perseguitare i propri oppositori accusandoli di lesa maestà ed eliminandoli, dunque, dalla scena politica; grande credito acquisirono i delatori, ovvero coloro che fungevano da accusatori, e permettevano la condanna dell'imputato. Una tale situazione portò alla creazione di un clima di generale sospetto, che, a sua volta, fomentò ulteriormente le voci sul coinvolgimenti dell'imperatore nei numerosi processi politici intentati da Seiano e dai suoi collaboratori. Nel 29, quando Livia Drusilla, che con il suo carattere autoritario aveva sempre influenzato il governo, morì all'età di ottantasei anni, il figlio si rifiutò di far ritorno a Roma per le esequie e proibì la sua divinizzazione. Seiano, allora, poté procedere indisturbato in una serie di azioni contro Agrippina maggiore e il suo figlio primogenito Nerone: contro il giovane furono riversate numerose accuse infamanti, ed egli fu dunque condannato al confino sull'isola di Ponza, dove morì nel 30. Agrippina, invece, accusata di adulterio, fu deportata nell'isola Pandataria dove morì nel 33.
Nei progetti di Seiano rientrava appunto il proposito di assicurarsi la successione nel ruolo di imperatore. Eliminati i discendenti diretti di Tiberio, il prefetto era ormai l'unico candidato alla successione: dopo aver già tentato inutilmente di imparentarsi con la famiglia imperiale sposando la vedova di Druso minore, Claudia Livilla, iniziò ad aspirare al conferimento della tribunicia potestas, che avrebbe formalmente sancito la sua successiva nomina ad imperatore, rendendo la sua persona sacra e inviolabile, e ottenne, intanto, nel 31 il consolato assieme allo stesso Tiberio. Contemporaneamente, però, la vedova di Druso maggiore, Antonia minore, facendosi portavoce dei sentimenti di gran parte della classe senatoriale, comunicò in una lettera a Tiberio tutti gli intrighi e i fatti di sangue di cui Seiano, che stava ordendo una cospirazione ai danni dello stesso imperatore, era responsabile; Tiberio, allertato decise allora di destituire il potente prefetto, e organizzò un'abile manovra con l'aiuto del prefetto dell'Urbe Macrone.
Per non destare sospetti, l'imperatore nominò Seiano pontefice, promettendo di conferirgli al più presto la tribunicia potestas; contemporaneamente, però, lasciò anticipatamente la carica di console, costringendo così anche il collega a rinunciarvi. Il 17 ottobre del 31, infine, Tiberio, nominato segretamente prefetto del pretorio il prefetto dell'Urbe e capo delle coorti urbane Macrone, lo inviò a Roma con l'ordine di accordarsi con Grecinio Lacone, prefetto dei Vigiles, e col nuovo console designato Publio Memmio Regolo, affinché convocasse per il giorno successivo il senato nel tempio di Apollo, sul Palatino. In tal modo Tiberio, garantendosi il sostegno delle coorti urbane e dei vigili, si era premunito contro un'eventuale reazione dei pretoriani in favore di Seiano.
Quando Seiano giunse in Senato, venne informato da Macrone dell'arrivo di una lettera di Tiberio annunciante il conferimento della potestà tribunizia. Così, mentre questi prendeva giubilante il proprio posto tra i senatori, Macrone, rimasto fuori dal tempio, allontanò i pretoriani di guardia facendoli sostituire dai vigili di Lacone. Poi, consegnata la lettera di Tiberio al console perché la leggesse al Senato, raggiunse i castra praetoria per annunciare la propria nomina a prefetto del pretorio. Nella lettera, volutamente molto lunga e vaga, Tiberio trattava di vari argomenti, di tanto in tanto intessendo le lodi di Seiano, a volte muovendogli qualche critica; solo alla fine, l'imperatore accusava all'improvviso il prefetto di tradimento, ordinandone la destituzione e l'arresto. Seiano, sbigottito per l'inatteso voltafaccia venne immediatamente condotto via in catene dai vigiles e poco dopo sommariamente processato dal Senato riunito nel tempio della Concordia: fu condannato a morte e alla damnatio memoriae.
La sentenza venne eseguita nella stessa notte nel Carcere Mamertino per strangolamento, e il corpo esanime del prefetto fu poi lasciato al popolo, che ne fece scempio trascinandolo per le strade dell'Urbe. A seguito dei provvedimenti che Seiano aveva preso contro Agrippina e la famiglia di Germanico, infatti, la plebe aveva sviluppato una forte avversione nei confronti del prefetto. Il Senato dichiarò il 18 ottobre festa pubblica, ordinando l'innalzamento di una statua alla Libertas con la seguente dedica:
« Alla salute perpetua di Augusto e alla Libertà del popolo romano, per la Provvidenza di Tiberio Cesare, figlio di Augusto, per l'eternità della gloria di Roma, [essendo stato] eliminato il pericolosissimo nemico. » (Dedica del Senato a Tiberio.)
Pochi giorni più tardi furono brutalmente strangolati nel Carcere Mamertino i tre giovani figli del prefetto; la sua ex-moglie, Apicata, si suicidò, dopo aver inviato una lettera a Tiberio rivelando le colpe di Seiano e Claudia Livilla in occasione della morte di Druso minore. Livilla fu dunque processata, e, per evitare una sicura condanna, si lasciò morire di fame. Alla morte di Seiano e dei suoi familiari seguirono poi una serie di processi contro gli amici e i collaboratori del defunto prefetto, che furono condannati a morte o costretti al suicidio.
Tiberio, intanto, trascorse l'ultima parte del suo regno sull'isola di Capri, circondato da uomini di studio, giuristi, letterati e anche astrologi: lì fece costruire dodici ville, per poi risiedere in quella che preferiva, la villa Jovis.
Dopo la caduta di Seiano si riaprì la questione della successione, e nel 33 anche Druso Cesare, il maggiore dei figli di Germanico rimasti in vita, morì di inedia dopo essere stato condannato al confino nel 30 con l'accusa di aver cospirato contro Tiberio. Quando Tiberio, nel 35, depositò il suo testamento, potendo scegliere fra tre possibili eredi, incluse nel testamento il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote collaterale Gaio, figlio di Germanico. Restò dunque escluso dal testamento il fratello dello stesso Germanico, Claudio, che era considerato del tutto inadatto al ruolo di princeps, in quanto debole di corpo e di dubbia sanità mentale. Il favorito nella successione apparve subito il giovane Gaio di venticinque anni, meglio noto come Caligola, poiché Tiberio Gemello, peraltro sospettato di essere in realtà figlio di Seiano (per le relazioni adulterine con la moglie di Druso minore, Claudia Livilla), aveva dieci anni di meno: due ragioni sufficienti per non lasciargli il Principato. Il prefetto del pretorio Macrone, infatti, dimostrò subito la sua simpatia per Gaio, guadagnandosene con ogni mezzo la fiducia.
Nel 37, Tiberio lasciò Capri, come aveva già fatto in precedenza, forse con l'idea di rientrare finalmente in Roma per trascorrervi i suoi ultimi giorni; intimorito però dalle reazioni che il popolo avrebbe avuto, si fermò a sole sette miglia dall'Urbe, e decise di tornare indietro verso la Campania. Qui fu colto da malore, e trasportato nella villa di Lucullo a Miseno; dopo un iniziale miglioramento, il 16 marzo cadde in uno stato di delirio e fu creduto morto. Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l'ascesa di Caligola, Tiberio si riprese ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che avevano già acclamato il nuovo imperatore; il prefetto Macrone, tuttavia, mantenendo la lucidità, ordinò che Tiberio fosse soffocato tra le coperte. Il vecchio imperatore, debole e incapace di reagire, spirò all'età di settantasette anni.
La plebe romana reagì con grande gioia alla notizia della morte di Tiberio, festeggiandone la scomparsa. Molti monumenti che celebravano le imprese dell'imperatore furono distrutti, così come numerose statue che lo raffiguravano. In molti tentarono di far cremare il corpo di Tiberio a Miseno, ma fu comunque possibile trasportarlo a Roma, dove fu cremato nel Campo Marzio e sepolto nel Mausoleo di Augusto il 4 aprile, presidiato dai pretoriani. Mentre l'imperatore defunto riceveva queste modeste onoranze funebri il 29 marzo, Caligola era già stato acclamato princeps dal senato.

Tiberio non si distinse mai per nessuna tendenza al rinnovamento. Durante il suo regno dimostrò, anzi, un rigido rispetto per la tradizione augustea, cercando di osservare tutte le istruzioni di Augusto. Suo scopo era quello di salvaguardare l'Impero, assicurandone la tranquillità interna ed esterna, oltre a consolidare il nuovo ordinamento evitando, tuttavia, che esso assumesse le caratteristiche di un dominato. Per mettere in atto questo suo piano utilizzò quali collaboratori e consiglieri personali molti di quegli ufficiali che lo avevano seguito nel corso delle lunghe e numerose campagne militari, durate quasi quarant'anni. Vi è da aggiungere che l'amministrazione dello Stato durante i primi anni di principato fu riconosciuta da tutti ottima per buon senso e moderazione. Lo stesso Tacito apprezzò le capacità del nuovo princeps almeno fino alla morte del figlio Druso avvenuta nel 23.
La stessa cosa dicasi nelle relazioni tra Tiberio e la nobilitas senatoriale, che furono, tuttavia, diverse da quelle instauratesi con Augusto. Il nuovo imperatore, infatti, appariva, per meriti e ascendenze, diverso dal patrigno, che aveva posto fine alle guerre civili, riportato la pace all'impero, e ottenuto di conseguenza una grandissima autorevolezza. Tiberio dovette quindi basare il rapporto tra princeps e nobiltà senatoriale su una moderatio che accresceva il potere di entrambi, sovrapponendolo a quello del tradizionale ordine gerarchico; stabilì, inoltre, una netta distinzione tra gli onori che andavano tributati agli imperatori viventi e il culto di quelli defunti divinizzati.
Nonostante questi provvedimenti, che contribuivano a mantenere in vita la "finzione repubblicana", non mancarono, accanto agli adulatori, esponenti della classe senatoriale che osteggiarono fortemente l'opera di Tiberio. Tuttavia nei primi anni Tiberio, seguendo il modello augusteo, cercò sinceramente una cooperazione con il senato, partecipando sovente alle sue sedute e rispettandone la libertà di discussione, consultandolo anche su questioni che era in grado di risolvere da solo e ampliandone le stesse funzioni amministrative. Egli sosteneva infatti che il buon princeps deve servire il senato (bonum et salutarem principem senatui servire debere).
Il principe si consultava spesso con il senato tramite i senatus consulta, talvolta su questioni fuori della sua competenza, ad esempio sulle questioni di carattere religioso, ambito nel quale Tiberio mostrò una particolare avversione per i culti orientali: nel 19 furono infatti resi illegali i culti caldei e giudaici, e coloro che li professavano furono costretti all'arruolamento o espulsi dall'Italia. Ordinò di bruciare ogni paramento e oggetto sacro adoperato per i culti in questione, e, mediante l'arruolamento, poté inviare i giovani di religione ebraica nelle regioni più lontane e malsane, in modo da infliggere un duro colpo alla diffusione del culto.
Tiberio riformò almeno in parte l'ordinamento augusteo contro il celibato, incentrato sulla lex Papia Poppea: egli, pur senza abolire le disposizioni del patrigno, nominò una commissione che si occupò di riformare l'ordinamento e di rendere meno severe le pene da comminare ai celibi, o a coloro che, pur sposati, non avevano figli; furono, tuttavia, ugualmente presi dei provvedimenti che tenessero a freno il lusso e garantissero la moralità dei costumi.
Tra i provvedimenti più importanti rientra, poi, l'approvazione della lex de maiestate, che prevedeva che fossero perseguibili e passibili di condanna tutti coloro che avessero recato offesa alla maestà del popolo romano. Sulla base di una legge tanto vaga poteva ritenersi colpevole sia chi si fosse reso responsabile di una sconfitta militare o di una sedizione, sia chi avesse male amministrato lo Stato. La legge, che tornava in vigore dopo essere stata abrogata, divenne presto uno strumento nelle mani dell'imperatore, del senato, e soprattutto del prefetto Seiano, per incriminare gli oppositori politici. Tiberio, tuttavia, si mostrò più volte contrario alle sentenze politiche, evitando che i processi fossero determinati da raccomandazioni e incitando più volte i magistrati ad agire in totale onestà.
Tiberio risultò eccellente nella gestione finanziaria, tanto da lasciare alla sua morte un avanzo memorabile nelle casse dello Stato: per fare solo pochi esempi, i beni del re Archelao di Cappadocia divennero proprietà imperiale, come pure alcune miniere della Gallia della moglie Giulia, una miniera d'argento tra i ruteni, una d'oro di un certo Sesto Mario in Spagna confiscata nel 33, e altre ancora. Affidò l'amministrazione del patrimonio dello Stato a funzionari particolarmente oculati, il cui incarico durava spesso fino alla vecchiaia; fu sempre pronto e generoso nell'intervento in ogni circostanza interna difficile, come durante le carestie che la plebe urbana patì o come quando nel 36 costituì un sussidio, in seguito a un incendio sull'Aventino, di cento milioni di sesterzi. Nel 33, dopo aver preso alcuni provvedimenti contro l'usura, riuscì ad attenuare una grave crisi agraria e finanziaria provocata da una riduzione della circolazione monetaria, istituendo con il proprio patrimonio personale un fondo di prestito di altri cento milioni di sesterzi, dal quale i debitori potevano attingere per tre anni senza interessi, purché possedessero, a garanzia, terreni di valore doppio rispetto alla somma chiesta in prestito. Egli, appena possibile, cercò di razionalizzare la spesa pubblica per gli spettacoli riducendo le paghe degli attori e diminuendo il numero delle coppie di gladiatori che partecipavano ai giochi; ridusse di conseguenza dall'1% allo 0,5% l'impopolare tassa sulle vendite, e lasciò, alla sua morte, 2.700 milioni di sesterzi nelle casse del Tesoro. Ai governatori provinciali che lo invitavano a imporre nuove imposte, egli si oppose fermamente, rispondendo che è compito del buon pastore tosare le pecore, non scorticarle.

La politica militare di Tiberio
Tiberio si mantenne fedele al consilium coercendi intra terminos imperii di Augusto, ovvero alla decisione di mantenere i confini dell'impero invariati, cercando di salvaguardare i territori interni e di assicurarne la tranquillità e operò soltanto i cambiamenti necessari per la sicurezza. Egli riuscì ad evitare guerre o spedizioni militari inutili, con le conseguenti spese, riponendo una fiducia maggiore nella diplomazia. Allontanò i re clienti e i governatori che si erano rivelati inadatti al loro ruolo, e cercò di garantire un sistema amministrativo più efficiente. Le uniche modifiche territoriali interessarono, infatti, il solo Oriente, quando alla morte dei re clienti, Cappadocia, Cilicia e Commagene furono incorporate nei confini imperiali. Tutte le rivolte che si susseguirono nel suo lungo principato, durato 23 anni, furono soffocate nel sangue dai suoi generali, come quella di Tacfarinas e dei suoi musulami dal 17 al 24, o in Gallia di Giulio Floro e Giulio Sacroviro nel 21, o in Tracia tra i re clienti degli Odrisi attorno al 21.
Durante l'impero di Tiberio, le forze militari erano dislocate con la seguente disposizione: la tutela dell'Italia era affidata a due flotte, quella di Ravenna (classis Ravennatis) e quella di Capo Miseno (classis Misenensis), e Roma, in particolare, era difesa dalle nove coorti pretorie, che Seiano fece riunire in un accampamento alle porte dell'Urbe, e da tre coorti urbane. Il nordovest dell'Italia era invece presidiato da un'ulteriore flotta, all'ancora sulle coste della Gallia, costituita dalle navi rostrate che Augusto aveva catturato ad Azio. Le restanti forze erano stanziate nelle province, con l'obiettivo di salvaguardare i confini e reprimere eventuali rivolte interne: otto legioni erano schierate nella zona del Reno a protezione dalle invasioni germaniche e dalle rivolte galliche, tre legioni si trovavano in Spagna, e due tra le province dell'Egitto e dell'Africa, dove Roma poteva anche contare sull'aiuto del regno di Mauretania. Ad Oriente, quattro legioni erano stanziate tra la Siria e il fiume Eufrate. Nell'Europa orientale, infine, due legioni erano stanziate in Pannonia, due in Mesia, a protezione del confine danubiano, e due in Dalmazia. Dislocati ovunque sul territorio, in modo da poter intervenire dove ce ne fosse bisogno, erano altre piccole flotte di triremi, battaglioni di cavalleria e gruppi di ausiliari reclutati tra gli abitanti delle province.
Riguardo alla politica estera lungo i confini settentrionali, Tiberio seguì il principio di mantenere e consolidare una barriera contro i germani lungo la linea del Reno, ponendo fine, dopo pochi anni dalla salita al trono, alle operazioni militari improduttive e pericolose che Germanico aveva intraprese negli anni 14-16. Tacito che ammirava Germanico, e aveva poca simpatia per Tiberio, imputò la decisione del princeps alla sola invidia per i successi raggiunti dal nipote. Tiberio che gli riconosceva il merito di aver ridato lustro al prestigio romano tra i Germani, ritenne al contrario e a ragione, che un nuovo tentativo di stabilire il confine sull'Elba avrebbe implicato un allontanamento dalla politica di Augusto, considerata da Tiberio come un praeceptum, oltre a comportare un notevole aumento della spesa militare e l'obbligo di condurre poi una successiva campagna in Boemia contro Maroboduo, re dei marcomanni. Tiberio, inoltre, non lo reputava né utile né necessario. I dissensi interi delle tribù germaniche produssero di lì a poco una guerra tra catti e cherusci, una successiva tra Arminio e Maroboduo, fino a quando quest'ultimo fu esiliato nel 19, mentre il primo assassinato (nel 21).
Nel 14, mentre era in corso la rivolta delle legioni in Pannonia, anche gli uomini stanziati lungo il confine germanico si ribellarono ai loro comandanti, dando inizio a un'efferata serie di violenze e massacri. Germanico, allora, che era a capo dell'esercito stanziato in Germania e godeva di grande prestigio, si incaricò di riportare alla calma la situazione, confrontandosi personalmente con i soldati in rivolta. Essi chiedevano, come i loro compagni pannoni, la riduzione della durata del servizio militare e l'aumento della paga: Germanico decise di concedere loro il congedo dopo venti anni di servizio e di inserire nella riserva tutti i soldati che avevano combattuto per oltre sedici anni, esonerandoli così da ogni obbligo ad eccezione di quello di respingere gli assalti nemici; raddoppiò allo stesso tempo i lasciti a cui, secondo i testamento di Augusto, i militari avevano diritto. Le legioni, che avevano da poco appreso della recente morte di Augusto, arrivarono addirittura a garantire il proprio appoggio al generale se avesse desiderato impadronirsi del potere con la forza, ma egli rifiutò dimostrando allo stesso tempo grande rispetto per il padre adottivo Tiberio e una grande fermezza. La rivolta, che aveva attecchito tra molte delle legioni di stanza in Germania, risultò comunque difficile da reprimere, e si concluse con la strage di molti legionari ribelli. I provvedimenti presi da Germanico per soddisfare le esigenze delle legioni furono poi ufficializzati da Tiberio, che assegnò le stesse indennità anche ai legionari pannoni.
Ripreso il controllo della situazione, Germanico decise di organizzare una spedizione contro le popolazioni germaniche che, venute a conoscenza delle notizie della morte di Augusto e della ribellione delle legioni, avrebbero potuto decidere di lanciare un nuovo attacco contro l'impero. Assegnata, dunque, parte delle legioni al luogotenente Aulo Cecina Severo, attaccò le tribù di bructeri, tubanti e usipeti, sconfiggendole nettamente e compiendo numerose stragi; attaccò, poi, i marsi, ottenendo nuove vittorie e pacificando così la regione ad ovest del Reno: poté in questo modo progettare per il 15 una spedizione ad est del grande fiume, con la quale avrebbe potuto vendicare Varo e frenare ogni volontà espansionistica dei germani.
Nel 15, dunque, Germanico attraversò il Reno assieme al luogotenente Cecina Severo, che sconfisse nuovamente i marsi, mentre il generale ottenne una netta vittoria sui catti. Il principe dei cherusci Arminio, che aveva sconfitto Varo a Teutoburgo, incitò allora tutte le popolazioni germaniche alla rivolta, invitandole a combattere contro gli invasori romani; si formò, tuttavia, anche un piccolo partito filoromano, guidato dal suocero di Arminio, Segeste, che offrì il proprio aiuto a Germanico. Questi si diresse verso Teutoburgo, dove poté ritrovare una delle aquile legionarie perdute nella battaglia di sei anni prima, e rese gli onori funebri ai caduti le cui ossa erano rimaste insepolte. Decise, poi, di inseguire Arminio per affrontarlo in battaglia; il principe germanico, però, attaccò gli squadroni di cavalleria che Germanico aveva mandato in avanscoperta sicuro di poter cogliere il nemico impreparato, e fu dunque necessario che l'intero esercito legionario intervenisse per evitare una disastrosa sconfitta. Germanico, allora, decise di tornare a ovest del Reno assieme ai suoi uomini; mentre si trovava sulla strada del ritorno presso i cosiddetti pontes longi, Cecina fu attaccato e sconfitto da Arminio, che lo costrinse a retrocedere all'interno dell'accampamento. I germani, allora, convinti di poter avere la meglio sulle legioni, assaltarono l'accampamento stesso, ma furono a loro volta duramente sconfitti, e Cecina poté condurre le legioni sane e salve ad ovest del Reno.
Nonostante avesse riportato una sostanziale vittoria, Germanico era cosciente che i germani erano ancora in grado di riorganizzarsi, e decise, nel 16, di condurre una nuova campagna che avesse l'obiettivo di annientare definitivamente le popolazioni tra il Reno e l'Elba. Per giungere indisturbato nelle terre dei nemici, decise di approntare una flotta che conducesse le legioni fino alla foce del fiume Amisia: in tempi rapidi furono approntate oltre mille navi agili e veloci, in grado di trasportare numerosi uomini ma dotate anche di macchine da guerra per la difesa. Non appena i romani sbarcarono in Germania, le tribù del luogo, riunite sotto il comando di Arminio, si prepararono a fronteggiare gli invasori e si riunirono a battaglia presso Idistaviso; gli uomini di Germanico, ben più preparati dei loro nemici, fronteggiarono i germani, e riportarono una schiacciante vittoria. Arminio e i suoi si ritirarono presso il Vallo Angirvariano, ma subirono un'altra durissima sconfitta da parte dei legionari romani: le genti che abitavano tra il Reno e l'Elba erano così state debellate. Germanico ricondusse dunque i suoi in Gallia, ma, sulla strada del ritorno, la flotta romana fu dispersa da una tempesta e costretta a subire notevoli perdite; l'inconveniente occorso ai romani diede nuovamente ai germani la speranza di poter ribaltare le sorti della guerra, ma i luogotenenti di Germanico poterono facilmente avere la meglio sui nemici. Sebbene Roma non fosse dunque riuscita ad espandere la sua area d'influenza, il confine stabilito dal Reno era, così, protetto da altre eventuali rivolte germaniche; a segnare in modo ancora più netto la fine delle ribellioni delle genti del luogo intervenne, nel 19, la morte di Arminio, che, dopo aver sconfitto in guerra il re filoromano dei marcomanni, Maroboduo, fu tradito e ucciso dai suoi compagni quando aspirava ormai al regno.
A Oriente la situazione politica, dopo un periodo di relativa tranquillità successivo agli accordi tra Augusto e i sovrani partici, tornò a farsi conflittuale: a causa delle lotte intestine, Fraate IV e i suoi figli morirono mentre a Roma regnava ancora Augusto, e i parti chiesero dunque che Vonone, figlio di Fraate inviato tempo prima come ostaggio, potesse tornare in Oriente, per salire al trono in qualità di unico membro ancora in vita della dinastia arsacide. Il nuovo sovrano, però, estraneo alle tradizioni locali, risultò inviso ai parti stessi, e fu quindi sconfitto e scacciato da Artabano II, e costretto a rifugiarsi in Armenia. Qui i re imposti sul trono da Roma erano morti, e Vonone fu dunque scelto come nuovo sovrano; tuttavia, ben presto Artabano fece pressione su Roma perché Tiberio destituisse il nuovo re armeno, e l'imperatore, per evitare di dover intraprendere una nuova guerra contro i parti, fece arrestare Vonone dal governatore romano di Siria.
A turbare la situazione orientale intervennero anche le morti del re della Cappadocia Archelao, che era venuto a Roma a rendere omaggio a Tiberio, di Antioco III, re di Commagene, e di Filopatore, re di Cilicia: i tre stati, che erano vassalli di Roma, si trovavano in una situazione di instabilità politica, e si acuivano i contrasti tra il partito filoromano e i fautori dell'autonomia. La difficile situazione orientale rendeva necessario un intervento romano, e Tiberio nel 18 inviò il figlio adottivo, Germanico, che fu nominato console e insignito dell'imperium proconsolaris maius su tutte le province orientali. Contemporaneamente l'imperatore nominò un nuovo governatore per la provincia di Siria, Gneo Calpurnio Pisone, che era stato suo collega durante il consolato del 7 a.C. Giunto in Oriente, Germanico, con il consenso dei parti, incoronò ad Artaxata un nuovo sovrano d'Armenia: il regno, infatti, dopo la deposizione di Vonone era rimasto privo di una guida, e Germanico conferì la carica di re al giovane Zenone, figlio del sovrano del Ponto Polemone I. Stabilì, inoltre, che Commagene ricadesse sotto la giurisdizione di un pretore, pur mantenendo la propria formale autonomia, che la Cappadocia fosse istituita come provincia a sé stante, e che la Cilicia entrasse invece a far parte della provincia di Siria. Germanico aveva così brillantemente risolto tutti i problemi che avrebbero potuto far temere l'accendersi di nuove situazioni di conflitto nella regione orientale. Ricevette, intanto, un'ambasceria da parte del re dei parti Artabano, che era intenzionato a confermare e rinnovare l'amicizia e l'alleanza dei due imperi: in segno di omaggio alla potenza romana Artabano decise di recarsi in visita da Germanico in riva al fiume Eufrate, e chiese che in cambio Vonone fosse scacciato dalla Siria, dov'era rimasto dal momento del suo arresto, poiché fomentava nuove discordie; Germanico accettò di rinnovare l'amicizia con i parti, e acconsentì dunque all'allontanamento dalla Siria di Vonone, che aveva stretto un legame di amicizia con il governatore Pisone. L'ex-re dell'Armenia fu dunque confinato nella città di Pompeiopoli in Cilicia, e morì poco tempo dopo, ucciso da alcuni cavalieri romani mentre tentava la fuga. Nel 19 anche Germanico morì, dopo aver evitato con oculati provvedimenti che una carestia sviluppatasi in Egitto avesse conseguenze catastrofiche per la provincia stessa.
La sistemazione dell'Oriente approntata da Germanico garantì la pace fino al 34: in quell'anno il re Artabano II di Partia, convinto che Tiberio, ormai vecchio, non avrebbe opposto resistenza da Capri, pose il figlio Arsace sul trono di Armenia dopo la morte di Artaxias. Tiberio, allora, decise di inviare Tiridate, discendente della dinastia arsacide tenuto in ostaggio a Roma, a contendere il trono partico ad Artabano, e sostenne l'insediamento di Mitridate, fratello del re di Iberia, sul trono di Armenia. Mitridate, con l'aiuto del fratello Farasmane, riuscì a impossessarsi del trono di Armenia: i servi di Arsace, corrotti, uccisero il loro padrone, gli iberi invasero il regno e sconfissero, alleatisi con i popoli locali, l'esercito dei parti guidato da Orode, figlio di Artabano. Artabano, temendo un nuovo massiccio intervento da parte dei romani, rifiutò di inviare altre truppe contro Mitridate, e abbandonò le proprie pretese sul regno di Armenia. Contemporaneamente, gli odi che Roma fomentava tra i parti contro Artabano costrinsero il re a lasciare il trono e a ritirarsi, mentre il controllo del regno passava all'arsacide Tiridate. Poco tempo più tardi, tuttavia, quando Tiridate era sul trono da circa un anno, Artabano, radunato un grosso esercito, marciò contro di lui; l'arsacide inviato da Roma, impaurito, fu costretto a ritirarsi, e Tiberio dovette accettare che lo stato dei parti continuasse ad essere governato da un sovrano ostile ai Romani.
Nel 17, il numida Tacfarinas, che aveva servito come ausiliario nell'esercito romano, iniziò a raccogliere attorno a sé numerosi briganti, ma divenne poi guida dell'intero popolo dei musulami, nomadi che abitavano le zone vicine al deserto del Sahara. Organizzato un esercito con il quale compiere razzie e tentare di intaccare il dominio romano, Tacfarinas attirò dalla sua parte i mauri guidati da Mazippa; il proconsole d'Africa Marco Furio Camillo, allora, si affrettò a marciare contro Tacfarinas e i suoi alleati, nel timore che i ribelli rifiutassero di ingaggiare battaglia, e li sconfisse nettamente, meritandosi anche le insegne trionfali.
L'anno successivo, Tacfarinas riprese le ostilità, iniziando una serie di attacchi e razzie contro villaggi e accumulando un grosso bottino; cinse infine d'assedio una coorte dell'esercito romano, e riuscì a sconfiggerla. Allora, il nuovo proconsole, che era succeduto a Camillo, inviò il corpo dei veterani contro Tacfarinas, che fu sconfitto. Il numida, allora, intraprese una tattica di guerriglia contro i romani, ma, dopo alcuni successi iniziali, fu nuovamente sconfitto, e ricacciato nel deserto.
Dopo alcuni anni di pace, nel 22 Tacfarinas inviò ambasciatori presso Tiberio a Roma, affinché chiedessero per lui e per i suoi uomini la possibilità di risiedere stabilmente all'interno dei territori romani; se Tiberio non avesse accettato le condizioni, il numida minacciava di scatenare una nuova guerra che avrebbe protratto a oltranza. L'imperatore, tuttavia, considerò la minaccia di Tacfarinas come un oltraggio al potere di Roma, e ordinò di condurre una nuova offensiva contro i ribelli numidi. Il comandante dell'esercito romano, Bleso, decise di adottare una strategia simile a quella che Tacfarinas aveva a sua volta adottato nel 18: egli divise il suo esercito in tre colonne, con le quali poté attaccare ripetutamente i nemici e costringerli alla ritirata. Il successo sembrò essere definitivo, tanto che Tiberio acconsentì alla proclamazione ad imperator di Bleso.
La guerra contro Tacfarinas ebbe fine soltanto nel 24: nonostante le sconfitte sofferte fino ad allora, il ribelle numida continuava a resistere, e decise di condurre ancora un'offensiva contro i romani. Cinse dunque d'assedio una piccola cittadina, ma fu subito attaccato dall'esercito romano e costretto a retrocedere; molti capi ribelli, tuttavia, furono catturati e uccisi. All'inseguimento dei fuggiaschi si lanciarono i battaglioni di cavalleria e le coorti leggere, rinforzate anche dagli uomini inviati dal re Tolomeo di Mauretania, che alleato dei romani, aveva deciso di scendere in guerra contro Tacfarinas, che aveva danneggiato anche il suo regno. Raggiunti, i ribelli numidi diedero nuovamente battaglia, ma furono sconfitti; Tacfarinas, certo dell'inevitabilità di una sconfitta definitiva, si gettò nel mezzo delle schiere nemiche, e cadde trafitto dai colpi. Con la morte dell'uomo che l'aveva saputa organizzare, la rivolta ebbe fine.
Nel 21 gli abitanti della Gallia, oppressi dalla richiesta di esosi tributi e imposte, si ribellarono spinti da Giulio Floro e Giulio Sacroviro. I due organizzatori della rivolta, uno membro della tribù dei treviri, l'altro di quella degli edui, godevano della cittadinanza romana, che i loro antenati avevano ricevuto per i servigi prestati allo Stato, e conoscevano il sistema politico e militare romano. Per avere maggiori speranze di successo, decisero di estendere la ribellione a tutte le tribù della Gallia, e intrapresero dunque numerosi viaggi, guadagnando alla propria causa anche i belgi. Tiberio tentò di evitare un intervento diretto di Roma, ma quando i galli arruolati nelle milizie ausiliarie iniziarono a defezionare, le legioni marciarono contro Floro e lo sconfissero presso la selva Arduenna. Il capo dei treviri, vedendo che per il suo esercito non v'era alcuna via di fuga, decise di uccidersi; per i suoi, rimasti senza una guida autorevole, ebbe dunque fine la ribellione. Sacroviro assunse allora il comando generale della ribellione, radunando attorno a sé tutte le tribù ancora disposte a combattere contro Roma; presso Augustodunum fu attaccato dall'esercito romano e, dopo aver dato prova di notevole valore, fu sconfitto. Anch'egli, per non finire nelle mani dei nemici, decise di togliersi la vita assieme ai suoi più fedeli collaboratori; morti coloro che l'avevano saputa organizzare, la ribellione delle Gallie finì, senza che si fosse ottenuta nessuna riduzione delle gravose imposte che gli abitanti del territorio dovevano pagare.
Nel 14, non appena le legioni stanziate nella regione dell'Illirico vennero a conoscenza della notizia della morte di Augusto, scoppiò una rivolta fomentata dai legionari Percennio e Vibuleno. Essi speravano infatti di poter scatenare una nuova guerra civile da cui trarre notevoli guadagni e, allo stesso tempo, intendevano migliorare le condizioni in cui si trovavano tutti i militari: chiedevano infatti che si riducessero gli anni di servizio militare, e che il loro salario giornaliero venisse portato ad un denario. Tiberio, da poco salito al potere, rifiutò di intervenire personalmente, e inviò presso le legioni il figlio Druso assieme ad alcuni cittadini romani e due coorti pretorie assieme a Lucio Elio Seiano, figlio del prefetto del pretorio Seio Strabone. Druso pose fine alla rivolta uccidendo i capi Percennio e Vibuleno e attuando ulteriori repressioni contro i ribelli; ai legionari non furono fatte sul momento particolari concessioni, ma essi poterono poi beneficiare delle stesse indennità che Germanico concesse più tardi alle legioni di Germania.
Nell'area dell'ex-Illirico, Tiberio dispose nel 15 che le province senatorie di Acaia e Macedonia fossero unite alla provincia imperiale di Mesia, prorogando l'incarico del governatore Gaio Poppeo Sabino (che rimase in carica 21 anni dal 15 al 36) e dei suoi successori.
Anche in Tracia la situazione di tranquillità dell'epoca augustea si ruppe alla morte del re Remetalce I, alleato di Roma: il regno fu diviso in due parti, che furono assegnate al figlio e al fratello del re defunto, Cotys V e Rescuporide. A Cotys spettò la regione vicina alla costa e alle colonie greche, a Rescuporide quella selvaggia e incolta dell'interno, esposta agli attacchi degli ostili popoli confinanti. Rescuporide, allora, deciso a impossessarsi delle terre spettate al nipote, iniziò a condurre contro il suo regno una serie di azioni violente; nel 19, Tiberio, nel tentativo di evitare lo scoppio di una nuova guerra che avrebbe probabilmente richiesto l'intervento di truppe romane, inviò emissari ai due re traci, favorendo l'avvio delle trattative di pace. Rescuporide, tuttavia, non desistette dal suo proposito, ma fece anzi imprigionare Cotys impossessandosi del suo regno, e chiese poi che Roma riconoscesse la sua sovranità su tutta la Tracia. Tiberio invitò allora lo stesso Rescuporide a raggiungere l'Urbe per giustificare l'arresto di Cotys, ma il re trace si rifiutò e uccise il nipote. Tiberio inviò allora da Rescuporide il governatore della Mesia Pomponio Flacco, che, vecchio amico del re trace, lo convinse a recarsi a Roma; ivi Rescuporide fu processato e condannato al confino per l'uccisione di Cotys, e morì più tardi mentre si trovava ad Alessandria. Il regno di Tracia fu diviso tra Remetalce III, figlio di Rescuporide che aveva apertamente osteggiato i piani del padre, e i giovanissimi figli di Cotys, in nome dei quali fu nominato reggente l'ex-pretore Trebelleno Rufo.

Eugenio Caruso - 03 febbraio 2018

LOGO


www.impresaoggi.com