Recentemente il Presidente della Repubblica, Mattarella ha citato Einaudi per giustificare
un suo eventuale stop alle proposte del costituendo governo verde-giallo. Ma Mattarella con il suo entourage di democristiani di sinistra ed ex comunisti dovrebbe ricordare cosa realmente affermava Einaudi.
In compagnia di molti altri, liberali e non, Einaudi nutriva un certo scetticismo nei confronti della democrazia di massa, originata dal suffragio universale e dal ruolo sempre più cruciale ricoperto dai partiti politici. Ecco perché riteneva essenziale che la struttura istituzionale incorporasse una nutrita serie di contropoteri e garanzie, necessarie per salvaguardare le libertà dei cittadini mediante una attenta limitazione del potere politico – e dell’impatto della sfera pubblica sulla società civile.
Già di fronte al fascismo imperante Einaudi aveva rivendicato la validità assoluta dei principi fondamentali del costituzionalismo liberale classico:
«Lo stato demo-liberale, il quale affida i poteri legislativo ed esecutivo ai designati della maggioranza di un parlamento scelto da un suffragio, universale o larghissimo, di uomini votanti nella loro indistinta qualità di cittadini, crea la propria classe politica col seguente congegno:
- libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri a partecipare alla vita pubblica;
- assenza di qualunque posizione acquisita personale; per cui ognuno, il quale sia giunto ad alta posizione politica sia sempre soggetto ad essere scalzato da un qualunque nuovo venuto, il quale sappia meglio cattivarsi il favore popolare;
- assenza di qualunque posizione acquisita da parte dei grandi gruppi di interessati. Se gli industriali, se gli agricoltori, se gli intellettuali, se i contadini o gli operai vogliono far sentire la loro voce, debbono agire per mezzo dello strumento discussione. Debbono, cioè, organizzarsi, parlare, agitarsi per attrarre a sé gli elettori; per dimostrare che i loro interessi meritano attenzione o tutela» . (Stato liberale e stato organico fascista, «Corriere della Sera», 16 agosto 1924, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 794-795).
Una funzione centrale non veniva attribuita solo alla classe politica, ma anche e soprattutto al rispetto delle procedure e dei limiti posti dall’eguale libertà dei contendenti alla conquista del potere. Nondimeno, anche quando fossero state rispettate tutte le procedure prescritte a garanzia delle libertà di ognuno, uno Stato liberale degno di questo nome non avrebbe dovuto intromettersi nelle scelte dei cittadini. Einaudi delineava infatti un modello statuale nel quale il pluralismo sociale ed economico avrebbe dovuto garantire gli indispensabili spazi di libertà pubblica e privata. Un concetto che venne ulteriormente ribadito in un lungo brano risalente al 1925, che sembra utile riportare per esteso:
«Lo stato liberale non è agnostico, né in materia di fede, né in materia economica o morale. Esso ha una dottrina e in base a questa dottrina agisce. Quando lo stato si astiene dall’intervenire nelle controversie religiose e non vuole sancire la supremazia di una chiesa sulle altre, ciò fa perché sua dottrina è che al senso del divino possa elevarsi solo la coscienza individuale. Perché, così opinando, dovrebbe forzare la coscienza individuale a una fede? o non invece, come fa, mettere le coscienze individuali in grado di scegliersi e di crearsi quella fede in cui meglio esse si adagiano? Perché dovrebbe, passando all’economia, lo stato sostituirsi all’individuo, creare un’organizzazione paternalistica o comunistica della produzione o degli scambi, quando invece è opinione, è principio dello stato liberale che l’individuo possa meglio raggiungere il massimo vantaggio nella produzione e negli scambi agendo liberamente? Quando così opera, lo stato liberale non è agnostico; ma conseguente al suo principio, ma logico nella sua attuazione. Epperciò anche, se si persuade che l’individuo libero di agire sopraffà altrui e va contro all’interesse collettivo, lo stato liberale non indugia a porre limiti alla libertà assoluta degli individui. […] Sempre lo stato liberale agisce partendo dalla premessa, la quale è sua fede e sua ragion d’essere, che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni di sviluppare la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, morali e materiali, se medesimo e la collettività, per concorrere e collaborare, singolarmente ed associatamente, nelle forme più svariate ed adatte ai singoli fini, con gli altri individui appartenenti alla medesima collettività. Col perfezionarsi e col complicarsi della vita collettiva, crescono i limiti e i vincoli all’azione individuale; ma il loro crescere ha sempre per scopo di promuovere lo sviluppo intimo, spontaneo della personalità umana. Il liberalismo si diversifica dal socialismo da una parte e dall’autoritarismo dall’altro, perché queste due dottrine, sebbene opposte, concordano per ciò che fanno dipendere il progresso umano da un impulso venuto dal di fuori, dall’organizzazione, dal governo, dalla legge, impulso che preme sull’individuo e lo spinge ad innalzarsi; laddove la dottrina liberale nega che l’impulso esterno sia efficace, e se consente allo stato, alla forza esterna la capacità di fare qualcosa, questo qualcosa sta nel togliere gli impedimenti e nel creare le condizioni, nel segnare le vie, nel marcare i passi entro cui ed attraverso a cui l’individuo deve da sé trovare, col proprio intimo perfezionamento, collo sforzo faticoso, coll’esperienza vissuta, attraverso a contrasti e a insuccessi, in contrasto e in collaborazione con altri individui, separati o associati, la via della salvezza. Negare la virtù del paternalismo, affermare la fecondità della auto-educazione, vuol forse dire non avere una fede, una dottrina? Mai no. Vuol dire anzi avere una fede virile, una dottrina maschia. Vuol dire credere ed agire affinché l’uomo si innalzi, in società con altri uomini, ognora più in alto, verso un ideale divino» (La dottrina liberale, «Corriere della Sera, 6 settembre 1925, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VIII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 461-462).
Lo Stato liberale nasceva con un innegabile fondamento individualistico; ma non si trattava dell’individualismo atomistico evocato dai nemici del liberalismo, poiché descriveva un individuo ben inserito nel tessuto sociale. Se, ancora una volta, il fine della concezione liberale risiedeva nella garanzia del più ampio sviluppo delle capacità individuali, la struttura istituzionale – al pari di quella economica – era a questo fine assoggettata e da esso complessivamente plasmata. Per Einaudi, d’altronde, non esiste progresso senza lotta, senza che gli individui possano creare stili di vita tra loro diversissimi e contrastanti. Ecco il principio che caratterizzava lo Stato liberale; quello stesso principio che la dittatura fascista avrebbe di lì a poco liquidato in maniera definitiva.
Non diversamente, quando si trattò di ricostruire la democrazia italiana dopo il ventennio, Einaudi mise in guardia rispetto all’opportunità di adottare un modello improntato alla democrazia “pura” di stampo franco-tedesco. Ma se una delle principali funzioni attribuite allo Stato liberale era la tutela del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento, come attuare concretamente un simile ordinamento? Tentando di rispondere a questa domanda, Einaudi elaborò una singolare declinazione dei principi del costituzionalismo liberale, incentrato sulla divisione dei poteri – tanto orizzontale (legislativo-esecutivo-giudiziario) che verticale (centro-periferia) – e sulla necessità di rendere inviolabili, e intoccabili dal legislatore ordinario, i diritti di libertà. Il suo progetto di organizzazione dei poteri è ben sintetizzato in questo brano:
«La fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale. […] Accanto al depositario della volontà popolare, vi deve essere colui che la interpreta. Re ereditario o presidente eletto, egli non ha il compito di governare, ma di accettare la designazione che gli elettori hanno implicitamente fatto di colui il quale dovrà costituire il governo. […] Quando la volontà sia chiara, il primo ministro sceglie i suoi colleghi. Naturalmente li sceglie in guisa che essi rappresentino le varie correnti della maggioranza, o, in caso di coalizioni, necessarie nelle ore gravi le diverse opinioni esistenti in seno al parlamento. Ma la scelta è fatta a suo giudizio insindacabile, perché i ministri da lui scelti costituiscono un gabinetto che deve governare solidarmente ed unitamente. […] Rimane fermo il punto capitale: che la volontà popolare, attraverso le elezioni o a spontanee formazioni, designa l’uomo il quale riscuota la fiducia dei parlamenti…ma il governo o gabinetto non può essere l’emanazione delle parti politiche singole o associate. Un governo diretto di parlamenti o di gruppi politici è sinonimo di tirannia. Parlamenti e gruppi politici designano e giudicano; non possono né devono governare» (Prime impressioni, «Risorgimento liberale», 13 dicembre 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 88-90).
Un ruolo preponderante, comunque, avrebbe dovuto essere giocato dalle autonomie locali: per Einaudi una delle priorità risiedeva nell’abolizione del prefetto, «questo simbolo della macchina amministrativa accentrata, la quale ha fatto sì in passato e farà mai sempre in avvenire, sinché durerà, che liberalismo e democrazia siano una turpe menzogna» (Gerarchia nel programma, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 1 luglio 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., p. 55). L’istituto prefettizio, una «lue…inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone», avrebbe vanificato qualsiasi velleità di autogoverno – poiché «democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro» – così da rendere «elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, ministri responsabili…una lugubre farsa» (Via il prefetto!, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 17 luglio 1944, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 55-56). La centralizzazione avrebbe peraltro impedito la formazione di una classe politica capace e responsabile, effetto indesiderato e, per Einaudi, addirittura intollerabile:
«Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé la proprie faccende locali…senza attendere il là o il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. […] La classe politica non si forma da sé, né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quella delle cose nazionali od inter-statali più grosse. La classe politica non si forma, tuttavia, se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?» (ivi, pp. 56-57).
Il federalismo di Einaudi, che si inserisce a buon diritto nella tradizione liberale classica, si arricchisce però di un ulteriore motivo. Egli ripeteva spesso che, per conservare un regime realmente liberale, sarebbe risultata cruciale l’esistenza di numerosi centri di potere autonomi; ma aggiungeva a questo ammonimento un’ulteriore considerazione, ossia che gli enti locali e le associazioni dei cittadini non costituivano solo un efficace contropotere, ma anche luoghi di crescita e di sviluppo della persona:
«Perché vi sia governo libero occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere a un comune, a una comunità o collegio di comuni, a una regione…Importa che accanto agli enti territoriali vi siano ordini professionali, associazioni artigiane, od operaie o contadine, camere di industriali, di commercianti, di agricoltori. Importa che vi siano corpi di insegnanti, dai maestri elementari ai professori di università… Fa d’uopo che esista un ordine giudiziario legato con la fonte del potere…soltanto da un originario atto di nomina; ma in verità quell’ordine deve reclutarsi per costume infrangibile anch’esso da sé…Se al tremendo pericolo della tirannia sempre imminente nelle società industriali moderne, previsto e temuto più di un secolo fa dai grandi pensatori politici che si chiamavano Alexis de Tocqueville e Jacob Burckhardt, vogliamo fuggire, importa fare ogni sforzo per conservare e ricostruire e rafforzare le forze sociali e politiche indipendenti dello stato leviathano: dar forza e vigoria alla persona umana, agli aggregati umani di cui l’uomo fa veramente parte, la famiglia, la vicinanza, il comune, la comunità, la regione, l’associazione di mestiere, di fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa. Gli uomini hanno bisogno di non sentirsi isolati, atomo fra atomo, numero fra numero, tutti uguali, tutti ugualmente sovrani e perciò tutti servi» (Letteratura politica, «Idea», II, 1946, n. 3, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 195-196).
In questa convinzione è possibile intravedere, tra l’altro, l’influenza del cattolicesimo liberale, tradizione cui Einaudi prestò particolare attenzione dialogando con eminenti esponenti di essa, in primo luogo Röpke. A differenza di molti pensatori cattolici, tuttavia, respingeva con decisione l’impiego di un sistema elettorale proporzionale, colpevole di frammentare la rappresentanza parlamentare e di non fornire maggioranze stabili ai governi. Tanto che in quei paesi «nei quali il regime democratico si era meglio affermato…l’opinione pubblica era rimasta nella sua grandissima maggioranza praticamente insensibile» ai tentativi di introdurre lo scrutinio su base proporzionale, restando fedele al sistema del «piccolo collegio uninominale» (Contro la proporzionale, «Idea», I, 1945, n. 3, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., p. 127), sistema che, pur non rispettando le aspirazioni a una giusta ed equa rappresentatività delle forze in campo, avrebbe garantito una maggiore elasticità e soprattutto un miglior esercizio dell’attività parlamentare. I partiti, dopotutto, non erano che mezzi grazie ai quali i cittadini partecipavano alla gestione della cosa pubblica, e non rappresentavano gli esclusivi depositari «delle loro idee e dei loro interessi» (ivi, p. 129).
La proporzionale, inoltre, avrebbe grandemente accresciuto il potere dei partiti, o meglio «dei comitati elettorali», e avrebbe privato l’elettorato di «ogni effettiva libertà di scelta dei propri rappresentanti». Cosa che invece non sarebbe avvenuta, per lo meno non con la stessa intensità, nel caso in cui si fosse adottato il sistema maggioritario uninominale, sistema non certo privo di difetti, ma che avrebbe garantito maggior coesione e minore dipendenza dai comitati centrali dei partiti, favorendo anche l’elezione di candidati indipendenti. L’autonomia e l’indipendenza individuali, ancora una volta, venivano considerati da Einaudi valori imprescindibili, tanto più in politica.
Eugenio Caruso - 13 maggio 2018
Impresa Oggi