La malvagità e i social network
Qualche mese fa ho avuto l'ardire di analizzare alcuni aspetti impropri dell'uso di face book, che da strumento fondamentale per la comunicazione digitale è anche diventato strumento negativo e spesso pericoloso in mani di persone che ne hanno stravolto la funzione. In quell'articolo mi sono permesso di individuare otto categorie di utenti che utilizzano il network in maniera impropria. L'esperimento della prigione di Stanford fu un esperimento psicologico volto a indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. L'esperimento prevedeva l'assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all'interno di un finto carcere. Fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. Gli inattesi risultati ebbero dei risvolti così drammatici da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione; Zimbardo soprannominò i risultati dell'esperimento come "effetto Lucifero". Lucifero, l'angelo amato da Dio e portatore di luce che viene scacciato dal paradiso a causa della sua malvagità. Zimbardo si rifaceva ad alcune idee dello studioso francese del comportamento sociale Gustave Le Bon; in particolare la teoria della deindividuazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso, tendono a perdere l'identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali. Tale processo fu analizzato da Zimbardo nel celebre esperimento, realizzato nell'estate del 1971 nel seminterrato dell'Istituto di psicologia dell'Università di Stanford, a Palo Alto, dove fu riprodotto in modo fedele l'ambiente di un carcere. Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l'ordine, ad eccezione della violenza fisica. Il loro abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione. I risultati di questo esperimento andarono molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all'interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude e individuarono alcuni "collaborazionisti". A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l'esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati e dall'altro un certo disappunto da parte delle guardie; ricordo che l'esperimento sarebbe dovuto durare 15 giorni. Secondo l'opinione di Philip Zimbardo, la prigione finta, nell'esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, era diventata una prigione vera. Molti dei ragazzi non credettero, fino all'ultimo, di trovarsi all'interno dell'Università. Assumere una funzione di controllo sugli altri nell'ambito di una istituzione come quella del carcere, assumere cioè un ruolo istituzionale, induce ad assumere le norme e le regole dell'istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi, induce cioè quella "ridefinizione della situazione" utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone. Il processo della perdita della propria individualità induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l'espressione di comportamenti distruttivi. La deindividuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un'aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni del gruppo: l'individuo pensa, in altri termini, che le proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo. L'importanza e l'attualità degli studi di Zimbardo e di altri ricercatori, sarebbe dimostrata dalle vicende riguardanti le torture cui furono sottoposti i prigionieri iracheni nella Prigione di Abu Ghraib, ad opera di militari statunitensi, durante l'occupazione militare dell'Iraq, iniziata nel 2003. Le immagini diffuse dai media, che ritraggono le sevizie e le umiliazioni subite dai prigionieri, risultano drammaticamente simili a quelle prodotte durante l'esperimento dell'Università di Stanford. "Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv." (Umberto Galimberti, la Repubblica, 12/03/2008 ). Come esprime molto bene il professor Galimberti riflettendo sul pensiero del prof. Zimbardo il limite tra bene e male è, obiettivamente, sfumato così come sono sfumate le ragioni che stanno alla base di comportamenti razionalmente inaccettabili e, talvolta, antisociali. Mi sembra giusto, a questo punto, introdurre l'articolo di Nicolò Scaduto che menzionando l'esperimento di Zimbardo si rifà allla figura di Adolf Eichmann, colui che materialmente e burocraticamente organizzò, promosse e attuò con grande dedizione la soluzione finale contro gli ebrei ideata dall'esatablishment nazista durante la seconda guerra mondiale. Eichmann sfuggito al processo di Norimberga si rifugiò in Argentina dove però, a distanza di alcuni anni fu catturato dai servizi segreti israeliani, fu processato e condannato a morte. Quello che rimarrà alla storia, oltre all'aver concorso alla soluzione finale nazista, è il modo in cui, durante il suo processo, Eichmann tentò di costruire la sua difesa e che fece partorire alla filosofa e giornalista statunitense Hannah Arendt la famosa frase riguardante Eichmann definito come “l'incarnazione dell'assoluta banalità del male.” Ebbene Eichmann incalzato dai suoi accusatori si difese negando di odiare gli ebrei e si assunse solo la responsabilità di aver eseguito ordini come qualunque altro soldato in tempo di guerra. Situazione analoga è quella del pilota ameicano che sganciò la bomba atomica su Hiroshima che intervistato da Günther Anders, alla domanda “che cosa provava?” rispose "Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)". Quando le responsabilità vengono “condivise” , e le conseguenze delle nostre azioni pesano meno, diventiamo, come esprime molto bene con il titolo del suo libro Günther Anders “Figli di Eichmann”, subendo il già sopra citato “effetto Lucifero” secondo cui, anche persone "buone" dipendentemente dal proprio sistema sociale di appartenenza e dalle situazioni in cui vanno a trovarsi, diventano capaci di compiere azioni che fuori dal nostro sistema sociale di riferimento ci atterrirebbero. Zimbardo ci aiuta a capire che c'è qualcosa, nel cosiddetto Male assoluto, che non è affatto mostruoso e non umano, ma proprio umano, troppo umano, qualcosa che ci riguarda tutti, almeno come terribile possibilità non ancora espressa; su face book non si violentano corpi e anime, non si tortura, non si stermina, ma si incrudelisce, godendone, su coloro che non appartengono al nostro gruppo. Eugenio Caruso - 5 febbraio - 2018 |
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