Inferno. Canto III

Dante Inferno Canto III. Questo Canto ci porta, con l'immediatezza tipica del poeta, nell'aldilà e l'iscrizione posta alla sommità dell'ingresso ci introduce, immediatamente, all'essenza del luogo: il dolore e la sua eternità, senza speranza. La porta segna anche un confine nella struttura del linguaggio, nei modi stessi della poesia che andrà modificandosi man mano che si procede. Il canto appare subito nuovo nella sua drammaticità, che nasce proprio da quel primo affacciarsi a un mondo di dolore senza ritorno. Al passare la porta tutto l'orrore e il dolore di quel mondo, fatto di uomini anch'esso, ma senza luce nè speranza, assale il poeta e il lettore, con le grandi e solenni immagini che ci accolgono. Siamo nell'aldilà non propriamente nell'inferno la cui entrata troveremo nel V Canto con Minosse che indica a quale livello dell'inferno ciascuna anima debba essere messa.

La porta

"Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".

Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose. "

"Per me si va ..." Questi versi sono l'iscrizione posta in alto sulla porta dell'oltremondo, a somiglianza delle epigrafi che si trovano sulle porte delle città medievali; essi suonano come solenne ammonimento a chi entra. È la porta stessa che parla. L'anafora (il per me è ripetuto tre volte) sottolinea il senso terribile e inesorabile delle parole. Attraverso di me si va nella città nella quale vivono nel dolore tutti i suoi abitanti. La figura della città nasce dalla biblica città celeste e la stessa idea della porta d'entrata al mondo dei morti ha il suo grande precedente letterario dell' Eneide, come tutta la struttura figurativa del canto. Per me si va ne l'etterno dolore, l'etterno dolore: spiega e intensifica il dolente. Tutta la terzina è una variazione sullo stesso tema, il dolore, attribuito prima alla città, poi alle persone (la perduta gente), e isolato al centro con il suo tragico aggettivo etterno, che sarà il tema della terza e ultima terzina dell'iscrizione. Per me si va tra la perduta gente che si è perduta per sempre e che ha perso per sempre la propria strada, e quindi ha perso Dio, e la felicità.
La giustizia mosse Dio a crearmi (fattore è usato più volte da Dante per indicare Dio creatore, l'inferno è quindi espressione della suprema giustizia di Dio, come più volte si ricorderà nella cantica). Fecemi la divina podestate; podestate... sapïenza... amore: sono gli attributi della Trinità. Nell'inferno è quindi presente anche l'amore, come in tutte le opere di Dio; questa idea è essenziale, come si vedrà, per comprendere lo spirito della cantica, e la figura dell'uomo infernale secondo Dante. La terzina eleva l'inferno che qui si raffigura alla dignità assoluta di opera divina, e toglie quindi fin d'ora alla rappresentazione ogni carattere di arbitrio o di casualità.
Prima di me furono create soltanto cose eterne (cioè, nell'universo dantesco, i cieli, gli angeli, la materia prima); l'inferno infatti, come si desume dalla Scrittura, era stato creato subito dopo gli angeli; la ribellione di parte di essi con a capo Lucifero, che, secondo Dante, che segue in questo san Tommaso, era stata immediata, con la creazione dgli angeli. Le cose corruttibili (forma della terra, piante, animali, e tutti i corpi sublunari in genere) erano state quindi create dopo. E io etterno duro cioè senza fine; eterno in senso assoluto, cioè senza principio né fine.
Lasciate ogne speranza: questo ultimo verso - di andamento epigrafico, e non a caso divenuto proverbiale – è la conseguenza a livello umano e concreto (voi ch'intrate) delle solenni affermazioni precedenti. È l'unico infatti che si rivolge direttamente a chi legge, e direttamente lo colpisce. La perdita della speranza, la virtù teologale dell'attesa della visione di Dio, è per l'uomo il massimo dei mali. Tutta la terzina esprime in fondo una sola idea – la perennità senza scampo della pena – come la prima esprime l'intensità del dolore.
Queste parole di colore oscuro; di colore oscuro: va inteso letteralmente: a caratteri scuri, neri. È questo del resto il colore dell'inferno, ed esprime di per sé angoscia e orrore. (L'interpretazione metaforica "di significato doloroso, minaccioso" sembra da escludere, perché tale idea è espressa al v.12) vid'io scritte al sommo d'una porta.
Per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro» » per cui io dissi: «Maestro il loro significato mi è penoso», (duro vale «gravoso», che incute sgomento). L'altra interpretazione («malagevole a intendere»), del Boccaccio non si accorda con la risposta di Virgilio, che non spiega il «senso» della scritta, del resto chiarissima, ma esorta a vincere il timore e lo sgomento. Ed elli a me, come persona accorta (che subito comprende), Virgilio, come sempre farà in seguito, comprende a fondo lo stato d'animo di Dante attraverso poche parole, e risponde anche a ciò che non è stato detto. La situazione stabilisce fra i due una corrente d'intesa e d'affetto - da maggiore a minore - che è base del loro rapporto. Qui si convien lasciare ogne sospetto: è necessario; corrisponde al latino «opus est»; cfr. Eneide. VI 261: "ora ci vuole coraggio, Enea, e dura saldezza di petto". Si ripete qui, di fatto, la scena dell' Eneide, dove la Sibilla esorta Enea al coraggio nello stesso momento dell'entrata nel mondo degli inferi. Qui si convien lasciare ogni sospetto (timore), che include esitazione, sospetto vale infatti in Dante «paura», «esitazione» e anche «dubbio». Ogne viltà convien che qui sia morta. Viltà: la pusillanimità è appunto la causa del timore. Questo atteggiamento deve essere del tutto vinto da chi entra nell'aldilà (convien che qui sia morta). Si rinnova qui in qualche modo la situazione del canto II, e si può dire che essa non è mai del tutto superata nell'Inferno, ma resta quasi un motivo fisso nella cantica: viltà e timore da parte di Dante, conforto e sicurezza da parte di Virgilio. Tale diverso ruolo, che ben si giustifica sul piano teologico dell'allegoria, diventa il centro generatore del vincolo umano e affettivo che legherà i due personaggi. Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto, dove si descrive appunto l'inferno. Che tu vedrai le genti dolorose ( che provano dolore).
E poi che la sua mano a la mia puose mi prese per mano, con lieto volto, ond'io mi confortai, (dal viso lieto del duca prende conforto e sicurtà chi segue) (Boccaccio). I gesti e il volto di Virgilio – a cui sempre è fisso lo sguardo di Dante – mutano e si conformano alle diverse situazioni, determinandone l'umana e concreta realtà. Mi introdusse nelle realtà nascoste sotto terra, e ignote ai vivi.
Anche qui abbiamo il parallelismo con l'Eneide, quando la Sibilla incoraggia Enea ad entrare nel Tartaro "Quand'ecco ai primi chiarori del sorgere del sole mugghiare la terra sotto i piedi e le cime delle selve cominciare a tremare e le cagne  sembrano ululare attraverso l'oscurità all'avvicinarsi della dea. - Lontani, state lontani, o profani, - grida la veggente, - e allontanatevi da tutto il bosco; e tu intraprendi la via e strappa la spada dal fodero: ora, o Enea, ci vuole coraggio, ora ci vuole un animo risoluto. Detto questo entrò furente nell'antro aperto; ed egli con passo sicuro eguaglia la guida che avanza".

canto 3 3

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.

E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».


Quivi sospiri... (è la prima impressione all'affacciarsi nell'aldilà, tutta auditiva, perché, per la grande oscurità (l'aere sanza stelle), la vista sembra ancora non distinguere niente. L'attacco è anche questa volta virgiliano: «Di lì s'odono lamenti e fischiare furiose percosse, e poi stridore di ferro e strisciare di catene» (Eneade VI 557-8); il verso di Virgilio rappresenta l'orrore della scena, mentre quello dantesco è attento soprattutto all'umano dolore, che si riflette nell'animo del poeta (ne lagrimai). Il mondo degli inferi pagano ignora infatti il tema tragico del dolore proprio dell'inferno cristiano, dove l'uomo ha perso per sempre (c'hanno perduto...) la suprema felicità che gli era dato raggiungere, cioè l'unione con Dio. Bisogna sempre tener presente questa differenza fondamentale, nei continui raffronti tra Eneide e Inferno: il motivo teologico, più che morale, del dolore per una perdita irrevocabile e infinita che caratterizza il testo dantesco; mentre il pur umanissimo Virgilio non può cogliere questa dimensione, che gli è ignota.
Guai: guaio vale «lamento acuto» « risonavan per l'aere sanza stelle, » sanza stelle: così è la volta infernale, priva di ogni luce che sulla terra conforta gli uomini (cfr. Eneide. III 204: «notti senza stelle»). « per ch'io al cominciar ne lagrimai. ». Già è posto, fin dal principio, l'atteggiamento con cui Dante reagirà al dolore infernale: questo primo pianto è emblematico della pietate che lo accompagnerà per tutta la cantica. « Diverse lingue, orribili favelle,»: le due terzine riprendono e dispiegano con maggiore ampiezza il motivo della precedente: i pianti si precisano in varie forme, con una progressione discendente (lingue-favelle-parole-accenti-voci), come sopra in progressione ascendente (sospiri-pianti-guai). Diverse: differenti fra loro (giacché tutti convegnon qui d'ogne paese). Preferisco questa interpretazione, all'altra: «strane», «disumane», perché la pluralità delle lingue per Dante è di per sé segno della decadenza dell'uomo dalla sua primitiva condizione, e anche perché l'altro concetto - dell'orrido e disumano - è espresso da: orribili favelle.
« parole di dolore, accenti d'ira, » mentre voci indica il semplice suono vocale; parole, accenti, voci, sono quindi forme sempre più limitate di espressione, secondo la scala decrescente di cui sopra. « voci alte e fioche, e suon di man con elle » suon di man: battere di mani fra loro (o sui corpi dei dannati). « facevano un tumulto, il qual s'aggira » « sempre in quell'aura sanza tempo tinta, » sanza tempo tinta: eternamente oscura, senza l'alternarsi del giorno e della notte; tinta vale per «scura, nera», «come la rena quando turbo spira. » tutti gli antichi intendono turbo come un particolare tipo di vento: «Il termine turbo viene dal termine terra, poiché il vento si alza e fa mulinare la terra». La similitudine, che è l'elemento inventivo dantesco sullo sfondo virgiliano dell'immagine, riassume con evidenza il confuso tumulto di quelle dolenti e indistinte voci, e la loro impotenza.
« E io ch'avea d'orror la testa cinta, » Orror: il testo è modificato rispetto all'edizione del Petrocchi: il testo del Petrocchi ha error (nel senso di «dubbio») che si trova in altri manoscritti. Preferisco orror, prima di tutto per i precisi riscontri virgilini (Eneide .II 559: «Allora un freddo orrore mi avvolse), fondamentali in questo canto, anche perché nella scena di Eneide VI il parallelismo continua nelle domande che seguono («Sgomento Enea si fermò per udire lo strepito: / Chi sono questi dannati? Vergine, parla. Quale / pena li afflige? Cos'è mai questo immenso gridare?»). Giova dire, peraltro, che anche l'accezione error può essere accettata.« dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo? » «Maestro...: le domande ripetute seguono, come abbiamo visto, lo schema virgiliano, che offre la partitura drammatica (i movimenti, le scene principali, gli attacchi del dialogo) a questo primo ingresso nell'oltremondo. La cosa, tutt'altro che segno di incertezza e di inesperienza, è voluta da Dante, che in apertura della Commedia getta così un ponte tra sé e gli antichi, come esplecitamente farà nel IV canto, ponendosi "sesto tra contato senno" proprio perché consapevole che nuova e diversa è la consistenza morale del suo discorso egli può permettersi tali scoperte imitazioni, che per lui sono il mezzo per collocare la sua Commedia al livello che le compete, e stabilire un nesso tra i due poemi dell'umano destino. « e che gent'è che par nel duol sì vinta?». » vinta: sopraffatta, abbattuta.

Gli ignavi
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».

E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.

Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».


« Ed elli a me: «Questo misero modo » modo: comportamento, modo di lamentarsi, modo come «contegno», « tegnon l'anime triste di coloro » triste: meglio intendere «malvage» che «dolenti» , sia per il parallelismo con il cattivo coro del v.37, sia per il tono di tutto il contesto, «più sprezzante che pietoso», « che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. » Sanza 'nfamia e sanza lodo: senza meritare presso gli uomini né infamia né lode. Con questa frase Dante definisce coloro che non hanno avuto il coraggio di compiere né il bene né il male; il loro contrassegno è la viltà. Essi sono quindi i pusillanimi che non hanno esercitato la facoltà di arbitrio - e quindi la ragione - per cui l'uomo è tale, e vive (che mai non fur vivi). Per loro Dante mostra il massimo disprezzo, proprio perché in loro manca ciò che, sia pure nel male, distingue l'uomo, e che egli sempre onora fin nel più profondo dell'inferno; l'asprezza con cui Dante tratta costoro non è da me condivisa, perchè non molto in sintonia con la predicazione di Gesù. Questa idea dantesca, di un luogo infernale che accoglie chi non fece né il male né il bene, ha un precedente nell'apocrifia Visio Pauli (antico racconto del viaggio di San Paolo, da vivo, all'inferno) dove è raffigurato un fiume di fuoco in cui stanno immersi «coloro che non sono né caldi né freddi, poiché non fanno parte né del numero dei giusti, né del numero dei malvagi». « Mischiate sono a quel cattivo coro » cattivo: «vile». L'accomppiamento sinonimico dei due termini si ritrova in molti testi del due e trecento: «vile e cattivo»; «opere di viltà e cattività». «Cattiveria» e «viltà» appaiono quindi come equivalenti, come si deduce anche dai vv.60-2. Precisare questo significato è importante, perché vi è racchiusa la definizione che Dante dà di queste anime: la setta d'i cattivi (v.62). Coro: schiera, detto in genere di chi canta o danza; trattandosi di angeli, è termine specifico (coro angelico) a indicare un loro raggruppamento. «de li angeli che non furon ribelli » li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro: gli angeli che, nello scontro tra Satana e Dio, non stettero né dalla parte dei ribelli, né dalla parte di Dio, ma neutrali. Sono dunque anch'essi ignavi. « né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. » Per sé fuoro: fecero parte a sé, né con Lucifero né con Dio (fuoro, furono, è, come furo, forma di perfetto arcaico, spesso usata nel poema). Di questi angeli neutrali non parla la Scrittura, ma non si tratta tuttavia di un'invenzione dantesca; si ritrova questa tradizione sia in testi letterari popolari, sia in testi teologici o filosofici. Pietro di Dante fa riferimento a testi di Ugo di San Vittore, e anche il Buti e l'Anonimo ne parlano come di cosa nota. «Caccianli i ciel per non esser men belli, » Caccianli: li rifiutano, li respingono da sé, per non essere men belli: perché «maculerebbero la lor bellezza» (Boccaccio). « né lo profondo inferno li riceve, » «ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli». » alcuna gloria: una qualche gloria. Poiché questi angeli non furono colpevoli di ribellione, i rei (i dannati) potrebbero trarre vanto o piacere «veggendoli in quel medesimo supplicio che essi» (Boccaccio). « Ed io: «Maestro, che è tanto greve » greve: pesante, doloroso. « a lor che lamentar li fa sì forte?». » « Rispuose: «Dicerolti molto breve. » Dicerolti: te lo dirò. Questo ordine dei pronomi (prima l'accusativo lo e poi il dativo ti) è normale fino al Boccaccio, sostituito poi fino a oggi dall'ordine dativo più accusativo («te lo dirò»); breve: brevemente, come si conviene a costoro. « Questi non hanno speranza di morte, » speranza di morte: non possono sperare neppure di morire, cioè di essere annullati per sempre, in modo da lasciare quella vilissima vita. Tale è del resto la condizione di tutte le anime dannate, che anche altrove nell'Inferno invocano la morte. Ma questi invidiano ogne altra sorte, cioè anche i peccatori più gravi nei più gravi tormenti, tanto la loro vità è ignominiosa. «e la lor cieca vita è tanto bassa, » cieca: oscura, senza alcuna luce; «come del resto fu la loro vita terrena» . Cieco è per altro aggettivo tipico dell' Inferno dantesco, quasi definitorio della condizione dei dannati, a cui è tolta per sempre la luce di Dio; cieco mondo. Bassa: abietta, ignobile. « che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.». « Fama di loro il mondo esser non lassa; » Fama di loro...: il mondo non lascia che resti alcun ricordo di loro; sia la misericordia sia la giustizia li disdegnano; non fermiamoci dunque a parlare di loro, ma guarda e tira dritto. Terzina scandita in tre fasi lapidarie e proverbiali, di cui l'ultima è rimasta forse la più nota di tutta la Commedia «(non ragioniam di lor, ma guarda e passa»; noto che alcuni, erroneamente dicono "non ti curar di loro ....". Tipicamente dantesca è la condensazione di una forte idea in formule brevi e di estrema evidenza, con parole che sembra impossibile sostituire. Sia gli uomini (il mondo) sia Dio stesso (nei suoi attributi di misericordia e giustizia, che corrispondono al paradiso e all'inferno) sdegnano costoro. Meglio quindi non fermarsi a parlarne. Esser non lassa: non lascia che resti; quella fama terrena che è invece l'unica parvenza di conforto che resta ai dannati, come vedremo nel seguito della cantica. « misericordia e giustizia li sdegna: » «non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;

e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.


« E io, che riguardai, vidi una 'nsegna » una 'nsegna: un vessillo, uno stendardo, che correva in tondo tanto veloce ...; per la legge del contrappasso, chi non ha seguito nessuna bandiera - buona o cattiva - sulla terra, è costretto qui a correre senza riposo dietro a uno di questi segni, simboli di una scelta per cui si scende in combattimento. « che girando correva tanto ratta, » « che d'ogne posa mi parea indegna; » d'ogne posa... indegna: sdegnosa, insofferente di ogni riposo, di ogni pausa; che quindi non si arresta mai («non tollerante un attimo di posa»: Pagliaro); « e dietro le venìa sì lunga tratta » tratta: moltitudine, seguito. « di gente, ch'i' non averei creduto » ch'i' non averei creduto...: l'impressione del grande, innumerevole numero delle anime dannate tornerà altre volte; questa è la prima, e come tale più colpisce la fantasia. « che morte tanta n'avesse disfatta. » disfatta: distrutta; indica il disfacimento della morte. « Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, » « vidi e conobbi l'ombra di colui » colui che fece...: chi sia questo personaggio, l'unico che Dante indica fra i pusillanimi, è questione ancora discussa. Ma i più antichi commentatori - fra cui Pietro di Dante - vi riconobbe senza alcuna esitazione Celestino V, l'eremita Pietro da Morrone che rinunciò al papato dopo pochi mesi di regno nel 1294, e a cui seguì Bonifacio VIII. « che fece per viltade il gran rifiuto » che per viltà fece il gran rifiuto. « Incontanente intesi e certo fui » Allora capii e fui certo « che questa era la setta d'i cattivi, » che questa era la schiera dei cattivi « a Dio spiacenti e a' nemici sui. » Spiacenti a Dio perché non buoni e ai nemici di Dio perché non troppo malvagi. « Questi sciaurati, che mai non fur vivi, » « erano ignudi e stimolati molto » erano nudi e punzecchiati in continuazione « da mosconi e da vespe ch'eran ivi. » « Elle rigavan lor di sangue il volto, » « che, mischiato di lagrime, a' lor piedi ». « da fastidiosi vermi era ricolto.»

L'Acheronte
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’io discerno per lo fioco lume».

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.


La scena cambia, comincia la terza parte del canto. E col fiume Acheronte torna in primo piano il modello virgiliano, abbandonato nella scena degli ignavi, se non per l'idea generale di una turba di anime (gli insepolti) che non varca il fiume. L'Acheronte, come nell'Eneide, segna il confine dell'oltremondo. E' questo il primo dei quattro fiumi della mitologia classica che Dante ha posto nel suo inferno (Acheronte, Stige, Flegetonte, Cocito) che con i loro nomi creano una sorta di riconoscibile geografia nel mondo dell'aldilà.
Dante vede delle genti assiepate sulla riva di un grande fiume, pronte ad attraversarlo, e chiede a Virgilio chi siano: ciò però gli sarà raccontato solo quando arriveranno alla trista riviera dell'Acheronte: Dante allora si vergogna della sua impazienza e con li occhi vergognosi e gravi si astiene dal parlare fino alla riva. E' il primo esempio di quell'atteggiamento di umile timore e vergogna che più volte assumerà Dante di fronte a Virgilio. Egli sottolinea così la sua condizione di inferiorità di chi va come peccatore; Virgilio rimanda la spiegazione a quando Dante avrà visto da vicino e vissuto drammaticamente la scena della riva, che così da lontano non può essere compresa nel suo profondo significato.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare ».

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude
,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

L'arrivo di Caronte è improvviso. Egli rompe l'atmosfera sospesa del Canto e domina la scena, minaccioso ma con una sua maestà, che gli deriva dal verso virgiliano da cui discende. Ed ecco venire verso di noi su di una barca un vecchio con i capelli bianchi gridando: "Guai a voi anime malvage! Non sperate mai di rivedere il cielo: io vengo per condurvi sull'altra riva nelle tenebre eterne, nel caldo e nel gelo. E tu che sei vivo (rivolgendosi a Dante) vattene da costoro che sono morti". Ma poi che vide che io non mi mossi disse: "Per passare nell'aldilà non è questa la strada che prenderai". E Virgilio a lui: "Caronte non ti arrabbiare, si vuole così nel paradiso, dove si ottiene quel che si vuole e non chiedere altro". Il traghettatore dagli occhi fiammeggianti da quel momento in poi non dice più nulla. Nella religione greca e nella religione romana, Caronte era il traghettatore dell'Ade. Trasportava le anime dei morti da una riva all'altra del fiume Acheronte, ma solo se i loro cadaveri avevano ricevuto i rituali onori funebri (o, in un'altra versione, se disponevano di un obolo per pagare il viaggio); chi non li aveva ricevuti (o non aveva l'obolo) era costretto a errare in eterno senza pace tra le nebbie del fiume. Nell'antica Grecia vigeva la tradizione di mettere una moneta sotto la lingua del cadavere prima della sepoltura. La tradizione rimase viva in Grecia fino a epoche abbastanza recenti ed è probabilmente di origine antica. Qualche autore sostiene che il prezzo era di due monete, sistemate sopra gli occhi del defunto o sotto la lingua. Nessuna anima viva è mai stata trasportata dall'altra parte, con le sole eccezioni della dea Persefone, degli eroi Enea, Teseo, Piritoo, Ercole e Odisseo, del vate Orfeo, della sibilla cumana Deifobe, di Psyche e, nella letteratura e nelle tradizioni successive a quella greca antica, di Dante. Caronte è figlio di Erebo e Notte. Per altra via ... per la diversa via destinata a chi si salva; nell'aldilà dantesco, le anime dei salvati si radunano alla foce del Tevere e di là la nave guidata dall'angelo le conduce alla riva del Purgatorio. Quella foce e quella riva sono gli altri porti cui Caronte accenna. »

Il personaggio di Caronte è tratto integralmente dall'Eneide, come l'immagine delle foglie che cadono d'autunno, le anime che chiedono di attraversare l'Acheronte, Caronte che si ribella all'idea che un mortale si avvicini alla riva e la Sibilla che lo rassicura. "Di qui comincia la via che porta alle onde del Tartareo Acheronte, qui un gorgo torbido di fango ribolle in una vasta voragine ed erutta tutta la sua melma nel Cocito. Queste acque e i fiumi custodisce Caronte, orrendo nocchiero nella sua terribile asprezza, che porta sul mento una folta e incolta barba bianca, stanno fissi gli occhi fiammeggianti e un sordido mantello gli pende dalle spalle legato con un nodo. Egli stesso spinge la barca con un palo, la governa colle vele e traghetta sulla navicella di cupo colore, ormai vecchio, ma per il dio quella vecchiaia è ancor fresca e verde. Qui, sparsa sulle rive, si precipitava tutta la turba, madri e uomini e corpi privati della vita di magnanimi eroi, fanciulli e nubili fanciulle e giovani posti sui roghi sotto gli occhi dei genitori: come numerose nelle selve cadono le foglie staccandosi al primo freddo dell'autunno, o come numerosi gli uccelli si rifugiano sulla terra venendo dall'alto mare quando la fredda stagione li mette in fuga dai luoghi posti oltre il mare e li sospinge verso terre assolate. Le anime stavano ferme e pregavano di compiere per prime il tragitto e tendevano le mani per il desiderio della riva opposta. Ma l'iracondo aspro nocchiero accoglie ora queste ora quelle e scaccia gli altri, sospinti lontano dalla riva."....."Quindi proseguono il cammino intrapreso e si avvicinano al fiume. Quando il nocchiero fin dall'onda Stigia li scorse andare per il bosco silenzioso e volgere i passi verso la riva, così per primo li assale con queste parole e li apostrofa ad alta voce: - Chiunque tu sia che ti dirigi armato al nostro fiume, orsù, di lì dimmi perché vieni e ferma il passo. Questo è il luogo delle Ombre, del Sonno e della soporifera Notte; non è permesso trasportare corpi viventi sulla barca Stigia." ... "Contro queste parole brevemente parlò la veggente: - Qui non ci sono tali insidie, cessa di adirarti; né le armi portano violenza; l'immane portinaio atterrisca pure le pallide ombre latrando in eterno nel suo antro e la casta Proserpina custodisca pure la casa dello zio paterno. Il troiano Enea, insigne per la pietà e per le armi, scende da padre tra le ombre del profondo Erebo. Se alcun pensiero di così grande pietà ti muove, riconosci almeno questo ramo. Allora s'acquietò il cuore gonfio d'ira, né aggiunse altre parole a queste. Ammirando il venerabile dono del fatale ramo d'oro, veduto dopo lungo tempo, gira la cerulea poppa e s'avvicina alla riva. Quindi allontana le altre anime che siedono sui lunghi banchi e sgombra le corsie e nello stesso tempo accoglie nello scafo il pesante Enea. Gemette sotto il peso la navicella di giunchi intrecciati rivestiti di cuoio e piena di fessure ricevette molta acqua. Infine la veggente e l'eroe depose incolumi al di là del fiume sul fango informe e sulla verdazzurra erba palustre.".

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’
l seme di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ra
mo vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.

Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.

«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese:

e pronti sono a trapassar lo rio,
ch‚ la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l’uom cui sonno piglia.


Ma quell'anime che erano disperate e nude cambiarono colore e batterono i denti, appena intesero le crude parole di Caronte. Bestemmiavano Dio e i loro parenti, il genere umano, il seme dei loro avi e dei loro genitori. Poi si radunarono tutte quante insieme, piangendo forte sulla riva dei malvagi che attende tutti gli uomini che non temono Dio. Il demonio Caronte con occhi di brace, con un cenno le raccoglie tutte dentro la barca; colpisce con il remo chiunque si lascia andare a sedere. Come in autunno (la grande similitudine virgiliana ritorna con impressionnate somiglianza a sugellare questo primo canto) cadono le foglie una dopo l'altra, finché il ramo vede a terra le sue stesse parti, in maniera molto simile i cattivi discendenti di Adamo si levano da quella riva ad uno ad uno con i cenni di Caronte, come un uccello si muove al suo richiamo. Così se ne vanno sull'onda scura e prima che siano approdate sulla riva opposta del fiume, da questo lato si forma nuovamente un gruppo di dannati. "Figlio mio", disse il mio maestro cortesemente, "Quelli che muoiono nel peccato giungono qui da ogni parte del mondo e sono pronti ad attraversare il fiume, perché la giustizia divina li sprona, così che la paura di essere puniti si trasforma in desiderio. Da qui non passa mai anima buona; però se Caronte si lamenta di te, ormai sai che cosa significano le sue parole". "Che il suo dir suona ...": e cioè Dante, uscito dalla selva del peccato, con l'aiuto divino, non appartiene più al mondo del peccato ma a quello della grazia. "Dopo che il maestro ebbe finito di parlare, la terra tremò in maniera così forte che la fronte ancora mi bagna di sudore. La terra lacrimosa sprigionò un vento, che emanando una luce rossa, mi fece perdere del tutto i sensi e caddi come preso da un improvviso sonno".

PARAFRASI COMPLETA

"Attraverso me si entra nella città del dolore, attraverso me si va nel dolore eterno, attraverso me si va tra le anime perdute (dannati).

La giustizia ha fatto agire il mio alto Creatore (Dio): mi hanno costruito la potestà divina (Padre), la somma sapienza (Figlio) e il primo amore (Spirito Santo).

(Nell'inferno è quindi presente anche l'amore. Come in tutte le opere di Dio)

Prima di me non fu creato nulla, se non eterno, e io durerò eternamente. Lasciate ogni speranza, voi che entrate qui".

(Non hanno speranza di vedere Dio nemmeno le anime del Limbo)

Io vidi queste parole scritte con colore (o senso) oscuro in cima a una porta, per cui dissi: «Maestro, non ne capisco il senso».

Ed egli mi rispose, come persona saggia:«Qui è necessario abbandonare ogni esitazione, e non bisogna essere vili.

Noi siamo giunti nel luogo dove, come ti ho detto, vedrai le anime dannate che hanno perduto la luce dell'intelligenza divina».

E dopo che mi ebbe preso per mano, con volto sorridente che mi confortò, mi fece entrare in quel luogo separato dal mondo dei vivi (all'Inferno).

Qui sospiri, pianti e alti lamenti risuonavano in quell'aria priva di stelle, in modo tale che all'inizio ne piansi.

Lingue strane, pronunce orribili, parole di dolore, imprecazioni d'ira, voci acute e flebili, e un suono di mani insieme ad esse creavano un frastuono, che rimbomba di continuo in quell'aria eternamente oscura, proprio come la sabbia quando soffia la tempesta.

E io, che avevo la testa piena di dubbi, dissi: «Maestro, che cos'è quello che sento? e chi sono costoro che sembrano così sopraffatti dal dolore?»

Lui mi rispose: «Questa è la misera condizione delle anime tristi di quelli che vissero senza infamia e senza meriti.

(Per loro Dante mostra il massimo disprezzo, perchè manca in loro ciò che distingue l'uomo).

Sono mescolate a quell'insieme spregevole degli angeli che non si ribellarono a Dio, né gli rimasero fedeli, ma furono neutrali.

I cieli li cacciano per non perdere la loro bellezza, né l'Inferno li accoglie nelle sue profondità, poiché i dannati (rei) potrebbero ricevere alcuna gloria dalla loro presenza».

E io: «Maestro, che cosa è tanto fastidioso per loro, da farli lamentare così forte?» Mi rispose: «Te lo dirò molto brevemente.

Queste anime non possono sperare di morire, e la loro attuale condizione è tanto spregevole che invidiano qualunque altra sorte.

Il mondo non lascia che ci sia di loro alcun ricordo; la misericordia e la giustizia divina li sdegnano; non perdiamo tempo a parlare di loro, ma da' una rapida occhiata e passa oltre».

E io, guardando, vidi una insegna che, girando su se stessa, correva tanto rapidamente che mi sembrava non dovesse fermarsi mai;

e dietro di essa veniva una fila di anime tanto lunga, che non avrei mai creduto che la morte ne avesse disfatte tante (che ci fossero stati tanti defunti).

Dopo che ebbi riconosciuto qualcuno di loro, vidi e riconobbi l'ombra di colui che per viltà fece il grande rifiuto.

Capii all'istante e fui certo che questa era la schiera dei vili che spiacevano tanto a Dio quanto ai suoi nemici (diavoli).

Questi sciagurati, che non vissero mai veramente, erano nudi e punti continuamente da mosconi e vespe tutt'intorno.

Esse facevano sanguinare il loro volto, che cadeva a terra frammisto a lacrime ed era raccolto da vermi ripugnanti.

E quando spinsi il suo sguardo oltre, vidi delle anime sulla sponda di un grande fiume; allora dissi: «Maestro, ora concedimi di sapere chi sono quelle anime, e quale istinto le fa sembrare così ansiose di passare dall'altra parte, proprio come mi sembra di vedere nella poca luce».

Ed egli mi rispose: «Le cose ti saranno chiare quando noi giungeremo sulla triste sponda del fiume Acheronte».

Allora, abbassando gli occhi con vergogna, nel timore che parlando potessi dargli fastidio, non pronunciai parola fino al fiume.

Ed ecco che un vecchio, dal volto coperto da una barba bianca, veniva verso di noi su una barca, gridando: «Guai a voi, anime malvagie!

Non sperate di poter mai vedere il cielo: io vengo per condurvi all'altra sponda, nelle tenebre eterne, tra le fiamme e il ghiaccio.

E tu che sei lì, anima viva, allontànati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo, disse: «Tu giungerai all'approdo per un'altra via, per altri porti, non certo qui per passare (nell'Aldilà); è stabilito che ti porterà una nave più leggera della mia».

E il maestro gli disse: «Caronte, non ti angustiare: si vuole così lassù (in cielo) dove è possibile tutto ciò che si vuole, quindi non dire altro».

Da lì in avanti si acquietarono le guance coperte di pelo del traghettatore di quella sozza palude, il quale aveva gli occhi circondati da ruote di fiamme.

Ma quelle anime, che erano nude e prostrate, cambiarono colore e batterono i denti, appena udirono le sue parole crude.

Bestemmiavano Dio e i loro genitori, la specie umana, il luogo, il momento e il seme del loro concepimento e della loro nascita.

Poi si portarono tutte insieme, piangendo disperati, alla sponda del fiume infernale che attende ogni uomo che non teme Dio.

Il demonio Caronte, con gli occhi fiammeggianti come brace, facendo loro dei cenni le raccoglie tutte; batte col suo remo qualunque di essi che si stenda (sul fondo della barca).

Come d'autunno cadono le foglie, una dopo l'altra, finché il ramo vede a terra tutte le sue vesti, allo stesso modo la cattiva discendenza di Adamo (i dannati) si getta da quella riva ad una ad una, rispondendo ai cenni di Caronte, come un uccello risponde al richiamo.

Così vanno lungo le acque scure del fiume, e prima che siano scese dall'altra parte, di qua si è accalcata un'altra schiera.

«Figlio mio,» disse il nobile maestro, «tutti quelli che muoiono in disgrazia si radunano qui da tutto il mondo:

e sono ansiosi di passare il fiume, poiché la giustizia di Dio li sprona e fa sì che il timore si trasformi in desiderio.

Di qui non passa nessun'anima che sia buona, perciò, se Caronte si lamenta di te, ormai puoi capire cosa significano le sue parole (che sei destinato alla salvezza)».

Alla fine di ciò, quei luoghi oscuri tremarono così forte che, dalla paura, il solo ricordo mi bagna di sudore.

La terra bagnata di lacrime produsse un vento, il quale fece lampeggiare una luce rossastra che sopraffece ogni mio senso; e caddi come l'uomo preso da sonno (svenni).

L'ACHERONTE E Il CARONTE virgiliani. Eneide Libro VI

Quinci preser la via là ’ve si varca
Il tartareo Acheronte. Un fiume è questo
Fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
Che bolle e frange, e col suo negro loto 440
Si devolve in Cocíto. È guardïano
E passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio spaventoso e sozzo,
A cui lunga dal mento, incolta ed ir

Pende canuta barba. Ha gli occhi accesi 445
Come di bragia. Ha con un groppo al collo
Appeso un lordo ammanto, e con un palo,
Che gli fa remo, e con la vela regge
L’affumicato legno, onde tragitta
Su l’altra riva ognor la gente morta. 450
Vecchio è d’aspetto e d’anni; ma di forze,
Come dio, vigoroso e verde è sempre.
     A questa riva d’ogn’intorno ognora
D’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni grado
A schiere si traean l’anime spente, 455
E de’ figli anco innanzi a’ padri estinti.
Non tante foglie ne l’estremo autunno
Per le selve cader, non tanti augelli
Si veggon d’alto mar calarsi a terra,
Quando il freddo li caccia ai liti aprichi, 460
Quanti eran questi. I primi avanti orando
Chiedean passaggio, e con le sporte mani
Mostravan il disio de l’altra ripa.
Ma ’l severo nocchiero or questi or quelli
Scegliendo o rifiutando, una gran parte 465
Lunge tenea dal porto e da l’arena.
     Enea la moltitudine, e ’l tumulto
Meravigliando: Ond’è, vergine, disse,
Questo concorso al fiume? e qual disio

Mena quest’alme? e qual grazia o divieto 470
Fa che queste dan volta, e quelle approdano?
     A ciò la profetessa brevemente
Così rispose: Enea, stirpe divina
Veracemente (che di ciò n’accerta
Il qui vederti), là Cocíto stagna; 475
Quinci va Stige, la palude e ’l nume
Per cui di spergiurar fino a gli Dei
Del cielo è formidabile e tremendo.
Questi è Caronte il suo tristo nocchiero:
Quella turba che passa, è de’ sepolti: 480
Questa che torna, è de’ meschini estinti
Che nè tomba nè lacrime nè polve
Ebber morendo. A lor non è concesso
Traiettar queste ripe e questo fiume,
Se pria l’ossa non han seggio e coverchio. 485
Erran cent’anni vagolando intorno
A questi liti, e ’l disiato stagno
Visitando sovente, infin ch’al passo
Non sono ammessi. Enea di ciò pensando,
Mosso a pietà de la lor sorte iniqua 490
Fermossi; ed ecco incontro gli si fanno
Mesti, d’essequie privi e di sepolcro
Leucaspi, e ’l conduttor de’ Lici Oronte,
Ambi Troiani, ambi dal vento insieme

Coi Lici tutti, e con l’intera nave 495
Nel mar sommersi. Appresso Palinuro
Il gran nocchier de la troiana armata,
Che dianzi nel tornar di Libia, il cielo
E le stelle mirando, in mar fu tratto.

...........

Indi il cammin seguendo, a la riviera
S’approssimaro; e il passeggier da lunge,
Poichè senza far motto entro a la selva
Passar gli vide e ’ndirizzarsi al vado:
Olà, ferma costì, - disse gridando -
Qual che tu sei, ch’al nostro fiume armato

Ten vai sì baldanzoso; e di costinci 570
Di’ chi sei, quel che cerchi, e perchè vieni:
Chè notte solamente e sonno ed ombre
Han qui ricetto, e non le genti vive,
Cui di varcare al mio legno non lece.
E s’Ercole e Tesèo e Piritòo 575
Già v’accettai, scorno e dolore n’ebbi;
Chè l’un d’essi il tartarëo custode
Incatenovvi, e, di sotto anco al seggio
Del proprio re, tremante a l’aura il trasse;
E gli altri alfin dal maritale albergo 580
Rapir di Dite la regina osaro.
     Nulla di queste insidie, gli rispose
La profetessa, a macchinar si viene.
Stanne sicuro; e quest’arme a difesa
Si portan solamente, e non ad onta. 585
Spaventi il can trifauce a suo diletto
Le pallid’ombre; eternamente latri
Ne l’antro suo; col suo marito e zio
Si stia casta Proserpina mai sempre,
Chè di nulla cen cale. Enea troiano 590
È questi di pietà famoso e d’armi,
Che per disio del padre infino al fondo
De l’Erebo discende; e se l’esempio
Di tanta carità non ti commove

Questo almen riconosci. E, fuor del seno 595
D’oro il tronco traendo, altro non disse.
     Ei, rimirando il venerabil dono
De la verga fatal, già di gran tempo
Non veduto da lui, l’orgoglio e l’ira
Tosto depose, e la sua negra cimba 600
A lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi i banchi sgombrando e ’l legno tutto,
L’anime, che già dentro erano assise
Con súbito scompiglio uscir ne fece,
E ’l grand’Enea v’accolse. Allor ben d’altro 605
Parve che d’ombre carco; e sì com’era
Mal contesto e scommesso, cigolando
Chinossi al peso, e più d’una fissura
A la palude aperse. Alfin pur salvi
Ne l’altra ripa, tra le canne e i giunchi 610
Sul palustre suo limo ambi gli espose.

Gli ignavi

Queste anime non presero mai una posizione nella loro vita, né per il bene, né per il male. A questo proposito, Dante li colloca fra il fiume Acheronte e la porta che dà accesso al mondo degli Inferi. Omertosi, mai agirono esprimendo le proprie idee ma, piuttosto, adeguandosi alla massa e al più forte. Anche gli angeli che non si schierarono né con Dio né con Lucifero sono collocati nell‘Antinferno. Questa categoria di peccatori che non si schierò mai nella loro vita terrena, non può appartenere a nessun schieramento nemmeno da morti. Questo odio che Dante porta per gli ignavi a me sembra un po' in contrasto con la beatitudine "beati i poveri di spirito". E' sempre bene leggere le Beatitudini! Gesù le ha proclamate nella sua prima grande predicazione, sulla riva del lago di Galilea. C’era tanta folla e Lui salì sulla collina, per ammaestrare i suoi discepoli, perciò quella predica viene chiamata “discorso della montagna”. Nella Bibbia, il monte è visto come luogo dove Dio si rivela, e Gesù che predica sulla collina si presenta come maestro divino. E che cosa comunica? Gesù comunica la via della vita, quella via che Lui stesso percorre, anzi, che Lui stesso è, e la propone come via della vera felicità.

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Eugenio Caruso - 2 maggio 2018

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