Le nuove identit degli italiani

La societa' italiana evolve velocemente, al traino dei grandi trend demografici. Di meno, piu' vecchi e concentrati al Nord, solo i "nuovi italiani" potranno mitigare lo spopolamento di alcune aree del Paese. L'istituto della famiglia e' in continuo mutamento, prevalgono forme di unione piu' snelle e flessibili: piu' convivenze, piu' separazioni, piu' distanza anagrafica tra gli sposi. Cambia anche il mercato del lavoro che diventa sempre piu' smart nelle forme e nelle modalita', mentre ritrova smalto il mito del posto fisso, soprattutto tra i piu' giovani. In questo contesto in evoluzione si va sviluppando anche nel nostro Paese la gig economy (l'economia dei lavoretti) che puo' offrire nuove opportunita' di integrazione al reddito per giovani e maturi.
Preoccupati per l'ambiente e l'ondata migratoria, gli italiani sono diventati diffidenti ma continuano a contare sui rapporti familiari. Benessere ed estetica diventano le nuove parole d'ordine della quotidianita' delle persone: da gioielli e abbigliamento ad acconciature, tatuaggi e ritocchi, il corpo diventa emblema di identita' personale. D'altra parte, gli italiani coltivano la propria spiritualita', prediligendo forme piu' leggere e meno impegnative che si concretizzano nella diffusione del buddhismo, delle filosofie orientali, dello yoga e della meditazione.
Innamorati della tecnologia, essi non possono rinunciare allo smartphone di ultima generazione, anche se sorgono le prime crepe nel rapporto con i social network: bullismo e fake news rappresentano il lato oscuro del web da cui gli italiani vogliono difendersi.

Un nosocomio: con questa immagine avevamo rappresentato l'Italia del futuro nelle pagine del Rapporto Coop 2016. Un Paese che si stava preparando ad essere piu' vecchio e meno popolato, con individui irrimediabilmente piu' soli e orfani dai tradizionali legami di tipo familiare. Eppure, incrociando statistiche e proiezioni demografiche nazionali ed internazionali, la metafora della casa di cura non e' sufficiente per descrivere adeguatamente l'Italia che verra'. Elementi emergenti contribuiscono infatti a disegnare il ritratto di un Paese che tra cinquant'anni sara' profondamente diverso da quello attuale.
Sulla base dello scenario centrale delle recenti previsioni demografiche dell'Istat, la popolazione residente e' attesa decrescere dai 60,7 milioni di abitanti attuali a 58,6 milioni entro il 2045 per poi ripiegare ulteriormente sino ai 53,7 milioni del 2065, con una perdita complessiva di 7 milioni di persone (-11,5% rispetto ai valori odierni). In altre parole, indietro di cinquanta anni rispetto ad oggi: 54 milioni era infatti la popolazione italiana agli inizi degli anni Settanta.
Cio' che rileva non e' tanto il processo di arretramento del numero dei residenti, fenomeno del resto ampiamente indagato e documentato, quanto la distribuzione sul territorio nazionale degli italiani del futuro. Le statistiche raccontano infatti di un Paese vittima di una preoccupante desertificazione demografica che finira' per accentuare la frattura Nord-Sud: lo spopolamento andra' infatti a colpire segnatamente le aree meno prospere del Paese, innescando una spinta migratoria dalle Regioni meridionali a quelle settentrionali che nelle dimensioni sara' paragonabile a quella osservata a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. All'epoca del "miracolo economico italiano" si realizzo' infatti la piu' imponente migrazione di massa della storia del nostro Paese: milioni di lavoratori si spostarono dal Mezzogiorno, abbandonando l'agricoltura, in direzione delle aree piu' dinamiche del Nord. Nelle Regioni settentrionali risiedera' un abitante su due, mentre in quelle del Sud e nelle Isole l'incidenza della popolazione su quella nazionale scendera' progressivamente sotto la soglia del 30%. A spopolarsi saranno in prevalenza i centri periferici, lontani dalle rotte dell'industria e del turismo, i medesimi che hanno gia' sofferto di una riduzione del 20% della popolazione nel corso degli ultimi quaranta anni.
Anche l'impatto sulla domanda interna sarebbe ingente: un monte atteso di minori consumi pari a 130 miliardi di euro ai prezzi attuali (-12,7%), l'equivalente della spesa annuale dell'intero Paese per alberghi e ristoranti e poco meno di tutti i consumi alimentari. Un cambiamento al quale non sara' facile prepararsi. Oltre a un cambiamento della distribuzione degli abitanti, la dinamica del fenomeno sara' influenzata dalla portata dei movimenti migratori dall'estero: si tratta di una variabile che contribuisce ad alimentare l'incertezza, soprattutto in ragione della delicatezza del quadro geopolitico nell'area mediorientale e nel continente africano. Secondo le stime disponibili, entro il 2065 il saldo migratorio fara' aumentare i residenti stranieri in Italia di ulteriori 7,7 milioni di persone, facendo crescere il peso della popolazione di origine straniera sul totale a poco meno del 25%.
A tal proposito, giova ricordare che e' in atto un ampio dibattito sulla sostenibilita' e l'efficacia delle politiche di accoglienza e integrazione dei migranti: a lungo il governo italiano ha avanzato proposte circa una piu' equa riallocazione dei nuovi arrivati su scala sovranazionale e sulla base di criteri che insistono sulla capacita' di assorbimento di ogni Paese, in ragione della popolazione, del Pil e del numero di migranti gia' ospitati. Parte del dibattito insiste anche sulle modalita' di acquisizione del diritto di cittadinanza per quelli che saranno i "nuovi italiani". Nel corso del 2017 si e' a lungo dibattuto sul provvedimento dello Ius soli, che permetterebbe ai bambini nati in Italia di acquisire la cittadinanza italiana nel momento in cui uno dei due genitori si trovasse legalmente nel nostro Paese da almeno cinque anni. L'importanza del provvedimento dello Ius soli non si limiterebbe alla sola materia giuridica, dal momento che gli effetti economici sarebbero ingenti: dal punto di vista previdenziale, ad esempio, allargare l'acquisizione del diritto di cittadinanza significherebbe incrementare il gettito contributivo.
L'ultimo Rapporto Inps pone l'accento proprio su questo aspetto, sottolineando come la chiusura delle frontiere ai migranti significherebbe 73 miliardi in meno di entrate contributive in 22 anni, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per l'Inps. Del resto, se volessimo mantenere i livelli demografici di oggi (e con essi i medesimi consumi, il medesimo sistema di welfare e di attivita' produttive), dovremmo necessariamente "importare" persone dai Paesi stranieri: per avere la medesima popolazione di oggi l'incidenza dei nuovi italiani dovrebbe superare il 30% del totale.
Compensazione straniera esclusa, infatti, le future nascite non saranno sufficienti a supplire ai decessi, per effetto non solo del graduale invecchiamento della societa' ma anche della riduzione del numero delle potenziali madri. Per comprendere la portata di quanto sta avvenendo, e' utile considerare che le donne arrivate alla fine della loro vita riproduttiva, ovvero attorno ai 50 anni, sono oltre mezzo milione in Italia, mentre le donne che stanno approdando alla fase di costruzione della famiglia, ovvero quella nella fascia prossima ai 25 anni, sono poco piu' di 300 mila. Nell'ipotesi mediana, il saldo naturale raggiungera' quota -200 mila individui all'anno entro il 2025, per poi toccare una soglia pari a -300 e -400 mila unita' in meno all'anno nel medio e lungo termine.
D'altra parte, il processo di invecchiamento (il numero dei centenari decuplichera' nei prossimi trenta anni, passando dai 17 mila attuali ai 157 mila del 2050) risulterebbe piu' moderato, piu' gestibile e quindi anche meno costoso per la finanza pubblica se fosse prodotto solo dall'aumento della longevita' e non accentuato anche dall'erosione delle nuove generazioni.
Per quel che concerne il primo punto, le piu' recenti statistiche quantificano l'incremento prospettico dell'eta' media e dell'aspettativa di vita: entro il 2065 uomini e donne arriveranno a vivere rispettivamente sino a 86,1 anni e fino a 90,2 anni, circa 6 anni in piu' in confronto ad oggi.
Quanto al secondo aspetto, insieme all'evoluzione dei modelli comportamentali e valoriali, il deterioramento delle condizioni economiche di base di questi anni ha determinato un rovesciamento degli schemi tradizionali: la lunga recessione, colpendo in misura piu' accentuata i nuovi entranti nel mercato del lavoro, ha prodotto un congelamento delle scelte di emancipazione e di formazione di una nuova famiglia. I dati piu' recenti mostrano come l'eta' di uscita dal nucleo di origine sia salita attorno ai 30 anni nel nostro Paese, mentre risulti inferiore ai 25 non solo nei Paesi scandinavi, tipicamente piu' flessibili nei processi familiari, ma anche in Francia, Germania e Regno Unito.
Questo pero' non significa che i giovani italiani siano "mammoni" o "bamboccioni" o che non siano portatori di desideri, valori e aspirazioni: secondo i dati dell'ultimo report dell'Osservatorio Giovani, oltre l'80% degli intervistati tra i 18 e i 32 anni vorrebbe mettere al mondo due o piu' bambini, ma solo il 60% ritiene che, considerati i limiti e le difficolta' che si trovera' a fronteggiare nel corso della propria vita, riuscira' a realizzare tale obiettivo. In termini di numero complessivo di figli, la percezione di tali barriere implica una riduzione di circa mezzo figlio, da oltre 2,1 desiderato a 1,6 realisticamente atteso. Come hanno sottolineato diversi autorevoli studi, e' necessario invertire con urgenza la rotta per evitare di finire in una trappola demografica e per restituire vitalita' e dinamismo al Paese: e' dimostrato che quando la bassa fecondita' diventa un fenomeno di carattere persistente, si innescano meccanismi che tendono a portare a un riadattamento strutturale verso il basso. A livello di atteggiamenti e comportamenti individuali, infatti, diventa socialmente piu' sostenibile adeguarsi all'idea di rinviare la formazione della famiglia o di fermarsi al figlio unico, all'interno di una collettivita' in cui tale condizione si afferma come il paradigma prevalente.

Nel corso dell'ultimo biennio l'economia italiana ha beneficiato di una moderata ripresa. Il reddito disponibile delle famiglie, in termini nominali, si e' riportato sui livelli precedenti la crisi, anche se la sua distribuzione e' molto cambiata: benche' il potere d'acquisto delle famiglie sia stato sostenuto da una serie di misure a carattere redistributivo (dall'indennita' di cassa integrazione ai sussidi per le famiglie a basso reddito, sino al bonus degli 80 euro per i lavoratori dipendenti) e nonostante la percezione del benessere economico sia significativamente migliorata (i due terzi degli italiani valutano la propria condizione stabile o piu' favorevole, con una disponibilita' di risorse adeguata in relazione al proprio tenore di vita), le difficolta' permangono diffuse. L'incidenza della poverta' resta non trascurabile ed e' sostanzialmente raddoppiata nel corso degli ultimi dieci anni: il numero di famiglie in condizioni di disagio economico e' stimato attualmente in circa 1,6 milioni (corrispondenti a 4,6 milioni di individui).
Ancora piu' rappresentativa, tuttavia, e' la percentuale di individui che si trovano esposti a rischio di caduta in poverta' o di esclusione sociale: si tratta di oltre un italiano su quattro (28,7%), pari a 17,5 milioni di persone, concentrati in prevalenza nei nuclei piu' numerosi, tra le persone piu' giovani, tra i non occupati e nelle aree metropolitane.
Oltre che nei suoi valori assoluti, il fenomeno va inquadrato in termini di distanze rispetto al valore medio. Sotto questo profilo, e' infatti opportuno dare risalto all'allarme che origina dall'esplosione delle disuguaglianze e che, secondo diversi commentatori, richiederebbe l'adozione di un vero e proprio "Piano Marshall" sociale: la crescente complessita' del mercato del lavoro ha determinato un incremento delle disparita' non solo tra individui con diversi gradi di responsabilita' ma anche all'interno delle medesime professioni. Questo ha contribuito, in assenza di mobilita' sociale, ad acuire la polarizzazione tra le classi sociali, ma anche le divaricazioni presenti all'interno di esse.
La piu' interessante chiave di lettura per l'esame delle disuguaglianze e' certamente quella che riguarda la distribuzione del reddito e della ricchezza. A partire dai dati dell'indagine della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie, e' infatti possibile ricostruire lo spaccato delle principali grandezze che qualificano lo stato di salute economica degli italiani.
Le famiglie italiane dichiarano in media un reddito netto pari a 30.500 euro l'anno e detengono una ricchezza netta, costituita dalla somma delle attivita' reali (immobili e oggetti di valore) e delle attivita' finanziarie (depositi bancari e postali, titoli obbligazionari e azionari, al netto delle passivita' finanziarie) di 218 mila euro. Nel primo semestre 2017 oltre un terzo degli italiani, piu' precisamente il 35,4% del totale della popolazione maggiorenne (in crescita del +4,1% rispetto a un anno fa), risulta essere indebitato e, a livello pro capite, mensilmente rimborsa 356 euro. La crescita delle erogazioni conferma il consolidamento dell'intero comparto ma anche l'allargamento della platea di cittadini che ne usufruiscono, pur mantenendo pressoche' stabili sia la rata media sia l'indebitamento residuo, segnali indubbiamente positivi per quanto riguarda la sostenibilita' finanziaria delle famiglie.

Il vero tema resta tuttavia quello delle disuguaglianze: secondo una recente indagine di Boston Consulting Group, oltre 300 mila famiglie italiane, l'1% del totale, detengono una ricchezza che e' pari ad un quinto del totale. Entro i prossimi cinque anni la porzione di famiglie con una ricchezza superiore al milione di dollari dovrebbe salire a quota 433 mila per una incidenza sulla ricchezza nazionale prossima ad un quarto del totale. L'evidenza piu' rilevante ha a che vedere con la distribuzione non uniforme di reddito e ricchezza lungo le diverse porzioni di popolazione: l'indice di Gini, che sintetizza l'entita' delle disuguaglianze, colloca l'Italia tra i Paesi con i maggiori divari, superata solo da alcuni Paesi dell'Europa orientale che hanno sistemi di welfare particolarmente arretrati (Lituania, Romania e Bulgaria) o dalle economie mediterranee che hanno subito le piu' pesanti conseguenze della crisi (Grecia, Spagna e Portogallo).

La medesima lettura si coglie dalla concentrazione della proprieta' immobiliare, se si considera che il 60% degli immobili e' detenuto dal 20% delle famiglie piu' abbienti. La proprieta' dell'abitazione di residenza, tratto peculiare dell'economia delle famiglie italiane, non e' poi uniforme tra i diversi gruppi sociali: ne sono titolari i tre quarti dei nuclei con capofamiglia con almeno 55 anni, delle famiglie dei laureati e degli autonomi e attorno al 70% delle famiglie residenti nei comuni piu' piccoli o del Centro. All'opposto, ben quattro famiglie straniere su cinque vivono in un alloggio in affitto. L'analisi consente altressì di isolare in maniera piu' precisa le principali direttrici e le cesure presenti: la prima dimensione e' quella generazionale, come si evince dal minore reddito dei millennials rispetto alle famiglie con persona di riferimento in eta' compresa tra i 55 ed i 64 anni (-30%, ben 11 mila euro in meno all'anno). Ancora piu' marcata la distanza sulla ricchezza, con i piu' giovani accreditati di uno stock di risorse che ammonta alla decima parte delle disponibilita' presenti in famiglie con persona di riferimento in eta' adulta (18 mila contro 180 mila euro di patrimonio).
Una seconda spaccatura attiene al grado di istruzione: nei nuclei ove il capofamiglia e' in possesso di una laurea, reddito e ricchezza medi sono rispettivamente pari a 47 e 257 mila euro, mentre nei nuclei ove la persona di riferimento ha un titolo di studio che si ferma alla licenza di scuola primaria reddito e ricchezza si fermano a meno della meta', 20 e 115 mila euro. I divari si ampliano ulteriormente prendendo in considerazione la condizione professionale della persona di riferimento: il reddito passa dai 25 mila della famiglia di un operaio ai 56 di un dirigente d'azienda o di un libero professionista (per la ricchezza dai 42 mila ad oltre 260 mila euro).
Un terzo livello di differenziazione, infine, attiene alla collocazione geografica: le famiglie residenti nelle Regioni settentrionali hanno un reddito e una ricchezza rispettivamente del 48% e del 58% piu' elevati rispetto al Sud, con un gap che in termini assoluti vale 11 mila euro l'anno di reddito e circa 60 mila euro di patrimonio accumulato.

Famiglie allargate, scomposte e riunite. Famiglie adottive, famiglie che accolgono minori in affido. Figli avuti da nuovi matrimoni o relazioni precedenti. Matrimoni multiculturali e multietnici. Vedovi risposati e nuovamente genitori. Coppie di fatto. Famiglie omogenitoriali. Genitori single. Mamme in carriera e papa' casalinghi, nonni multitasking ed in piena attivita' lavorativa. La rassegna non esaustiva di queste tipologie familiari, facilmente riscontrabili anche nell'esperienza quotidiana individuale, conferma, qualora ve ne fosse ancora il bisogno, che la famiglia di oggi non si identifica piu' soltanto nel modello tradizionale della coppia sposata con figli. Esiste invece un universo sfaccettato e multiforme che ha finito per ridisegnare il perimetro delle relazioni personali e snocciolare nuovi codici sociologici. Una analisi di lungo periodo sulle strutture familiari consente di isolare alcuni dei tratti distintivi delle famiglie moderne, a partire dall'evoluzione che ha interessato l'istituto del matrimonio. Guardando ai cambiamenti che sono intervenuti nel corso degli ultimi dieci anni, e' infatti possibile individuare una serie di dimensioni innovative lungo le quali i nuclei di oggi tendono a differenziarsi rispetto al passato.
La prima notizia e' quella che riguarda il fenomeno crescente delle unioni con e tra stranieri, che rappresenta una chiave interpretativa interessante per leggere la multietnicita' della societa': i matrimoni in cui almeno uno dei due sposi e' di cittadinanza straniera sono circa 24 mila (pari ad oltre il 12% delle nozze celebrate nel corso dell'ultimo anno, con valori piu' elevati e vicini al 20% nel Nord-Est).
Gli uomini italiani che hanno sposato una cittadina straniera hanno nel 20% dei casi una moglie rumena, nel 12% di nazionalita' ucraina e nel 6% russa (nel complesso oltre una sposa straniera su due proviene da un Paese dell'Est Europa). Le donne italiane che hanno sposato un cittadino straniero, invece, hanno scelto piu' spesso uomini provenienti dal Marocco (13%), dall'Albania (11%) e dalla Romania (6%). Complessivamente, in questa tipologia di coppia, il 32% degli sposi e' cittadino di un Paese dell'Est Europa ed il 27% di un Paese africano. Le informazioni disponibili sembrano quindi confermare che a credere nel matrimonio sono piu' i nuovi italiani di quelli vecchi, che al contrario prediligono sempre piu' altre forme di relazione alla vita coniugale.
Insieme alla diffusione della condizione di conviventi, una ulteriore significativa novita' ha a che vedere con l'eta' dei partner e piu' precisamente con il differenziale anagrafico tra marito e moglie: diminuisce come incidenza sul totale la frequenza di coppie di coetanei, tipicamente il corpo centrale della distribuzione, a favore di relazioni con maggiori e piu' ampie differenze d'eta'. La quota di matrimoni tra persone che presentano almeno 10 e 20 anni di distanza e' pressoche' raddoppiata dal 2004 ad oggi, passando rispettivamente dal 4% al 7% e dallo 0,5% all'1% del totale. Un fenomeno che lentamente sta uscendo dalla nicchia, una nuova visione della vita di coppia e una penetrazione di geometrie relazionali considerate sin qui un esempio di anticonformismo. Un modello Macron, per riprendere l'enfasi che i commentatori hanno voluto attribuire alla composizione della famiglia sui generis del neo eletto presidente francese, piu' giovane di 25 anni in confronto alla premiere dame.
Si e' inoltre a lungo dibattuto dell'impatto che la disaffezione nei confronti della religione cattolica ha prodotto sull'allontanamento dalla pratica matrimoniale, cui ha contribuito l'equiparazione, formale oltre che sostanziale, tra coppie sposate e coppie di fatto: al noto calo dell'incidenza del matrimonio religioso (-50% negli ultimi venti anni), si sovrappone un fenomeno del tutto peculiare (secondo una recente indagine del Censis a partire dal 2031 non verranno piu' celebrate nozze in chiesa).
Esaminando lo spaccato delle informazioni disponibili, si desume come la preferenza per il matrimonio religioso in luogo di quello civile sia funzione del livello di istruzione e quindi di reddito: tra le persone meno istruite la celebrazione secondo il rito cattolico interessa il 40% degli sposi, a fronte di un piu' elevato 60% per i laureati. È dunque assai plausibile che il minor numero di matrimoni religiosi che si osserva tra le persone dotate di un piu' basso titolo di studio possa essere derubricata a effetto collaterale della crisi economica, un ripiego verso il matrimonio civile, meno impegnativo e cerimonioso, e dunque anche meno costoso. In dinamica, tuttavia, le tendenze si invertono: negli ultimi dieci anni la quota di matrimoni religiosi ha ceduto 15 punti percentuali tra le persone che sono in possesso di un titolo di studio terziario (dal 73% al 58%), mentre ha guadagnato 8 punti nel caso delle persone che hanno una licenza di scuola elementare (dal 33% al 41%). Una inversione di rotta che suggerisce una graduale e trasversale convergenza degli stili di vita nella direzione di paradigmi piu' snelli e meno "impegnati".
Un altro elemento interessante e' quello che riguarda il regime patrimoniale dei nuovi sposi e quindi le scelte nella gestione economica familiare: la separazione dei beni riguarda oggi il 70% dei nuovi matrimoni (era il 56% dieci anni fa) e risulta in forte diffusione soprattutto nelle aree del Paese che nell'immaginario collettivo sono piu' legate alle tradizioni (nel Mezzogiorno si e' passati da meno della meta' a circa i tre quarti del totale, una quota anche superiore alla media nazionale).
Se la flessibilita' anche nella vita familiare e' un valore, essa ha pero' assunto le deviazioni della precarieta' e dell'instabilita': secondo le ultime informazioni disponibili, si registra un consistente aumento del numero di divorzi (oltre 82 mila casi, +60% in confronto all'anno precedente, anche se il fenomeno resta di lunga data).
Per leggere correttamente le statistiche, e' comunque utile tenere a mente che il boom dei divorzi nell'ultimo anno e' stato assecondato dalla cosiddetta legge sul divorzio breve, entrato in vigore a meta' 2015 e che ha accorciato drasticamente (da tre anni a sei mesi nei casi di separazioni consensuali o a un anno nei casi di separazioni giudiziali) il periodo che deve intercorrere obbligatoriamente tra il provvedimento di separazione e quello di divorzio.
Giova altressi' ricordare che il 2016 e' stato anche l'anno che ha sancito l'introduzione nel nostro ordinamento giuridico delle unioni civili: nonostante sia stato stralciato l'elemento piu' delicato, la cosiddetta stepchild adoption (l'istituto giuridico che consente al figlio di essere adottato dal partner unito civilmente o sposato con il genitore naturale), il riconoscimento giuridico resta un passaggio fondamentale per equiparare la normativa italiana a quella dei piu' civili Paesi europei. I primi dati sembrano suggerire una accoglienza piuttosto timida: il numero delle trascrizioni tra maggio 2016 e marzo 2017 ammonta a meno di 3 mila unioni civili, di cui piu' della meta' celebrate nelle Regioni del Nord.

Il lavoro ha tradizionalmente rappresentato una delle componenti centrali della vita quotidiana delle persone. Archiviati dieci anni di crisi economica, esso rappresenta la dimensione che piu' di altre catalizza speranze, paure, aspettative e frustrazioni per una ampissima quota di cittadini. E costituisce uno degli ambiti per i quali e' certamente piu' interessante indagare gli effetti dei cambiamenti strutturali avvenuti nell'economia del Paese e valutare i mutamenti nell'approccio degli italiani. Sebbene la debole ripresa degli ultimi anni abbia permesso di recuperare oltre 900 mila occupati persi negli anni della crisi, la morfologia occupazionale del Paese e' di molto cambiata nei suoi assetti strutturali.
Risultano ampie le divaricazioni tra settori (gli occupati nei servizi hanno largamente superato i livelli antecedenti la recessione, mentre restano ingenti le perdite nell'industria e nelle costruzioni) e tra aree geografiche (se le Regioni del Centro- Nord hanno chiuso il gap, al Sud il saldo degli occupati e' negativo in una misura pari a 450 mila unita').
Ma soprattutto sono cambiate le forme del lavoro, e' mutato l'identikit dei lavoratori e lo stesso contenuto aspirazionale e valoriale che essi esprimono nei suoi confronti. Un aumento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato si e' verificato negli ultimi anni soprattutto grazie agli sgravi contributivi introdotti a partire dal 2015.
Incentivi a parte, la geografia dei rapporti di lavoro si e' in generale spostata verso modelli piu' flessibili e precari (stagionale, occasionale, a termine, part time, a progetto) che contribuiscono a delineare un quadro piu' liquido.
D'altra parte, i lavoratori di oggi sono mediamente piu' vecchi: gli over 50 pesano oggi per il 34% sul totale degli occupati, dieci punti in piu' in confronto al 2005, quando l'incidenza era di poco superiore al 20%.
Lo spostamento in avanti del''eta' media origina da tre fenomeni: il ridimensionamento degli organici e il blocco delle assunzioni, che hanno penalizzato i giovani alla ricerca di occupazione; la riforma delle pensioni, che tende a comprimere la domanda di lavoro cosiddetta "sostitutiva", cioe' di coloro che trovano un impiego per rimpiazzare quanti escono dal mercato del lavoro per sopraggiunti limiti di eta'; infine, la dimensione relativa delle coorti dei lavoratori over 50, ovvero di coloro che sono nati fra la meta' degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, caratterizzati da un tasso di partecipazione al mercato del lavoro significativamente superiore in confronto alle generazioni nate nei primi anni del dopoguerra.
Un secondo elemento ha a che vedere con il contenuto aspirazionale e valoriale del lavoro: esso e' infatti una componente fondamentale della qualita' della vita di ogni individuo e la sua mancanza rappresenta una delle principali preoccupazioni (con una quota non lontana dal 70% sul totale degli intervistati, l'Italia detiene il primato in Europa per il timore da disoccupazione). E qui, proprio l'indagine Demos-Coop ha messo in evidenza come le difficolta' degli ultimi anni e la diffusione del precariato abbiano dato nuovo vigore al mito del posto fisso, soprattutto nel settore pubblico. Una occupazione nella Pubblica Amministrazione e' preferita soprattutto dai millennials, nella fascia tra 25 e 34 anni. Una sorta di risposta di pancia per la generazione piu' colpita dalla piaga del precariato, per la quale un contratto del pubblico impiego racchiude tutte le caratteristiche positive di una oggettiva situazione di privilegio.
Insieme alla stabilita', l'elemento nuovo che raccoglie il favore dei lavoratori ha a che vedere con la cosiddetta "work life balance" e la possibilita' che il lavoro guadagni in "agilita'" e consenta di ottimizzare in maniera intelligente il (poco) tempo a disposizione, "ibridando" in una timeline quotidiana unica lavoro e vita privata, rigidamente distinti nel modello di vita tradizionale casa-lavoro. Nel corso degli ultimi mesi e' stato introdotto nel nostro ordinamento un provvedimento che ha inteso regolamentare dal punto di vista normativo ed economico lo strumento del lavoro agile: gia' oggi solo il 70% degli italiani dichiara di lavorare in ufficio e quasi un italiano su sei dichiara di svolgere almeno una parte del proprio lavoro da casa.
Ma e' in chiave prospettica che l'interesse per il telelavoro evidenzia l'ampiezza dell'interesse degli italiani, dal momento che oltre il 40% del totale dei lavoratori apprezzerebbe la possibilita' di lavorare da casa. Una parte significativa di questi, piu' del 10% del totale degli occupati, sarebbe addirittura disponibile ad accettare una riduzione del proprio reddito.
A tal proposito, evolvono in maniera significativa le modalita' retributive dei nuovi modelli di lavoro: in una fase di perdurante difficolta' salariale, la contrattazione collettiva e aziendale dedica crescente importanza alle varie forme del cosiddetto welfare aziendale e delle forme integrative del reddito: l'asilo nido per i figli, la polizza sanitaria, la palestra, il viaggio di formazione all'estero, il piano di previdenza complementare e labbonamento ai mezzi pubblici rappresentano le forme piu' diffuse di benefit e prestazioni che vengono erogate al dipendente. Secondo le piu' recenti informazioni rilasciate dal Ministero del Lavoro sui premi di produttivita', quasi un contratto su tre ha offerto ai dipendenti la possibilita' di scegliere il welfare aziendale "esentasse" in alternativa al bonus monetario in busta paga (tassato al 10%): un fenomeno ancora di nicchia ma certamente destinato ad acquisire vigore nel corso dei prossimi anni. In questo senso l'indagine Demos-Coop ha permesso di verificare quali siano le forme integrative di remunerazione cui gli italiani ambirebbero. E alle spalle delle forme piu' consuete di welfare (previdenza e assistenza sanitaria integrativa) i lavoratori italiani sembrano preferire integrazioni salariali non monetarie a carattere ludico come i viaggi e altre attivita' ricreative.
Un ulteriore segnale di cambiamento e' rappresentato dalla centralita' che viene attribuita alla qualita' dell'ambiente di lavoro: oltre la meta' degli intervistati dichiara di partecipare all'organizzazione del proprio lavoro ma quasi il 90% e' convinto che un contributo attivo possa migliorare le performance aziendali e il benessere dei lavoratori.

Se l'importante e' la salute, gli italiani possono dormire sonni tranquilli. Nonostante tutto, il nostro Paese si conferma in testa alle classifiche mondiali per il benessere psicofisico degli individui, seppure la percezione di benessere risulta in calo negli ultimi anni (gli individui che dichiarano di stare bene o molto bene corrispondono al 65% della popolazione).
A ben vedere, infatti, l'analisi dello stato di salute degli italiani restituisce una storia fatta di luci e ombre, con una situazione decisamente piu' articolata rispetto all'immagine che tratteggia gli italiani come il popolo piu' in salute del mondo. Partiamo dalle notizie positive: ogni giorno l'aspettativa di vita media cresce di sei ore. Nonostante un lieve calo nell'ultimo anno, la speranza di vita alla nascita ha toccato rispettivamente gli 80,1 anni e gli 84,6 anni di media per gli uomini e le donne.
Molto marcate, tuttavia, appaiono le distanze territoriali, tali da qualificare ancora una volta una vera e propria "questione meridionale": in Trentino-Alto Adige si vive circa 3 anni in piu' in confronto alla Campania, a suggerire una disparita' di accesso alla prevenzione ed ai servizi di assistenza sanitaria.
Del resto, la sanita' migliore sembra sempre piu' riservata a pochi privilegiati. Una recente indagine Censis ha infatti documentato come sono 11 milioni gli italiani che non possono permettersi le principali cure mediche, concentrati prevalentemente nelle aree piu' disagiate del Paese. Ancora piu' sorprendente e' la dinamica della mortalita' delle persone piu' giovani, che denota purtroppo non solo una persistenza degli scostamenti territoriali, ma anche una loro progressiva divaricazione: nel corso degli ultimi venti anni la mortalita' sotto i 70 anni e' diminuita sensibilmente in tutte le Regioni settentrionali ed e' risultata stazionaria in quelle del Centro. Al Sud, al contrario, il trend e' in forte aumento, al punto da far perdere agli individui che risiedono in questa area del Paese cio' che era stato guadagnato negli anni successivi al secondo dopoguerra. Indicativo, in questo senso, appare il dato sulla prevenzione: con riferimento alle sole patologie oncologiche, in Lombardia la quasi totalita' della popolazione si sottopone ad esami di screening, mentre in Calabria la quota di copertura dei soggetti a rischio si ferma ad appena il 30%.
A tal proposito, l'ultimo rapporto Osservasalute ha enfatizzato il tema della disparita' di risorse: la spesa sanitaria pro capite, pari in media nazionale a poco meno di 1.850 euro, oscilla tra un massimo di 2.255 euro (Bolzano) e 1.725 euro (Calabria). Ma sono molti i lati oscuri della sanita' nel nostro Paese, a partire dai tempi di attesa nelle strutture pubbliche: per una risonanza magnetica occorrono in media 80 giorni, per una visita cardiologica quasi 70 e per un appuntamento con un ginecologo si arriva a circa 50 giorni. Numeri che spiegano e giustificano il crescente ricorso degli italiani all'alternativa della sanita' privata: nel complesso, il giro d'affari delle prestazioni extra settore pubblico ha raggiunto nell'ultimo anno quota 35 miliardi di euro, una vera e propria "tassa" addizionale che vale circa 600 euro l'anno a persona.
Si tratta di un fenomeno che naturalmente tende ad acuire le disuguaglianze, mettendo in discussione il modello di welfare tradizionale finanziato con la fiscalita' generale: tra i cittadini che hanno dovuto affrontare spese sanitarie private, hanno incontrato difficolta' economiche il 74,5% delle persone a basso reddito (ma anche il 15,6% delle persone benestanti), il 22% di quelle residenti al Nord, il 35% al Centro, fino al 54% al Sud e delle isole.
D'altra parte, se e' vero che il miglioramento delle condizioni di base tende a portare sempre piu' in avanti l'eta' del decesso, e' altrettanto emblematico che le principali cause di morte sono associate a malattie diverse rispetto al passato. Secondo una recente indagine Istat, nell'ultimo decennio si e' assistito a un calo delle malattie infettive e a una diffusione di tumori e patologie cardiovascolari, che rappresentano oggi i due principali "big killer". Piu' nello specifico, al primo posto nella graduatoria figurano i tumori, soprattutto quelli della trachea, dei bronchi e dei polmoni (tra gli uomini il cancro alla prostata e' la decima causa di morte, tra le donne quello al seno e' invece la sesta). Tra le prime cause di morte in Italia anche le malattie ischemiche, quelle cerebrovascolari e le altre patologie del cuore, anche se i tassi di mortalita' si sono ridotti in dieci anni di oltre il 35%. In forte crescita alcune delle patologie cerebrali degenerative, quali demenza e morbo di Alzheimer, arrivate a provocare oltre 26 mila decessi negli ultimi dodici mesi.
Quanto alla variabile geografica, si osserva un ridimensionamento dei differenziali territoriali della mortalita' per malattie cerebrovascolari e dei tumori maligni, mentre permangono gli scarti nei livelli di mortalita' tra Nord e Sud per cardiopatie ischemiche, malattie ipertensive e diabete.
Complice l'invecchiamento della popolazione, gli italiani si possono considerare un popolo di malati cronici: ne sono affetti 4 italiani su 10 (23,6 milioni di persone), mentre uno su quattro tra i pazienti adulti in carico alla medicina generale presenta contemporaneamente almeno due condizioni croniche (era il 21% nel 2011).
Insieme all'ulteriore incremento degli antidepressivi (siamo arrivati a circa 40 dosi ogni mille abitanti), il tema piu' spinoso del dibattito recente e' quello delle vaccinazioni, dal momento che dal 2010 ad oggi si e' registrato un calo dei vaccini contro le malattie trasmissibili, soprattutto in eta' infantile. Secondo il Censis, la quota di bambini vaccinati e' scesa al 95%: l'immagine piu' preoccupante della medicina "fai da te" e della disinformazione che viaggia sulla rete e sui social network (nel nostro Paese, piu' del 40% delle persone predilige l'autodiagnosi: una percentuale ragguardevole, ma comunque piu' contenuta rispetto alle altre grandi economie europee).
Un altro fenomeno rilevante, per concludere, e' quello della medicina non convenzionale: secondo l'ultimo rapporto Eurispes, circa 13 milioni di italiani si affiderebbero a cure alternative e di questi quasi 10 milioni (il 76,1%) sceglierebbe quelle omeopatiche. Secondo le informazioni disponibili, in Italia sono quattromila i medici che esercitano l'omeopatia con regolarita', con una concentrazione nelle Regioni del Nord (in Lombardia negli ultimi sette anni i medici iscritti nei registri delle "medicine non convenzionali" dell'Ordine sono sostanzialmente triplicati).
Secondo un'indagine Emg-Acqua, oltre la meta' di coloro che assumono prodotti omeopatici ha un livello di istruzione superiore e ha iniziato su consiglio del farmacista, di parenti e amici, del medico generico o dello specialista. Si rileva una significativa differenza di genere tra i consumatori: tra le donne il 9,6% ha utilizzato almeno un medicinale omeopatico in tre anni, mentre tra gli uomini la percentuale scende al 6,8% (dati Istat). L'omeopatia viene usata soprattutto per curare riniti, raffreddori, influenze (63,6%), dolori articolari o muscolari (30,4%), allergie e problemi all'apparato respiratorio (21,8%).

Se il quotidiano degli italiani e' dominato dalla tecnologia e dal costante accesso alla rete, il rapporto con il mondo social sembra ultimamente vivere di un binomio amore e odio. "Internet is broken", ovvero internet ha fallito: la denuncia di Evan Williams, co-fondatore di Twitter, ha destato grande scalpore. Che l'ammissione di colpevolezza e la presa di distanza arrivino da uno dei principali social network, portatore della filosofia del dialogo attraverso la scrittura e l'interazione virtuale, la dice lunga sulla fase controversa che sembra attraversare il web.
Nella cronaca e nel dibattito attuali, infatti, si sta facendo largo l'idea che internet finisca per enfatizzare il lato piu' oscuro della societa': bullismo, violazione della privacy, fake news sono solo alcune delle manifestazioni che scaturiscono da un utilizzo distorto di quello strumento potentissimo che e' l'accesso alla rete. È del resto diventata opinione comune che nell'arena senza regole di un web malato, dove l'insulto si e' affermato come il registro dominante, tende a prevalere chi urla e offende di piu', non chi ha idee e opinioni brillanti e condivisibili.
Gli italiani sono tradizionalmente stati e sono tutt'ora fanatici dei social network: nel confronto con le grandi economie europee, il nostro Paese si colloca in testa alla graduatoria (circa il 70% della popolazione accede quotidianamente alle piattaforma principali, piu' degli omologhi spagnoli, tedeschi e francesi).
Da piu' parti, tuttavia, diversi segnali documentano un progressivo allontanamento dai social network, soprattutto tra i piu' giovani: per la generazione dei nativi digitali gli effetti di questo distacco dalla vita vera e vissuta sono gia' oggi emblematici e si concretizzano nell'incapacita' di costruire nuove relazioni personali.
Secondo una recente indagine promossa da Nescafe', gli italiani, conosciuti in tutto il mondo come un popolo di persone solari, estroverse e aperte, hanno perso la capacita' di socializzare: un italiano su due rinuncia ad avvicinarsi all'altro per diffidenza (23%), per timore (24%) ma soprattutto perche' la vita virtuale offusca ogni tipo di interesse sociale (29%). Questa forma di distacco personale si riverbera anche nei comportamenti quotidiani: in citta', al parco, sull'autobus o in un bar, 8 italiani su 10 (82%) dichiarano preferire di sedersi senza alcuno di fianco e magari passare il tempo sul proprio smartphone. Con gli occhi perennemente incollati allo schermo dello smartphone, sembrano fare sempre piu' fatica a instaurare contatti personali. Per oltre la meta' degli individui e' preferibile affidare il proprio saluto a Facebook, Whatsapp o Instagram piuttosto che farlo a voce. Alla tastiera del proprio dispositivo gli italiani riconoscono una serie di benefici: la chat tende infatti a creare meno aspettative rispetto al contatto fisico (38%), consente di non esporsi in modo diretto evitando potenziali brutte figure (44%), accresce la percezione dell'immediatezza nell'approccio (73%) e si presta a interrompere piu' rapidamente una conversazione (63%). Ecco perche' un italiano su due preferisce ripiegare entro i confini del proprio mondo dedicandosi a chattare simultaneamente con piu' persone (36%), consultare i social per essere sempre informati su cosa fanno i propri amici (44%) o ascoltare musica a tutto volume per isolarsi da tutto cio' che li circonda (23%).
Sta del resto crescendo la consapevolezza circa gli effetti negativi che derivano da un utilizzo intensivo dei social: sensazione di disagio, perdita di sonno e peggioramento della qualita' della vita rappresentano i sintomi piu' evidenti di un autentico "mal da social".
Alle volte, questa chiusura assume deviazioni di tipo patologico, con forme che arrivano al cyberbullismo (l'Italia si e' dotata di una legge ad hoc) o ancora di una depressione tipicamente giovanile: anche in Italia un numero crescente di ragazzi decide infatti di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, sulla falsariga dei cosiddetti "hikikomori" giapponesi, i giovani che per mesi o anche per anni si isolano da tutto e tutti, affidando proprio alla rete l'unica occasione di contatto con il mondo esterno.
Nato sul finire degli anni Ottanta in Giappone, in particolare nelle famiglie con condizioni economiche di base piu' agiate (laddove per i figli, vittima di bassa autostima, l'isolamento corrispondeva al rifiuto di una societa' competitiva e soffocante), il fenomeno si e' diffuso anche in Europa ed in particolare in Italia, anche se con dimensioni molto piu' contenute rispetto all'esperienza giapponese (dove, con circa un milione di casi accertati, la tendenza e' quasi endemica). Zavorrati dal non sentirsi all'altezza degli standard fisici, delle prestazioni e dei modelli propinati dai media, tanti giovani italiani si abbandonano a una condizione da eremita: non sono disponibili statistiche ufficiali, ma i numeri ufficiosi parlano di 20-30 mila ragazzi, soprattutto di sesso maschile, che praticano nel nostro Paese una solitudine estrema.
Piu' in generale, il fenomeno nuovo che sembra possibile rilevare e' l'avvio di un lento, graduale allontanamento dai social network, accusati di privare le persone soprattutto di tempo e privacy. Cosi' come gli italiani sono stati tra i primi ad innamorarsi delle diverse piattaforme, sono anche tra coloro che non hanno meno remore a rinunciarvi. Secondo le informazioni disponibili, il social network piu' abbandonato in assoluto e' Tinder (3,5 italiani su 10 dichiarano di essersi cancellati), seguono Snapchat (25%), Pinterest e Twitter (il tasso di abbandono e' pari al 10%).
Anche per Facebook, il principale social network anche in Italia con oltre 30 milioni di utenti, sono i piu' giovani a fare il primo passo indietro: lo scetticismo dei millennials non e' una ricerca di attenzione o una moda di controtendenza, ma una riflessione seria e ponderata. Il problema non consiste tanto nell'impronta digitale lasciata dietro di sé sui social network, bensi' rappresenta una forma di difesa dall'utilizzo di tali informazioni a scopo commerciale e soprattutto dal fenomeno dilagante delle "fake news" (notizie false fatte appositamente circolare con l'obiettivo di fare disinformazione, orientare l'opinione pubblica e creare paura e panico su basi del tutto infondate).

Il 2017 e' stato ufficialmente proclamato anno dell'intelligenza artificiale: l'investitura e' arrivata direttamente da Ericsson, la big company svedese che opera nel campo delle tecnologie e dei servizi di comunicazione. Nel corso degli ultimi mesi la materia e' in effetti diventata mainstream nel dibattito internazionale: si e' passati dal parlare di intelligenza artificiale (AI) come di uno scenario futuristico, adatto principalmente per la trama di un film di fantascienza, all'elemento cruciale di una nuova rivoluzione, paragonabile per impatto sulla societa' e sulla vita quotidiana alla diffusione dell'energia elettrica o all'invenzione del web.
Solo di recente l'opinione pubblica ha iniziato a prendere confidenza con l'idea di dover convivere con tutte quelle tecnologie che consentono alle macchine di percepire, comprendere, imparare e agire: come confermano i sistemi di intelligenza artificiale attualmente in uso o in fase di sperimentazione piu' avanzata (l'assistente vocale, l'auto senza conducente, i droni, i robot domestici, i dispositivi per la realta' aumentata, gli operai-automi), l'attivita' umana e la qualita' della vita potranno trarne un enorme beneficio.
La gestione del tempo e' certamente il cuore di questo fenomeno: la giornata lavorativa potrebbe accorciarsi, efficientando gli spostamenti e le attivita' a minore valore aggiunto, regalando piu' tempo libero per gli hobby e gli interessi personali. Si sono espressi a favore di questa nuova frontiera personaggi influenti della comunita' scientifica e della societa' civile, a partire dallo scienziato Stephen Hawking e dall'imprenditore Elon Musk, fondatore di Tesla Motors. L'attenzione sul tema, tuttavia, e' cresciuta esponenzialmente da quando e' entrato nell'agenda politica dell'ex Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, sotto la cui amministrazione e' stato pubblicato un libro bianco dal titolo “Artificial Intelligence and life in 2030”, a cura dell'Universita' di Stanford: la tempistica con cui questo report e' stato diffuso (Ottobre 2016) ha indotto molti commentatori a leggere in questo lavoro una sorta di testamento politico di Obama a conclusione degli otto anni di mandato presidenziale. Piu' nel dettaglio, e' opinione diffusa che il fenomeno cambiera' la faccia dei nostri modi di produzione (la piu' recente ricerca internazionale in materia, realizzata da Accenture, rivela che l'implementazione dell'intelligenza artificiale potrebbe raddoppiare i tassi annuali di crescita economica entro il 2035) con un elevato potenziale anche nella quotidianita' (si stima che la produttivita' del lavoro potrebbe migliorare sino al 40%). Il dibattito circa la diffusione su larga scala dell'intelligenza artificiale ha conosciuto un forte inasprimento dei toni nel corso degli ultimi mesi: da una parte i paladini della tecnologia a tutti i costi, affascinati da una forma di rapporto uomo-macchina piu' paritaria, dall'altra gli scettici, preoccupati per la possibile spersonalizzazione del lavoro e soprattutto per le conseguenze che l'industria 4.0 potrebbe determinare sull'occupazione (secondo McKinsey, nel nostro Paese la sostituibilita' potenziale tra uomo e automazione e' di circa 1:2: in altri termini, l'attivita' lavorativa di circa 11 milioni di italiani potrebbe essere svolta in un futuro piu' o meno lontano da un robot o da una macchina).
Eppure, secondo l'indagine Eurobarometro, negli italiani prevale un sentimento di apertura, fiducia ed entusiasmo che non ha pari nelle altre grandi economie europee: non solo sperimentatori, come abbiamo sempre descritto gli italiani, ma anche avanguardisti, pronti a partecipare in prima persona a questo cambiamento epocale.
La prima indicazione che si coglie dall'analisi dei dati e' la trasversalita' nella visione positiva che gli italiani hanno di robot e intelligenza artificiale: la quota di individui che esprime una valutazione favorevole delle nuove tecnologie (61%) risulta significativamente piu' elevata in confronto a Germania, Francia, Spagna e Regno Unito e tende ad accomunare tutti i principali gruppi della popolazione: prendendo in considerazione una batteria di variabili quali l'eta', la condizione professionale, il titolo di studio e la collocazione geografica, si percepisce una certa diffidenza solo in alcune minoranze (oltre i 65 anni di eta' e tra i meno istruiti), ovvero coloro che denotano le maggiori resistenze a digitalizzarsi.
L'apprezzamento e' tale che gli italiani ne sottolineano il carattere innovativo a vantaggio della societa': macchine e robot potranno rimpiazzare le persone nelle faccende domestiche e saranno di supporto per l'esercizio di tutte le attivita' professionali, e non solo di quelle piu' pericolose. La pensa cosi' il 70% degli italiani, compresi gli operai, potenzialmente i lavoratori piu' a rischio, con punte del 90% per coloro che svolgono mansioni intellettuali, come i manager, i professionisti e gli studenti, che evidentemente si percepiscono piu' al riparo dalle conseguenze o vedono in questo cambiamento di paradigma una via per valorizzare gli investimenti in istruzione compiuti.
Lo stesso vale per le implicazioni nel settore della sanita': gli italiani sono i primi, tra le grandi economie europee, a vedere di buon occhio l'utilizzo di dispositivi connessi nell'ambito dei trattamenti medici.
Le informazioni disponibili restituiscono un sentimento di consapevolezza ed attesa per il cambiamento cos. radicato da non cadere mai nel timore. I nostri connazionali sono tra i primi in Europa a riconoscere che in futuro l'intelligenza artificiale potra' occupare le loro postazioni nelle linee produttive o le loro scrivanie, ma nella convinzione che questo sia in realta' un falso problema: nel giro di qualche anno i lavori attuali non esisteranno piu' e il tutto il mondo del lavoro sara' proiettato verso modelli che ad oggi non siamo ancora in grado di immaginare. L'atteggiamento e' in effetti tutt'altro che dimesso: lo confermano i dati relativi ad alcune delle esperienze piu' futuribili, quali ricevere la spesa trasportata da un drone (il 60% dichiara di sentirsi a proprio agio), essere sottoposto ad un intervento chirurgico ad opera di un medico-macchina o ancora viaggiare a bordo di una auto senza conducente (in entrambi i casi la quota di favorevoli e' elevata, intorno al 50%). L'impressione, guardando ai dati, e' che l'entusiasmo possa avere un aspetto controproducente, portando a sottovalutare i rischi e ad essere meno sensibili rispetto alle buone norme di sicurezza: gli italiani, a differenza degli altri cittadini europei, tendono a sottovalutare l'importanza della protezione dei propri dati personali e le minacce informatiche.

Tra i nuovi interessi degli italiani c'e' la voglia di riscoprire una nuova dimensione interiore meno perentoria e piu' soft: i valori di riferimento degli italiani continuano ad evolvere, prendendo la via di una morale piu' flessibile e in qualche caso "fai da te". L'allontanamento della pratica religiosa tradizionale e' ormai un fenomeno di lunga data: la partecipazione religiosa e' ai minimi storici, se si considera che piu' del 70% degli italiani si dichiara cattolico (fonte Eurispes) ma appena il 25% praticante. Nonostante il richiamo esercitato da Papa Francesco, i dogmi tradizionali della religione tendono a essere percepiti sempre piu' lontani dall'evoluzione della societa' e degli stili di vita: sarebbero 1 milione e 600 mila i credenti italiani che non si riconoscono negli insegnamenti della confessione cattolica, con una prevalenza tra gli uomini, gli under 35 ed i residenti nelle Regioni settentrionali.
Secondo le informazioni disponibili, i cittadini italiani appartenenti a minoranze religiose oggi sono il 2,9% della popolazione, tre volte di piu' rispetto a trenta anni fa. In altri termini, si sta diffondendo una sorta di nuovo pluralismo religioso: il gruppo piu' consistente e' costituito dai cristiani protestanti (27%), cui seguono i testimoni di Geova (25,7%), i musulmani (15%), i cristiani ortodossi (9,6%), i buddhisti (9,1%) e gli ebrei (2,2%). In prospettiva storica, e' particolarmente accentuato l'incremento che ha interessato il buddhismo (i fedeli sono saliti a quota 200 mila, il doppio rispetto al 2010) e la crescita di quanti professano l'Islam, sostenuta dal contributo dei movimenti migratori: dalle 10 mila persone del 2001 (lo 0,9%) ai 40 mila individui del 2008 (3,4%) fino alle 245 mila unita' di oggi (15%).
La tensione spirituale si e' cosi' tradotta nell'adozione di forme di religiosita' piu' leggere che mescolano la pratica fisica con la meditazione e la ricerca della serenita' personale. L'emblema di questo movimento e' certamente incarnato dallo yoga: non solo una pratica fisica per il tempo libero, ma soprattutto uno stile di vita che libera dalle tensioni e dalle paure verso il benessere psico-fisico individuale, la consapevolezza del se' e una maggiore armonia interiore. Senza peraltro impegnare il praticante nell'adesione a particolari dogmi morali. Non esistono statistiche ufficiali recenti ma, tra scuole e attivita' casalinghe, si stima che gli italiani che praticano lo yoga superino abbondantemente i 2 milioni di individui.
La nuova religione e' quella del benessere: tra pratiche di training autogeno e tecniche di rilassamento, gli italiani guardano sempre piu' allo stare bene individuale, nel fisico e nello spirito. Si tratta di un riposizionamento della scala valoriale che trova riscontro anche nei comportamenti quotidiani e nelle scelte alimentari: tra vegetariani e vegani si contano in Italia quasi 2 milioni di persone (secondo l'ultimo rapporto Eurispes, i vegani sarebbero addirittura triplicati negli ultimi dodici mesi).

Bellezza e canoni estetici hanno da sempre rappresentato una forma di espressione della societa': l'arte e la pubblicita' hanno tipicamente veicolato una serie di modelli in cui tutti, a partire dai piu' giovani, hanno cercato di riconoscersi. Per decenni l'ideale di fascino ed eleganza non ha potuto prescindere da alcuni elementi di contorno: abiti, gioielli e accessori sono stati per lungo tempo il principale strumento di identificazione o distinzione, a volte addirittura di emancipazione se non di ribellione. Eppure, oggi appare sempre di piu' direttamente il corpo medesimo il luogo dove raccontare i tratti della propria personalita', esibire valori, speranze e aspettative o magari affermare la propria liberta'. Piu' del guardaroba o della carta d'identita', sono acconciature, sopracciglia e tatuaggi a descrivere l'identita' di molti italiani di oggi.
La cura del corpo e' diventata una delle priorita' fondamentali degli italiani, superando anche le tradizionali barriere di eta' e i tabu' di genere. Tutte le informazioni disponibili documentano infatti un fenomeno in forte crescita, a partire dal numero degli esercizi che operano nel campo dei servizi alla persona (negli ultimi sei anni hanno avviato una nuova attivita' piu' di mille tra parrucchieri e centri estetici).
In questo contesto, la moda del momento e' certamente quella del tattoo: secondo la piu' recente indagine dell'Istituto Superiore di Sanita', quasi sette milioni di italiani hanno scelto di tatuarsi, circa il 13% della popolazione (l'incidenza tuttavia cresce tra le giovani generazioni, attestandosi al 30% nel caso dei millennials). Dai dati emerge che i tatuaggi sono piu' diffusi tra le donne (14% del campione femminile) rispetto agli uomini (circa il 2% in meno). La passione per scritte, tribali e portafortuna e' comunque trasversale: l'eta' media del primo tattoo e' attorno a 25 anni, un tatuato su quattro risiede nel Nord Italia, il 30,7% ha una laurea e il 63,1 % ha una occupazione stabile. L'elemento di discontinuita' piu' significativo rispetto ai canoni del passato e' dato dall'interesse che l'aspetto estetico suscita tra la popolazione maschile: l'immagine del "macho" italiano ha ceduto il passo all'uomo curato e sempre in ordine, che ha scoperto il fascino di cosmetici, rasoi e depilazioni (negli ultimi dodici mesi sono stati spesi circa 40 milioni di euro in creme e un quarto del mercato e' ormai destinato proprio al genere maschile). L'uomo villoso ha ceduto il passo a quello glabro: secondo una recente indagine condotta nel nostro Paese da Gillette, il 75% degli uomini fra i 25 e i 34 anni dichiara di depilarsi regolarmente, privilegiando il petto, le spalle, la schiena e l'inguine.
Contemporaneamente, sempre in tema di nuovi canoni estetici maschili, continua a crescere il fenomeno del grooming, ovvero di chi di baffi e barba ha fatto uno stile di vita (secondo le stime piu' recenti, la barba-mania interessa il 55% degli italiani): un cambiamento di look che sta progressivamente impattando sul mercato dei prodotti per la cura della persona, con l'introduzione in commercio di oli e balsami per barba, gel detergenti e cere modellanti. Laddove non arriva la cosmetica (il giro d'affari previsto per il 2017 e' stimato in circa 10 miliardi di euro, con un incremento di un punto percentuale in confronto all'anno precedente), e' d'obbligo il ricorso alla chirurgia: secondo le ultime informazioni disponibili, ogni anno vengono eseguiti in Italia un milione di interventi di chirurgia e di medicina a fine estetico (+6%), un numero che ci colloca in nona posizione mondiale. Di questi il 15% va a beneficio degli uomini, mentre larga parte risulta concentrata in tre Regioni (Lazio, Lombardia ed Emilia-Romagna coprono da sole circa la meta' del mercato).
Tra gli interventi di medicina estetica i piu' diffusi sono l'iniezione di botox e di acido ialuronico contro le rughe (quasi 600 mila casi all'anno), mentre tra quelli di chirurgia estetica le operazioni piu' richieste sono la liposuzione (44 mila), la mastoplastica additiva (ovvero l'aumento del volume del seno, 33 mila) e la blefaroplastica (ovvero il ringiovanimento dello sguardo mediante la correzione delle palpebre, 32 mila interventi).
Tra gli under 18, infine, e' ricorrente la pratica di rifarsi il naso: sia tra i ragazzi che tra le ragazze la rinoplastica diventa il regalo preferito per passare alla maggiore eta'.

Nel quotidiano degli italiani si annidano nuove paure: nonostante la lenta uscita dalla recessione, essi non hanno ancora ritrovato serenita' d'animo e felicita'. Esaminando l'indicatore relativo alla qualita' e alla soddisfazione per la propria vita, gli italiani sono gli unici tra le grandi economie europee a non superare la sufficienza, insieme al Regno Unito, zavorrato nel sentire comune dalla questione Brexit. E pensare che dieci anni fa il quadro era sostanzialmente rovesciato, con il Bel Paese patria del vivere bene.
Insieme a un deterioramento della propria condizione, gli italiani sono stati assaliti dalle paure per i grandi fenomeni economici, sociali e climatici che caratterizzano la nostra epoca. Secondo un'indagine Nomisma, gli italiani sono spaventati in primis dalla perdita del lavoro e dalla disoccupazione. La crisi economica, l'aumento delle diseguaglianze e la difficolta' nel trovare un nuovo lavoro hanno inevitabilmente influito sui timori degli italiani, specie sulle fasce piu' vulnerabili della popolazione.
Al capitolo sulle paure si aggiungono i macro-fenomeni legati alla globalizzazione: il 44% degli italiani ammette di essere preoccupato dalla minaccia terroristica, si tratta del 15% in piu' rispetto al 2010, quando l'Europa veniva presa di mira molto meno frequentemente dagli attentati. L'attacco alla redazione della rivista francese "Charlie Hebdo" del 2015 e i gravissimi episodi di Parigi e del Bataclan nel novembre dello stesso anno, hanno avviato una spirale di paura che e' cresciuta a causa della degli episodi di violenza di stampo terroristico sempre piu' ravvicinati nel tempo.
Un mix di fattori, dalle problematiche economiche al terrorismo, ha alimentato un'altra paura, spesso ingiustificata ed in prospettiva molto pericolosa: il timore nei confronti dell'immigrazione. Da un'indagine Ipsos e' emerso che il 70% degli intervistati ritiene che in Italia ci siano troppi immigrati, un dato nettamente superiore rispetto ad altri Paesi europei come Francia e Germania, che presentano una quota di stranieri molto piu' elevata sul totale della popolazione.
A preoccupare, oltre alla percezione sul loro numero, e' la considerazione che hanno gli italiani degli immigrati: il 39% ritiene che siano "un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone", in crescita del 5% rispetto a un anno fa, mentre il 35% teme che costituiscano "una minaccia per l'occupazione". Una riprova implicita di queste tendenze sono le ricerche online delle parole chiave associate a cio' che li preoccupa. Dai Google trends, emerge come la ricerca di termini legati alla disoccupazione, alla sicurezza e all'inquinamento sia fortemente aumentata negli ultimi cinque anni. Guardando all'andamento complessivo, il livello generale delle paure e' aumentato del 38% rispetto al 2012.
In termini di variazione delle singole parole, le paure emergenti sono due: l'inquinamento, ricercato su Google con un aumento della frequenza del 53% rispetto al 2012, e l'immigrazione. La ricerca del termine immigrati ha visto un incremento addirittura del 107% rispetto al 2012, a testimonianza di quanto il tema sia delicato e di quanto siano urgenti politiche e messaggi rassicuranti, che guardino alle questione non solo come ad un problema ma come ad una opportunita'.
Per sublimare paure e ansie legate alla sicurezza c'e' chi reputa necessario provvedere personalmente a proteggere la propria incolumita'. Secondo l'ultima indagine dell'Archivio Disarmo, 12 italiani su 100 posseggono un'arma da fuoco, acquistata legalmente o detenuta illegalmente. Il dato assume una valenza ancora maggiore se affiancato agli ultimi dati diffusi dal Ministero dell'Interno sul porto d'armi: a possedere la licenza sono quasi 1 milione e 300mila italiani, circa 200 mila in piu' rispetto al 2011. In molti casi il malessere diventa patologia: negli ultimi dieci anni il consumo di antidepressivi fra gli italiani e' aumentato del 18% (Rapporto Osserva Salute), in particolare nelle Regioni del Centro e del Nord Italia, dove la cosiddetta "paura di vivere" si e' radicata piu' a fondo nell'ultimo decennio, complice anche la severita' della crisi economica.
Quella della depressione, il male del secolo, colpisce secondo i piu' recenti dati OMS piu' di 300 milioni di persone nel mondo (curiosamente aumentate proprio del 18% negli ultimi dieci anni), e' una condizione che porta l'individuo a perdere fiducia in se' stesso e a vivere in una condizione di perenne ansia e apatia. Nei casi piu' gravi, puo' diventare una vera e propria patologia, sempre piu' diffusa in alcune aree del nostro Paese. Fra queste vi sono la Liguria e la Toscana, dove i livelli di consumo di antidepressivi sono particolarmente elevati, mentre la quota di assunzione degli stessi farmaci e' inferiore in Regioni come Basilicata, Campania e Sicilia.

Nell'immaginario collettivo l'Italia e' il Paese del piu' famoso seduttore di tutti i tempi, il veneziano Giacomo Casanova, come delle atmosfere felliniane de "La dolce vita" e della sensualita' di una icona intramontabile della bellezza come Sophia Loren. Ma proprio nel Paese dei latin lover e dei dongiovanni sembra aver luogo una metamorfosi silenziosa e inattesa.
Sembrerebbe, infatti, sia entrato in crisi il lato piu' passionale degli italiani: non soltanto di una perdita di interesse nei confronti della seduzione e dell'arte amatoria, ma forse di un vero e proprio calo del desiderio sessuale. Gli italiani stanno sempre meno sotto le lenzuola: secondo la piu' recente indagine Doxa in materia, negli ultimi 15 anni la frequenza dei rapporti sessuali e' diminuita del 10% e il calo ha colpito tutte le fasce d'eta', compresi i piu' giovani.
La fase piu' critica si colloca intorno ai 35-40 anni, eta' in corrispondenza della quale soltanto 3 coppie su 10 continuano ad avere piu' di un rapporto a settimana: oltre agli under 35, resistono solo i partner impegnati in una relazione non di lungo corso (meno di 5 anni). Del resto, sul totale della popolazione, ben il 75% degli italiani dichiara di essere preoccupato per un calo del desiderio sessuale, soprattutto fra gli over 50, mentre il 9% ammette di non aver avuto rapporti sessuali negli ultimi sei mesi.
Nell'epoca delle relazioni digitali e dei social network, interpretati dai sociologi come lo strumento per abbattere le barriere della timidezza, lo specchio del cambiamento e' rappresentato dalle fasce piu' giovani: secondo uno studio condotto negli Stati Uniti, i millennials hanno in media meno rapporti sessuali rispetto alle generazioni precedenti, con percentuali di castita' paragonabili a quelle raggiunte dai coetanei degli anni Venti. La diffusione delle app di dating online non hanno contribuito ad invertire la tendenza, anzi le statistiche sull'Italia che emergono da un ricerca condotta da Blogmeter documentano un fenomeno di allontanamento e sfiducia: tra i social network, il piu' abbandonato e' proprio Tinder, il portale di appuntamenti piu' celebre al mondo. Un italiano su tre ha dichiarato di essersi iscritto, ma di aver poi cancellato il proprio account.
Tale possibile calo del desiderio sembra trovare conferma nel ridimensionamento delle vendite dei prodotti legati alla sfera sessuale, dai contraccettivi agli stimolanti, fino ai farmaci per le disfunzioni sessuali. Secondo i dati Iri – Information Resources, nell'ultimo anno la spesa per profilattici e' diminuita del 6% (-4,7% in volume), cosi' come e' scesa quella per i contraccettivi ormonali sistemici, tra cui rientra la pillola anticoncezionale (-3,4%, -4,2% in volume). Diminuiscono addirittura anche gli acquisti di farmaci per la cura delle disfunzioni erettili (-0,5% nell'ultimo anno). A fare da contraltare e' la spesa per i contraccettivi d'emergenza, cioe' le piu' note pillole "del giorno dopo" e "dei cinque giorni dopo": la spesa per questi due farmaci e' aumentata di circa il 20%. Ma su tale picco di vendite dell'ultimo anno ha sicuramente influito il provvedimento, entrato in vigore nel marzo 2016, che permette ai maggiorenni di acquistare tali farmaci senza l'obbligo di ricetta medica.
Allo stesso modo, nei canali di distribuzione, dal 2014 ad oggi e' calata la quota di prodotti per la profilassi e la stimolazione sessuale venduti dalle farmacie, mentre e' in crescita quella acquistata nel canale massmarket, soprattutto nel Nord Italia.
In generale, l'industria che si occupa di prodotti legati alla sfera sessuale ha registrato un calo delle vendite, anche se nell'analisi non e' contemplato il canale di distribuzione online, molto diffuso per l'acquisto di prodotti su cui il requisito della riservatezza e' spesso apprezzato.
Se le case farmaceutiche hanno risentito del calo del desiderio degli italiani, alla cosiddetta "industria del sesso" non sta andando molto meglio. L'attrattivita' del porno e' in calo: il traffico sui siti che distribuiscono materiale video a luci rosse continua a diminuire (secondo dati PornHub, il nostro Paese si conferma nella top ten mondiale ma cede una posizione), mentre la frequenza delle ricerche su Google delle parole chiave legate alla sfera pornografica e' diminuita negli ultimi quattro anni, rivelando un minore interesse nei confronti del sesso virtuale.
Stanno inoltre cambiando le abitudini di fruizione dei contenuti sul sesso: nel nostro Paese i volumi di traffico sono concentrati per lo piu' nel tardo pomeriggio e nelle ore serali. Il 50% degli utenti ha meno di 35 anni (ma l'Italia, con il 15%, e' il Paese con la piu' elevata incidenza di ultracinquantacinquenni che visitano abitualmente siti porno), mentre il 23% e' donna. Rispetto agli anni scorsi, e' molto cambiata la modalita' di fruizione: il primato e' oggi detenuto dal mobile, attraverso il quale transita il 60% del traffico complessivo. Lo smartphone, l'oggetto piu' personale ed intimo dell'ultimo decennio, si fa veicolo anche dei desideri e delle trasgressioni.

Nella rappresentazione statistica che ormai quotidianamente Istituzioni e centri di ricerca piu' o meno specializzati offrono dell'Italia capita spesso di imbattersi in numeri che ne quantificano e qualificano il passato, il presente e il futuro adottando una metrica territoriale che guarda al Paese nella sua interezza o, tutt'al piu', al consueto confronto tra Nord e Centro-Sud. In realta', come e' facile intuire, in entrambi i casi i valori associati ai fenomeni analizzati forniscono indicazioni sistemiche che attengono alla loro dimensione macro, che in ultima istanza altro non e' che la sintesi delle sue molteplici ed eterogenee manifestazioni a livello micro.
In tale ottica, l'approfondimento territoriale circoscrive inevitabilmente il possibile perimetro di indagine (il piu' delle volte la disponibilita' e accuratezza dei dati statistici e' inversamente proporzionale al livello di dettaglio geografico), ma nel contempo consente di dare una lettura diversa, e per molti aspetti inedita, dell'Italia. Tale considerazione di carattere generale ha ispirato a piu' riprese il percorso realizzato in questo primo anno di attivita' da italiani.coop nel tentativo di raccontare il nostro Paese attraverso i numeri, in un viaggio tra le Regioni, Province e Comuni d'Italia da cui emerge chiaramente come il Nord e il Sud statistico, inteso come posizione ai vertici e al fondo delle classifiche, non sempre corrisponde a quello segnato dalla bussola, sia in ambito economico che in quello culturale e sociale.
Partendo proprio dal sociale e, piu' precisamente, dalla mappa demografica delle province italiane, si puo' ad esempio scoprire che se da un lato e' nel Nord che si registra il piu' alto tasso di natalita' su base annua (Bolzano, 10 nati ogni 1.000 residenti) e l'aspettativa di vita piu' lunga (Treviso, 83 anni), il Sud non e' da meno in quanto a primati positivi, tra cui spiccano il piu' alto tasso di nuzialita' (Salerno, 4,6 matrimoni ogni 1.000 residenti), la piu' bassa eta' media della popolazione (Napoli, 40 anni) e quella delle madri al parto (Crotone, 30,4 anni).
Rimanendo sempre nella sfera demografica, un secondo tema affrontato e' stato quello della presenza degli stranieri nel nostro Paese, anche in questo caso con un occhio di riguardo non tanto per i numeri che ne delineano le dimensioni e ne qualificano la natura in un ottica complessiva, nazionale ed europea, quanto piuttosto per l'approfondimento territoriale e l'analisi di fenomeni che fossero il piu' possibile specifici e circoscritti: il primo driver di ricerca ci ha portato, ad esempio, a scoprire quanto amplio fosse il differenziale relativo alla percentuale di stranieri nati in Italia, con un'incidenza sul totale delle nascite che, a livello regionale, varia dal 4% della Sardegna al 24% dell'Emilia Romagna (a fronte di una media nazionale del 15%) e che in una piccolissima percentuale di Comuni (47 degli oltre 8mila censiti da Istat) arriva al 100%; al secondo driver appartiene, invece, la ricerca condotta sulle nazionalita' che costituiscono una minoranza nel nostro Paese (74 quelle con meno di 500 residenti, in rappresentanza di tutti i Continenti, Africa e Asia in primis) e sulla loro geolocalizzazione provinciale (tra comunita' radicate in una/due province e, all'estremo opposto, una presenza capillare da Nord a Sud).
D'altro canto, non di rado le statistiche di fonte istituzionale che si prestano a lettura parametrica per ambito geografico vanno ben oltre i confini della sola sfera demografica, approdando in quella sociale ed economica, anch'essa ricca di sorprese e ben lontana dal poter essere generalizzata in maniera esaustiva nella tradizionale formula che vuole il Nord unico "motore economico" del Paese. Quando il termine di paragone e' la ricchezza, nelle sue molteplici declinazioni, accade spesso di imbattersi in classifiche che vedono le Regioni e le Province del Centro-Nord prevalere nettamente su quelle del Mezzogiorno, tra primati noti (Milano – Pil pro-capite – 45mila euro) e meno noti (Siena – Patrimonio immobiliare pro-capite – 104mila euro).
Tuttavia, la situazione cambia radicalmente, portando a risultati spesso inaspettati, se spostiamo la lente di ingrandimento dell'analisi territoriale su altri aspetti, quali: l'imprenditoria, dove sul gradino piu' alto del podio accanto a Trieste (provincia degli start-upper) troviamo Reggio Emilia (percentuale di imprese artigiane), Nuoro (imprese attive ogni 1.000 residenti) e Vibo Valentia (percentuale di ditte individuali); la caratterizzazione del tessuto produttivo, con profili occupazionali a composizione variabile gia' a livello macrosettoriale (massimo livello di polarizzazione nelle province di Fermo – 52% occupati nell'industria, Roma – 87% servizi, Ragusa – 20% Agricoltura); la specializzazione agricola, con un sostanziale equilibro nei primati di produzione (kg per abitante) tra province del Nord (es. pere a Ferrara, cereali a Rovigo), Centro (es. spinaci a Pisa, patate all'Aquila)e Sud (fragole a Campobasso, pomodori e melanzane a Foggia, olive a Brindisi); la bilancia commerciale con l'estero (miglior rapporto export/import per la provincia di Massa-Carrara, maggiore incidenza dell'export sul Pil per quella di Arezzo); cultura e ambiente, con i piu' sportivi nella provincia di Trento, i piu' addicted agli spettacoli dal vivo a Rimini e la maggiore fruibilita' di verde urbano a Matera.
La relazione societa'-economia-territorio puo', inoltre, essere analizzata circoscrivendo l'ambito di indagine e di benchmark a specifiche coorti demografiche. In questi primi mesi di attivita', in piu' occasioni il team di italiani.coop si e', ad esempio, occupato della condizione delle donne in Italia, verificando come non di rado a posizionarsi sul podio, o comunque nella parte medio-alta della classifica, siano realta' del Centro-Sud, nel confronto regionale (Molise, primato di incidenza delle imprese femminili sul totale attive) cosi' come in quello provinciale (Pisa, piu' alto tasso di occupazione delle 18-64enni; Enna, percentuale di donne con ruolo dirigenziale sul totale delle dipendenti).
Ancora una volta la bussola geografica non corrisponde quindi a quella statistica e lo stesso risultato lo si ottiene quando si guarda ad altri segmenti della popolazione: parlando di giovani e giovanissimi, se ancora una volta e' verso Nord, e piu' precisamente verso la provincia di Bolzano che dobbiamo puntare il dito se parliamo di migliori opportunita' occupazionali (un terzo dei 15-24enni della Provincia ha un lavoro), per i primati sul livello di istruzione universitaria tra i residenti dobbiamo scendere di diversi chilometri, e piu' precisamente ad Ascoli Piceno (10% dei 25-30enni laureati) per poi puntare decisamente a Sud se si guarda all'incidenza sul totale della popolazione (provincia di Napoli al primo posto con un residente su cinque under-18).
La naturale conclusione di questo graduale percorso di approfondimento territoriale (da nazione ad aree geografiche, da aree geografiche a Regioni, da Regioni a Province) consiste nel mettere a confronto gli oltre 8mila Comuni d'Italia. Come abbiamo gia' accennato, tale passaggio restringe ulteriormente il possibile ambito di indagine, stante la difficolta' a reperire informazioni statistiche puntuali ed aggiornate: tuttavia, la dimensione demografica dei Comuni rappresenta una possibile chiave di lettura parametrica di alcune ricerche istituzionali in ambito economico e sociale, le stesse che ci hanno permesso di rilevare come rispetto a chi vive nelle grandi metropoli gli italiani che risiedono nei piccoli centri urbani (con meno di 1.000 abitanti) siano mediamente piu' soddisfatti della vita nel complesso e dei suoi singoli aspetti (tempo libero, situazione economica, rapporti di amicizia, situazione familiare e salute), nonostante abbiano meno possibilita' di svago e di intrattenimento fuori casa (cinema, musei, teatri, spettacoli dal vivo etc.); lamentano meno problemi rispetto all'abitazione in cui vivono (distanza dai familiari, dimensione, condizioni generali) e spendano decisamente meno per la loro gestione (acqua, luce, gas etc.).
Ma siamo andati oltre: grazie alla collaborazione con l'istituto REF Ricerche, che ha condotto una lunga e complessa attivita' di selezione, raccolta e sistematizzazione delle stesse fonti istituzionali disponibili, siamo stati in grado di realizzare una mappa completa dell'Italia dai mille e piu' campanili, scoprendo ad esempio, qual e' il Comune con la piu' alta percentuale di giovani under-35 (Plati', in provincia di Reggio Calabria), o il piu' alto tasso di attivita' della popolazione (Rognano, in provincia di Pavia), il Municipio piu' alto (Sestriere, in provincia di Torino) e quello piu' piccolo per superficie (Atrani, in provincia di Salerno).
Quanto fatto finora nell'ambito dell'iniziativa italiani.coop e' in realta' solo la punta di un iceberg di possibili georeferenziazioni delle statistiche nazionali e l'obiettivo per l'immediato futuro consiste proprio nel proseguire questo viaggio nei territori, scendendo al di sotto della superficie... alla ricerca di numeri, dati e tendenze dell'Italia che cambia.

Italiani.coop - 13-03-2018


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