GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. Gli imperatori romani figurano in un'altra sezione.
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Eraclio
Nella prima metà del VII secolo il mondo bizantino fu investito da una catastrofe in cui rischiò di scomparire: un'attacco persiano nel 603 priva l’impero della Mesopotamia Romana, della Siria, della Palestina e dell’Egitto, di alcune tra le sue province più floride, alle quali una trentina di anni dopo si associava la perdita del Nord Africa, fagocitata dall'espansione araba; la penisola balcanica e parte della Grecia continentale erano in preda agli attacchi di avari e slavi, mentre i longobardi avevano il controllo di gran parte dell’Italia.
L'impero d’Oriente si ritrovava a essere ridotto a meno della metà di come era prima, sia per estensione che per numero di abitanti. Inoltre l sanguinaria dittatura di Foca stava sgretolando ciò che restava dell'organizzazione creata da Costantino.
Risalire da quel disastro era un’impresa cui non bastava il semplice ingegno di un uomo: serviva un eroe.
Bisanzio ebbe la fortuna di trovarlo in Flavio Eraclio.
Eraclio era nato tra il 574 e il 575 in Cappadocia; il padre Eraclio senior era un armeno che, raggiunto il grado di magister militum in patria e in Anatolia, si stava ricoprendo di gloria militando nelle armate dell’imperatore Maurizio, all’epoca impegnato contro i persiani. Il suo impegno gli valse la nomina di esarca di Cartagine, dove si trasferì con tutta la famiglia a partire dal 602-603. Fu dunque nella città africana che il piccolo Eraclio crebbe assumendo tutte le caratteristiche promesse nel suo nome, il cui significato equivaleva a essere “sacro, dedicato a Eracle”.
Lo storico Fredegario, nella sua Cronaca di poco posteriore, lo dipinse «bello, alto, più coraggioso degli altri e un combattente»; a questa si sommò la descrizione di Leone Grammatico, che lo vedeva come «robusto, bello, di ampio torace, occhi blu, biondo, dalla carnagione chiara e spalle larghe». Magari Fredegario avrà esagerato affermando che il nostro era solito cimentarsi in combattimento con i leoni, ma di certo Eraclio appariva ambizioso e sicuro di sé, stemperando tali tratti con
una buona dose di riflessività: tutte doti che contribuirono a renderlo il protagonista assoluto della prima metà delò 600 d.c.
Il malcontento generato dal regno di Foca spinse Prisco, suo genero e prefetto di Costantinopoli, nonché generale deposto da Maurizio, a muovere verso Cartagine per proporre al vecchio Eraclio una congiura per disfarsi dell’imperatore. La situazione era talmente grave da indurre non solo l’esarca a partecipare, ma anche a coinvolgere il fratello Gregorio, con cui nel 608 dava fuoco alle polveri. Si stabilì di tagliare alla capitale i rifornimenti di grano che provenivano dall’Africa, quindi, arruolato un forte esercito e allestita una marina da guerra, si diede il via a un’aperta ribellione.
Il vecchio esarca sapeva di essere troppo in là con gli anni per condurre una guerra civile, e accettò di buon grado di affidare al figlio il timone della marina e al nipote Niceta, figlio del fratello Gregorio, il comando dell’esercito terrestre. Niceta nel 609 attaccò l’Egitto dove, contando sull’appoggio della potente famiglia degli Apioni, riuscì in breve a conquistare Alessandria; quindi, dopo aver battuto le truppe fedeli a Foca, continuò la sua avanzata fino a impadronirsi della Siria meridionale.
Il giovane Eraclio, intanto, faceva rotta su Tessalonica, occupando alcune isole lungo il percorso e reclutando uomini e navi. Nell’estate del 610, a capo di una potente marina si presentò a Costantinopoli ponendola sotto assedio. Nel frattempo aveva fatto dell’isola di Colonimo la propria base, dove attese il maturare degli eventi confidando nell’appoggio del popolo.
Il 3 ottobre del 610, la fazione dei Verdi – più che lieta di liberarsi del regime dell’imperatore in carica – appiccò una serie di incendi e prese ad assalire i soldati fedeli a colui che ormai veniva insultato a gran voce e chiamato “tiranno”. Mentre la flotta di Eraclio entrava trionfalmente nella capitale, in città la furia popolare si scatenò: Foca fu catturato e, trascinato per la barba fuori dal palazzo, fu condotto in catene su una nave insieme ai suoi fedelissimi. Due giorni dopo, il liberatore saliva sullo scafo per impartire al tiranno la punizione che questi si era meritato con le sue azioni.
Dopo aver ordinato ai propri soldati di giustiziare gli ultimi accoliti, Eraclio stesso brandì un’ascia e, prima di sferrare il colpo di grazia, chiese a Foca: «È così che tu hai governato l’impero?». L’altro lo fissò e dopo essersi inginocchiato, evidentemente non per implorare pietà, rispose con sovrano disprezzo: «E tu credi che lo governerai meglio?»
A Eraclio invece si spalancavano le porte del potere: il pomeriggio di quello stesso giorno, il nuovo patriarca Sergio I gli poneva la corona sul capo; immediatamente dopo, lo univa in matrimonio con Augusta Fabia, la giovane figlia di un proprietario terriero libico, tale Rogas, che per l’occasione assumeva il nome di Eudocia.
Raramente nella storia bizantina si vide una coppia tanto popolare: Eudocia venne idolatrata, per la sua grazia e la sua virtù, e ancor più benedetta quando dopo aver messo alla luce la figlia Epifania, il 3 maggio 612, partorì il primo maschio, Eraclio Costantino, procurando alla schietta un erede che in effetti salirà a suo tempo sul trono con il titolo di Costantino III. La gioia famigliare era destinata comunque a durare poco: il 14 agosto del 612 l’imperatrice moriva a causa di una delle crisi epilettiche di cui era cronicamente affetta.
Eraclio pensò di rimpiazzare la perdita con la nipote Martina. Martina divenne presto il bersaglio del malcontento popolare, vedendosi attribuire tutte le sventure che nel frattempo si stavano abbattendo sull’impero quale causa dell’ira divina scaturita da quelle nozze sacrileghe.
L’imperatrice se ne infischierà delle critiche, tanto da diventare alla morte del marito una vera e propria eminenza grigia, capace di catalizzare tutti gli intrighi di palazzo e di condizionare pesantemente le vicende dei regni di due dei suoi figli.
Del resto, che la situazione fosse drammatica se ne era reso conto anche Eraclio, nel momento stesso in cui aveva indossato la porpora.
Gli slavi e gli avari, complice l’esaurirsi della spinta propulsiva prodotta oltre il Danubio dal precedente imperatore Maurizio, avevano varcato in massa i confini balcanici, riversandosi in Macedonia, in Tracia, in Tessaglia e persino nel Peloponneso. Il tutto a fronte di un collasso generalizzato, in cui gli eserciti romani rischiavano uno sbandamento definitivo. Ma questo era nulla al cospetto di ciò che stava succedendo a est per opera degli atavici nemici dell’impero o meglio per colpa del sovrano Cosroe II, capace di avviare la più ambiziosa e la più pericolosa di tutte le offensive sasanidi.
Tutte le guerre precedenti, a partire dall’ascesa al potere della dinastia sasanide nel 224 a opera di Ardashir, erano scaturite dalla contesa per il controllo delle aree di frontiera tra i due imperi: l’Armenia; le terre del Caucaso e infine l’alta Mesopotamia, la regione compresa tra le rive del Tigri e dell’Eufrate, considerata giustamente strategica da entrambi i contendenti. Anche se, al di là dei roboanti proclami e delle rivendicazioni – famosa quella avanzata da Shapur ii nei confronti di Costantino II, che lo portò a occupare territori a ridosso della frontiera macedone in virtù di un presunto diritto acquisito attraverso un’antica quanto sconosciuta conquista – la maggior parte dei sovrani sasanidi entrava in guerra con obiettivi piuttosto moderati. I persiani infatti, pur essendo sospettosi nei confronti di romani e bizantini, riconoscevano in essi dei vicini civilizzati, contro i quali scatenare al massimo qualche guerra il cui fine non andava mai oltre una limitata espansione dei loro territori mesopotamici.
Con Cosroe II il confronto cambiò radicalmente. La sua ambizione dichiarata era infatti rimuovere e rimpiazzare l’imperatore Foca, che bollava come arrogante parvenu e usurpatore.
Dunque l’impresa iniziata dal nuovo sovrano persiano assumeva tutti i colori di una vendetta, che avrebbero dovuto annullarsi nel momento in cui Foca moriva per mano di Eraclio. Però che dietro il movente espresso, Cosroe celasse piuttosto uno smodato desiderio di conquista, che riuscì ad ammantare con la scusa del fervore religioso. Egli si sentiva investito della sacra missione di propagare l’antica
fede zoroastriana di Persia e Iran, il culto dualista di Ahura Mazda, dio della luce e della bontà, che una volta era stato il più temibile concorrente del cristianesimo nell’impero romano, quando i culti pagani cominciavano ormai a tramontare.
Lo zelo religioso gonfiò gli animi persiani consentendo loro di ottenere, a cavallo tra il 610 e il 611, una serie impressionante di vittorie. La penetrazione in Siria comportò la conquista di Apamea e Antiochia, cui seguì la presa del ricco centro commerciale di Edessa, le cui sole chiese fruttarono un bottino di 112.000 libbre d’argento. A questi successi si sommò l’occupazione di Cesarea, ottenuta in seguito all’apertura di un nuovo fronte di attacco in Cappadocia.
Appare scontato come l’attenzione di Eraclio dovette concentrarsi sulle regioni orientali, cuore dell’impero, la cui conservazione era una conditio sine qua non per la sopravvivenza stessa dello Stato romano-orientale. Dopo aver rimosso Prisco, il generale al quale si era affidato considerandolo il più valente, Eraclio puntò allora su Filippico, un’altra vecchia gloria che purtroppo non si rivelò all’altezza della situazione. Allora toccò allo stesso sovrano sobbarcarsi l’onere di contrastare l’inarrestabile avanzata persiana. Lo scontro avvenne dalle parti di Antiochia e, nonostante l’imperatore si fosse munito della venerabile benedizione di san Teodoro di Sykeon, fu costretto a subire la stessa sorte patita in precedenza dai suoi generali.
La sconfitta lo costrinse a ritirarsi nella capitale, mentre Cosroe poteva dirigere l’offensiva su due direttrici, una verso il cuore dell’impero, l’altra verso Siria, Palestina ed Egitto. Quando Tarso e la Cilicia caddero, Eraclio tentò di agire diplomaticamente inviando una lettera personale a Shahin, il comandante persiano sul posto che, insieme al suo omologo Shahrbaraz, lo aveva fatto penare oltremodo. Il tenore della missiva, riportato dalla Cronaca armena attribuita a Sebeos, testimonia il grado di disperazione raggiunto al momento dall’imperatore. Egli infatti dichiarava la sua totale disponibilità ad accettare tutto ciò che Cosroe avesse deciso aggiungendo: «Se poi dirà: “io porrò su di voi un re”, prenda chi vuole e noi accetteremo».
Nonostante (o proprio in virtù) di tale manifesta ammissione di inferiorità i suoi ambasciatori vennero respinti: Cosroe cercava la vittoria finale e ormai era convinto di averla a portata di mano.
A riconferma di ciò, dopo tre settimane d’assedio nel 614 cadde Gerusalemme. L’evento fu di una gravità tale da superare lo stesso aspetto particolare: la città venne rasa al suolo, gli abitanti, in un numero compreso tra 57.000 e 66.500 persone, vennero massacrati; altri 35.000 vennero schiavizzati, incluso il patriarca Zaccaria. Molti templi della città, incluso il Santo Sepolcro e le chiese di
Costantino ed Elena, vennero distrutte dalle fiamme mentre varie reliquie comprendenti la Vera croce, la Sacra lancia, e la Sacra spugna, vennero portate a Ctesifonte, la capitale della Persia.
Soprattutto la perdita di questi manufatti venne interpretata dai bizantini come un chiaro segno di sfavore divino nei loro confronti. In un clima di isteria collettiva determinato dalla notizia del nemico che, dilagato in Siria e in Palestina, devastava ovunque città, villaggi e monasteri, senza dimenticare di massacrare tutti i cristiani, cominciò a circolare la voce che la causa della perdita della Siria e di tutte le sventure che si stavano abbattendo sull’impero fossero gli ebrei, i quali, insofferenti delle condizioni loro imposte dai bizantini, avrebbero propiziato la caduta di Gerusalemme in combutta con il conquistatore persiano.
Evidentemente le dicerie non tenevano conto di quanto i giudei avessero patito il zoroastrismo dei Sasanidi, che già al tempo di Ormisda I, predecessore di Cosroe , aveva comportato l’espulsione di una nutrita schiera di loro correligionari, come testimoniò un’epistola vergata tre secoli dopo i fatti dal capo della scuola talmudica di Pumbedita, il rabbino Sherira. A meno che non fossero male informati, è improbabile che gli ebrei di Gerusalemme si siano esposti a rischi per aiutare Cosroe a sostituire l’intolleranza bizantina con la sua.
Ma in tempo di sconfitta e demoralizzazione tutto ciò che può servire come capro espiatorio è non solo bene accetto ma addirittura auspicato. La tesi della colpa ebraica fu allora volontariamente abbellita, o piuttosto imbruttita da personaggi quali Antioco Strategos, un monaco del monastero di Mar Saba che, autoproclamandosi testimone oculare, si permise di stilare nel suo testo perle di siffatto splendore: «I perfidi ebrei, nemici della fede e odiatori di Cristo […] si lasciarono andare a un eccesso di gioia [alla caduta della città] perché detestavano i cristiani […]. Agli occhi dei persiani la loro importanza era grande, perché costoro erano i traditori dei cristiani […] Come già anticamente il Signore fu venduto dagli ebrei in cambio d’argento, così adesso essi andavano a comprare i cristiani dalla grande cisterna [dove erano stati imprigionati]; […] davano argento ai persiani, compravano un cristiano e lo scannavano come una pecora. I cristiani però erano lieti, perché venivano uccisi per amore di Cristo […]. Quando la gente venne portata in Persia e gli ebrei lasciati a Gerusalemme, cominciarono con le loro mani a demolire e bruciare tutto quello che delle sante chiese era stato lasciato in piedi […]».
La situazione intanto peggiorava sempre di più. Mentre a est l’impero veniva spezzato in due tronconi, con Costantinopoli e l’Anatolia bizantina da una parte e la Siria, la Palestina, l’Egitto, e l’Esarcato di Cartagine da un’altra, un’ulteriore problema
era destinato ad abbattersi sull'impero. Stavolta toccava all’Occidente e in particolare all’Italia.
I domini bizantini raccolti nell’area centrosettentrionale intorno a Ravenna avevano potuto beneficiare di una lunga tregua con il confinante, e spesso aggressivo, regno dei longobardi, stipulando trattati di pace che rimasero in vigore almeno fino al 616. Tuttavia il pericolo non venne dai barbari, bensì dall’interno. Nel 615 infatti, l’esarca Giovanni Lemigio venne assassinato insieme ai funzionari del suo seguito nel corso di una sommossa militare a Ravenna. La rivolta era probabilmente stata causata dal cronico ritardo della paga, fattore che più di una volta aveva creato enormi problemi nel controllo delle milizie impiegate dagli esarchi per proteggere le città italiche. Come se non bastasse, in quello stesso periodo un certo Giovanni di Conza si era impadronito con un colpo di mano della città di Napoli, di cui si era fatto signore e da dove aveva iniziato a effettuare fastidiose incursioni nelle regioni bizantine di Puglia e Calabria.
Eraclio non rinunciò tuttavia a una strategia di tipo globale, persuadendosi a nominare un nuovo esarca per l’Italia nella persona di Eleuterio, al quale affidò il compito di risolvere la questione. Costui era destinato a distinguersi dalla grigia schiera dei tanti ufficiali che sino a quel momento si erano avvicendati sullo scranno di Ravenna, riuscendo addirittura a regnare di fatto, per un certo periodo, come collega di Eraclio nella parte occidentale dell’impero, dopo la deposizione di Romolo Augusto nel 476.
Per la verità si spinse a fare parecchio di più, delineando una parabola che vale la pena ricordare. Sulle sue origini sappiamo poco o niente, tranne che sotto Foca giunse a ricoprire la carica di cubicularius, ottenendo dunque l’altissimo onore di dormire accanto all’imperatore e di vegliarne il riposo notturno.
Tale traguardo di tutto rispetto era stato conseguito a prezzo di un’umiliante mutilazione fisica, la castrazione. Come molte altre corti dell’antichità e del Medioevo, anche quella bizantina apprezzava l’utilizzo di eunuchi, assai adatti al compito di vivere a stretto contatto con i membri della famiglia imperiale, senza per questo essere fonte di preoccupazioni: secondo la concezione politica bizantina infatti, un sovrano doveva essere integro nel fisico e nello spirito, e la menomazione degli eunuchi non consentiva loro di aspirare al trono.
Ciò non impediva, a ogni modo, che essi potessero raggiungere altissime posizioni nella gerarchia civile, religiosa e più tardi, da Narsete in poi
anche militare, e di godere dell’alta fiducia dei sovrani, i più deboli e influenzabili dei quali si affidavano spesso alla loro guida.
Le sue doti furono apprezzate da Eraclio, che nel 616 lo nominò esarca per l’Italia: avendo già dimostrato una certa dimestichezza nella gestione delle finanze, Eleuterio appariva agli occhi dell’imperatore adattissimo a domare una rivolta scoppiata, in fin dei conti, per un motivo squisitamente economico. Provvisto dunque del denaro sufficiente per pagare gli stipendi arretrati alle milizie ravennati e per compiere ulteriori arruolamenti, l’eunuco lasciò Bisanzio tra marzo e aprile dello stesso anno, raggiungendo dopo la navigazione di prammatica il porto di Classe. Non ci mise molto a debellare il governo provvisorio istituito dai ribelli e a giustiziare tutti coloro che avevano partecipato alla sedizione. Di certo i soldati che aveva con sé avevano fatto la loro parte, ma non è da escludere che il nuovo esarca avesse fatto spargere la voce che recava con sé le paghe così a lungo attese. Ciò provocò, con tutta probabilità, un indebolimento nella compagine dei rivoltosi, togliendo loro l’indispensabile coesione.
Sebbene si cominciasse ad acclamare il nome di Eraclio, ciò che i soldati romani d’Oriente avevano davanti agli occhi in quel momento era la figura di Eleuterio, il primo esarca che dopo troppo tempo sapeva dosare severità e giustizia. Questi intanto, dopo la prima prova di forza, si accinse a muovere contro il duca ribelle di Napoli, Giovanni da Conza. A confortarlo era il fatto che i longobardi, invece di approfittare delle beghe interne all’impero, se ne stavano tranquilli, rispettando la tregua precedentemente stipulata. C’erano dunque tutti i presupposti per condurre una campagna militare rapida e relativamente priva di sorprese, il cui ostacolo maggiore era costituito al massimo dall’abilità militare che Giovanni di Conza aveva già dimostrato in precedenza.
Così, al principio dell’estate del 616 Eleuterio si pose alla testa di un’imponente armata diretta a Napoli.
Marciando attraverso la Pentapoli, l’armata imboccò poi l’angusto “corridoio” umbro che permetteva i collegamenti terrestri fra i domini bizantini in Romagna e il ducato di Roma, tappa obbligata per un esercito che batteva bandiera imperiale. L’armata era appena in vista delle mura aureliane quando una legazione capeggiata da papa Adeodato uscì e accolse con deferenza il nuovo rappresentante dell’imperatore introducendolo in città.
Ci si sarebbe potuto aspettare che agli occhi di Eleuterio, avvezzo agli splendori di Costantinopoli, Roma sarebbe potuta sembrare, a paragone, una città avviata alla decadenza. Eppure non fu così. L’esarca rimase affascinato dall’Urbe percependone, in un certo senso, la passata ma ancora evidente grandezza. Fu probabilmente in quel frangente che iniziarono a frullargli per la testa pericolose idee. Comunque al momento non c’era tempo per complesse elucubrazioni: Giovanni di Conza, informato dell’avvicinamento dell’armata esarcale, si era asserragliato in città preparandosi a sostenere l’assedio.
Eleuterio, ringraziato clero e Senato per l’accoglienza, si rimise in marcia e percorsa a ritmo sostenuto la via Appia, giunse in vista di Napoli nel 617. L’esarca dimostrò di essere un valido stratega e investendo con le sue truppe ogni lato delle mura riuscì a espugnarne le solide difese, nonostante l’accanita resistenza opposta dai partigiani di Giovanni. Impacchettare questi, condannarlo a morte e sostituirlo con un nuovo duca fedele a Eraclio fu un tutt’uno, al che Eleuterio poteva riprendere la via di Roma e da lì fare ritorno a Ravenna. Sebbene la notizia di tali successi debba essere stata accolta da Eraclio come un tenue raggio di sole in mezzo all’uragano, la flebile speranza era destinata a spegnersi con la stessa rapidità con cui era sorta. Eleuterio infatti si rivelò un uomo ambizioso, non privo di un certo fiuto per la politica: la sua attenzione dunque fu attirata dal confinante regno dei longobardi, la cui prolungata quies non poteva che celare un’intrinseca debolezza.
Così, radunata nuovamente l’armata, in quello stesso anno l’esarca diede il via a una grande campagna contro i territori dell’Italia centro-settentrionale in mano ai longobardi. Eleuterio aveva però sottovalutato la capacità di reazione dei barbari: l’allora reggente Teodolinda, allarmata dall’invasione
a vasto raggio attuata dall’esarca, aveva affidato il comando delle truppe al duca Sundrarit, un guerriero formatosi alla “scuola” di Agilulfo, e assai abile sul campo. Ben presto la campagna bizantina del 617 – iniziata sotto i migliori auspici che avevano visto l’armata romano-orientale assestare duri colpi al nemico nel cuore dei suoi stessi domini – si trasformò in una demoralizzante rotta, almeno secondo l’anonimo continuatore del Chronicon di Prospero Aquitano.
Per la verità, sebbene Eleuterio fosse stato sconfitto, era tutt’altro che prostrato come dimostrò il fatto che i longobardi, incapaci di imporre condizioni di pace pesanti, si accontentarono del ripristino del vecchio tributo annuo, tutto sommato tollerabile. L’invasione bizantina aveva inflitto al regno longobardo più danni di quanto le fonti latine non ammettano, per di più in una fase delicata come quella della reggenza di Teodolinda. I romani d’Oriente ebbero modo di ritirarsi nel territorio dell’esarcato senza perdite eccessive e, ciò che più conta, l’impero non aveva perduto un solo palmo di territorio in Italia.
Conclusa con un nulla di fatto la guerra contro i longobardi, Eleuterio si volse a osservare quanto l’imperatore stava conducendo in Oriente e non fu certo soddisfatto. Il 618 fu infatti l’annus horribilis per il basileus. Cosroe aveva respinto l’ennesima profferta di pace e, al contrario, si era concentrato in un attacco poderoso contro l’Egitto dove, nonostante l’eroica resistenza prodotta da Niceta, l’anno successivo cadde Alessandria, cui seguì l’occupazione di tutta la regione. La perdita del tradizionale granaio dell’impero comportò un danno incalcolabile per l’economia imperiale, marcando uno dei fattori che, giocoforza, porterà all’abbandono dei vecchi sistemi di sussistenza e alla creazione di un nuovo apparato in base al quale, come vedremo, l’impero abbandonerà definitivamente la pelle romana per assumere compiutamente quella bizantina.
Al dramma allora in atto si aggiunse il nuovo ruolo interpretato dal popolo degli avari, che proprio in quell’anno invadevano la Tracia riuscendo a conquistare Tessalonica. Di fronte all’impossibilità di sostenere l’assalto su due fronti Eraclio si arrischiò a chiedere un colloquio con questi ultimi nei pressi di Heracleia, poco fuori Costantinopoli, sperando almeno su quel versante di risolvere la questione attraverso un congruo pagamento. Dietro la presunta buona predisposizione degli avari si celava però un’imboscata alla quale Eraclio scampò per il rotto della cuffia, e solo affidandosi alla velocità del proprio destriero.
Intanto i persiani continuavano a procedere come dei tritasassi, e dopo aver occupato Calcedonia si portarono così vicini a Bisanzio che i suoi atterriti abitanti
potevano scorgere i fuochi dei loro accampamenti. La situazione era così disperata da indurre Eraclio ad abbandonare la capitale al suo destino, preferendo giocarsi le sue ultime carte nel rifugio stimato più sicuro di Cartagine; al che dovette intervenire il patriarca Sergio, che secondo Gibbon non solo lo bloccò quando già aveva il piede sulla staffa, ma lo trascinò nella chiesa di Santa Sofia dove lo esortò a giurare che avrebbe dato la vita pur di sconfiggere i persiani.
Questo dunque il desolante quadro che, visto dalla prospettiva italica, poteva significare solo una cosa: Eraclio aveva le ore contate e quand’anche fosse sopravvissuto allo scontro persiano, il suo potere ne sarebbe stato fortemente ridimensionato.
A quel punto per Eleuterio fu quasi naturale cavalcare le tendenze autonomiste espresse dai popoli italici, che reclamavano la fine della tutela dei “cugini” orientali, agognando la rinascita di un impero occidentale, magari limitato alla sola penisola, purché in grado di condurre una propria politica. Dalla deposizione di Romolo Augusto la classe dirigente romana auspicava il ritorno di un proprio imperator, provandoci prima inutilmente con Belisario, quindi con Germano il giovane, imparentato con Giustiniano e con la dinastia di Teodorico.
Stavolta toccava a Eleuterio, di cui più che altro stupì il coraggio con il quale addirittura osò proporre la candidatura: proprio lui che in quanto eunuco mai e poi mai avrebbe potuto aspirare al soglio imperiale. Tralasciando le diavolerie alle quali avrebbe dovuto ricorrere qualora si fosse trovato nella condizione di trasmettere la propria discendenza, Eleuterio si preparò il terreno distribuendo donativi alle truppe ravennati e prendendo contatti con la corte di Pavia, dalla quale ottenne la garanzia di una sostanziale neutralità longobarda davanti dell’impresa che si accingeva a compiere. E non fu affatto un risultato trascurabile, considerato che i longobardi, di fronte alla prospettiva della restaurazione di un impero nella terra che reclamavano come propria, avevano tutto da perdere.
E infatti la corte pavesina si spaccò in due fazioni: da una parte Teodolinda e i suoi consiglieri romani, che giudicavano Eleuterio un esarca debole e influenzabile, a cui un giorno avrebbero potuto sottrarre il ricostituito impero; dall’altra la cricca dei nobili guerrieri legata dalla memoria del defunto Agilulfo, che vedeva nell’impresa di Eleuterio un serio pericolo. Costoro si erano resi conto di come, nonostante la propaganda regia, la vittoria di Sundrarit fosse stata di misura e di come fino ad allora Eleuterio fosse stato sempre pronto ad aggredire più che a difendersi: non ci si poteva
dunque fidare di quel romano e dei suoi intenti politici.
I mesi invernali trascorsero senza sorprese: la corte di Pavia, pur mostrandosi conciliante, assunse una posizione attendista e Teodolinda ordinò a Sundrarit di aspettare, per vedere se il neonato governo imperiale avrebbe retto alla prova del tempo. Per allargare la propria base di consenso, Ismailius prese contatti con gli ultimi rappresentanti del Senato di Roma, che già aveva avuto modo di conoscere nei suoi precedenti soggiorni nell’Urbe: più che a un’incoronazione per mano del nuovo papa Bonifacio v – peraltro non ancora insediato con tutti i crismi – Eleuterio puntava a legittimare il proprio potere con la tradizionale ratifica da parte dei decrepiti senatori. Quindi, su consiglio dell’arcivescovo ravennate Giovanni IV, al principio del 620 Eleuterio prese la decisione di muovere per Roma dove il prelato lo dirottava, scaricando la patata bollente su Bonifacio V. L’arcivescovo ravennate riteneva infatti che la diarchia imperiale appena instauratasi, operante de facto ma non altresì de iure, fosse troppo instabile per farvi affidamento o per esporsi: non voleva offendere l’imperatore d’Occidente (fisicamente presente davanti ai suoi occhi) con un netto rifiuto, ma non voleva neanche attirarsi il risentimento di Eraclio per aver dato appoggio a un ribelle. Così incoraggiò Eleuterio a cercare in Roma una duplice ratifica, da parte del papa e da parte del Senato.
Eleuterio approvò entusiasticamente l’idea, che del resto accarezzava da tempo, e iniziò a pianificare la propria trionfale marcia su Roma che concretizzò nella tarda estate del 620. Purtroppo per lui, nonostante l’abilità sino ad allora dimostrata, non era riuscito a impedire il sorgere di un nutrito stuolo di nemici, sia tra gli uomini ancora fedeli a Eraclio – soprattutto soldati esclusi dai grandi donativi,
perennemente di stanza in inospitali fortezze di confine – sia fra i longobardi, che non approvavano la politica conciliante della regina Teodolinda. Era dunque inevitabile che prima o dopo i lealisti bizantini e la fronda longobarda venissero a un accordo e decidessero di passare all’azione.
La voce di un’imminente rivolta iniziò a spargersi fra i soldati romani che scortavano l’imperatore e, nel corso dei successivi giorni di marcia, si assistette a un sempre più ampio fenomeno di diserzione, che alla fine ridusse a una piccola compagnia la colonna imperiale, nel frattempo giunta in Umbria. Eleuterio, pur visibilmente preoccupato, diede comunque l’ordine di proseguire: da Roma infatti continuavano a giungere messaggi di congratulazioni che facevano sperare in una felice conclusione dell’impresa.
L’amara realtà infranse i sogni di gloria di Ismailius all’altezza di Castrum Luceoli, fortezza posta tra Gubbio e Cagli, fra le strette gole dell’Appennino umbro: l’armata pseudo-imperiale, o meglio ciò che ne restava, si vide sbarrare il passo dalla guarnigione del castrum che, inneggiando a Eraclio, era corsa in armi a impedire il passaggio di Eleuterio e dei suoi fedelissimi. Peggio ancora, i soldati erano intenzionati ad assalire l’usurpatore e le sue scarse truppe, dimostrando come l’accordo tra longobardi e lealisti fosse andato a buon fine.
Eleuterio, che avrebbe preferito di gran lunga evitare lo scontro, si rese conto di non avere scelta se non ingaggiare una battaglia il cui destino era già segnato. Fu sconfitto e ancor più repentinamente passato a fil di spada, dopo di che il suo capo troncato di netto si involava chiuso in un sacco alla volta di Costantinopoli, affinché Eraclio potesse contemplare la disgraziata fine dell’usurpatore. L’Occidente dovrà attendere ancora la famosa notte di natale dell’800 per poter di nuovo vedere ergersi un imperatore; quanto all’Oriente, incarnato nella malconcia figura di Eraclio, la conclusione positiva di una parentesi drammatica rappresentò il timido segnale di una riscossa sino a quel momento impensabile.
A partire dal 620, la fortuna sembrò finalmente girare a favore dell’imperatore. Gli avari accettavano il pagamento di un tributo in cambio di una tregua; quanto ai persiani, non si comprende bene se appagati dall’aver ridotto a brandelli l’impero o incapaci di sferrare il colpo di grazia
a Costantinopoli, si accontentarono del versamento di un riscatto annuale che ammontava a un migliaio di talenti d’oro, un migliaio di talenti d’argento, un migliaio di abiti di seta, un migliaio di cavalli e un migliaio di vergini. Quell’attimo di respiro fu sufficiente a Eraclio per riorganizzarsi e applicare tutte quelle disposizioni sulla base delle quali egli potrà finalmente essere considerato non solo come uno dei più grandi imperatori bizantini, ma addirittura l’archetipo del sovrano cristiano in lotta contro gli infedeli.
Fino a quel momento l’imperatore non è che avesse fatto un gran figura, risultando, al vaglio degli storici, che si meravigliarono della sua manifesta incapacità di contrastare gli eventi nei suoi primi dodici anni di regno, quanto meno passivo.
D’accordo con le fonti armene che, invece, furono attente a cogliere gli incessanti tentativi di riscossa possiamo asserire che Eraclio lavorava sottotraccia al fine di scovare risorse ed energie che gli avrebbero permesso di far fronte a quel compito che appariva immane.
Per attuare i suoi progetti egli dimostrò innanzitutto una lucida visione strategica. Individuò infatti in Asia Minore e soprattutto in Anatolia il cuore su cui ricostruire le dinamiche di potere e le capacità militari dello Stato. Il tutto a discapito
dell’Occidente, dove fatta salva l’Italia si apprestò a effettuare dolorosi ma necessari tagli territoriali, in cui la vittima illustre risultò essere la Spagna, la provincia, cioè, che nello scenario internazionale in procinto di delinearsi, contrassegnato dalla rottura dell’unità della parte orientale del mar Mediterraneo, risultava troppo periferica e strategicamente ininfluente.
Il secondo passaggio obbligato fu instaurare una politica di austerità, obbligata dalle condizioni comatose delle casse dello Stato, pressoché prosciugate dai salassi tributari ai quali era stato costretto per via dell’inefficienza bellica, e soprattutto in virtù della perdita di quella cassaforte a cielo aperto che per secoli era stata l’Egitto. Proprio per far fronte a quella mancanza, nel 620 Eraclio abrogò le distribuzioni gratuite di viveri e derrate alimentari nella capitale, cassando definitivamente un tratto distintivo del mondo tardo-romano e proto-bizantino, quello cioè dell’assistenza minima verso le classi urbane indigenti.
Il passo successivo fu riformare l’amministrazione statale, sia con lo scopo di alleggerirla e ammodernarla, sia per seguire una tendenza che porterà definitivamente a slegare l’impero dalle formule del passato. Sparirono le pletoriche prefetture del pretorio, sostituite da organismi più agili e funzionali, mentre si assistette alla nascita di nuove cariche, tra cui quella del domestikos, con competenze squisitamente finanziarie fu forse la più rappresentativa.
Si è molto discusso in merito alla riorganizzazione dell’impero in themata, le unità amministrative territoriali in cui l’elemento militare e civile si fondevano a vantaggio del primo, garantendo così, oltre a una più fluida gestione, soprattutto una difesa immediata affidata a truppe scelte e guarnigioni locali, cui in cambio venivano concesse le terre poste sotto la loro tutela, un po’ come avverrà in Occidente con il feudalesimo.
In pratica, l’organizzazione tematica sarebbe il frutto di un lento processo che non sarebbe scaturito dall’iniziativa di un solo
Ciò che sicuramente è da ascrivere a Eraclio fu la capacità di riuscire a ricompattare lo stremato spirito bizantino intorno alla bandiera della fede. Tutta la campagna che di lì a
breve scatenerà ai danni dei persiani sarà imbevuta di elementi religiosi e verrà vissuta come uno scontro di civiltà, attraverso il quale i bizantini indosseranno le vesti dei campioni della cristianità decisi a sterminare gli zoroastriani infedeli.
Quella che Eraclio si accingerà a compiere sarà una guerra che, per quanto santa, avrà sostanzialmente lo scopo di fare sopravvivere l’impero. Ciò non toglie che la suggestione che l’imperatore seppe imprimere fu tale da suscitare il pieno appoggio della chiesa bizantina che, attraverso l’entusiasmo del patriarca Sergio, arrivò addirittura a spogliarsi di tutti i beni presenti nelle sue mura (crocifissi, candelabri, suppellettili e tesori vari) pur di rimpinguare le casse statali e permettere a Eraclio di ottenere i fondi necessari a sostenere economicamente la riscossa militare.
Ottenuto lo sponsor, mancava solamente una squadra, o meglio un esercito. In realtà, unità intatte o per lo meno frammenti di unità erano sopravvissute, tenute insieme dalla coesione di singoli veterani e nuove reclute; ma si trattava di forze disperse ai quattro angoli dell’impero, prostrate da una condizione di grave pigrizia, codardia, indisciplina e disordine. Eraclio, che in buona sostanza doveva ancora dimostrare di essere in grado di condurle alla vittoria, dovette innanzitutto motivarle, cosa che secondo Teofane fece egregiamente richiamandosi al loro sentimento religioso e pronunziando, spesso con un tono familiare e inconsueto per un imperatore, parole di questa risma: «Voi vedete, fratelli e figli miei, come i nemici di Dio abbiano calpestato la nostra terra, devastato le nostre città, bruciato i nostri santuari […] e […] come essi insozzino le nostre chiese per i loro piaceri», come fedelmente riportato nella Cronaca redatta un secolo e mezzo dopo. Quindi, facendo tesoro dei trattati militari che nel frattempo si era divorato, Eraclio dovette addestrarle con l'aiuto di Dio.
Ciò fu esattamente quel che si accingeva a fare quando il 4 aprile del 622, una data certamente non scelta a caso considerato che era il lunedì di Pasqua, giusto per ribadire il profumo di sacro incenso dell’impresa, l’imperatore lasciava la capitale alla volta di Pylae, un porto della Bitinia identificabile con la attuale Gemlik turca, dove si ricongiunse con truppe racimolate in Bitinia, Ellesponto e Frigia che dovevano oscillare tra le 30.000 e le 50.000 unità.
Qui si trattenne tutta l’estate ad addestrare l’esercito, impartendo lezioni che andavano dalle tecniche del combattimento individuale sino alle simulazioni di battaglia su larga scala: il realismo delle esercitazioni fu tale da scioccare a distanza di più di un secolo Teofane, la fonte che ce le ha tramandate.
Dopo aver spremuto i suoi uomini, nell’autunno di quello stesso anno Eraclio si mosse verso il cuore dell’Anatolia, seguendo la strada che portava a Cesarea di Cappadocia. A scandire le tappe di quella che sarebbe diventata la più incisiva e audace manovra dell’impero bizantino contribuiranno i versi dell’Expeditio Persica, il panegirico epico prodotto da Giorgio di Pisidia che, al di là della forma compiacente, contribuirà a fornire informazioni preziose in merito all’impresa. Attraverso quelle rime scopriamo così quanto l’azione intrapresa da Eraclio sorprese i nemici, che si aspettavano al contrario un attacco verso la Siria e Antiochia: l’imperatore dimostrava di aver fatto bene i compiti e, ricalcando una strategia già sperimentata da Maurizio e da Marco Aurelio prima di lui, penetrò nella zona montagnosa del Sud del Caucaso, nella regione che all’epoca era conosciuta come Ponto. L’esercito sasanide del generale Shahrbarâz, che dall’inverno del 622 sorvegliava i passaggi orientali sull’Eufrate, si precipitò a sbarrargli la strada tra il fiume e Sebasteia.
Ciò indusse Eraclio a cambiare percorso dopo Amasea: anziché proseguire verso sud-est, continuò ad avanzare verso oriente in direzione del Ponto Polemoniaco, portandosi praticamente alle spalle dei persiani; a quel punto Shahrbarâz avrebbe preferito minacciare le linee di comunicazione romane in Cappadocia, ma l’avanzata dei bizantini verso est, sulla direttiva Satala-Teodosiopoli (odierna Erzurum) in direzione dell’Armenia, fu talmente veloce che i persiani dovettero porsi all’inseguimento dell’avversario. L’imperatore mantenne dunque l’iniziativa, e per Shahrbarâz fu difficile costringerlo alla battaglia. Finalmente, nel febbraio 623, i Sasanidi intercettarono i bizantini nell’entroterra montuoso della regione affacciata lungo la costa sud-orientale del mar Nero. I persiani erano riusciti infatti a conquistare i passi montani, così da sbarrare ai bizantini l’avanzata
verso oriente, rendendoli allo stesso tempo facili vittime di imboscate.
Eraclio decise di forzare la situazione giocando d’astuzia. Dapprima simulò un attacco frontale contro il nemico, inducendolo ad abbandonare le sue postazioni elevate; poi divise il proprio esercito in due contingenti: con il primo cercò di confondere i persiani, attirandoli su cammini poco battuti, mentre il secondo compiva una manovra di aggiramento, riuscendo a portarsi a est dell’esercito nemico.
Alla fine la situazione si era diametralmente ribaltata: i bizantini occupavano la posizione più favorevole, sul versante orientale e quindi in grado di avanzare, mentre il nemico era accecato dalla luce del mattino. Il luogo dello scontro non fu precisato, anche se a molte fonti piacque supporlo poco lontano da Isso, in quello stesso suolo in cui un millennio prima Alessandro aveva avuto la meglio su Dario III: giusto per confermare quanto quel conflitto fosse percepito come epocale. Dopo aver sventato un tentativo di attacco notturno, Eraclio si preparò a muovere battaglia col far del giorno. I suoi informatori gli avevano comunicato con esattezza i piani del generale persiano: costui aveva diviso il proprio esercito in tre parti e posto un reparto di soldati scelti in una piccola valle nascosta, con il compito di assalire a sorpresa e annientare le truppe bizantine al primo segno di cedimento. La contromossa di Eraclio fu ancora una volta astuta: iniziato lo scontro, mandò avanti un esiguo reparto che finse di lanciarsi all’attacco, salvo poi darsi a una falsa fuga, simulando il panico. I nemici balzarono allora fuori dal nascondiglio e li inseguirono finendo per impattare contro il grosso delle forze di Eraclio, che li attendeva poco distante. I sasanidi, travolti da quell’improvviso attacco, si diedero alla fuga e vennero massacrati. Shahrbarâz a stento riuscì a salvarsi, protetto da una fitta e provvidenziale cortina di fumo. La disfatta scosse così duramente i sasanidi da costringerli ad abbandonare il Ponto, lasciando l’Armenia aperta all’occupazione bizantina.
Era esattamente ciò che avrebbe fatto Eraclio, desideroso di continuare la campagna se notizie sconfortanti non l’avessero obbligato a tornare a Costantinopoli, dove veniva comunque accolto in trionfo dalla popolazione.
Gli avari, stracciata la pace stipulata con Bisanzio solo l’anno precedente, si allearono di nuovo con i persiani e iniziarono ad avanzare verso sud, invadendo la Tracia con un esercito di 80.000 soldati, comprendente diverse tribù slave come bulgari e gepidi, mentre masse di profughi, in fuga dalle città dell’Illirico, cercavano rifugio a Tessalonica.
Eraclio rivisse di nuovo l’incubo di ritrovarsi tra due fuochi e blandì inutilmente gli avari, aumentando loro il tributo annuale precedentemente
accordato. Di fronte al diniego di quei barbari, il basileus tentò di giocarsi la carta della diplomazia con Cosroe, il quale, secondo quanto riportato dal cronista armeno Sebeos, rispondeva nel marzo del 623 con una sprezzante lettera che esordiva così: «Al nostro servo imbelle e infame Eraclio […]». La missiva, oltre a lasciare intendere quanto poco margine di manovra ci fosse per una soluzione pacifica della crisi, sottintendeva il chiaro diritto di ingerenza nella vita interna bizantina che i re sasanidi rivendicavano dal tempo dell’assassinio di Maurizio, considerando tutti coloro che in seguito ne avevano preso il posto né più né meno che volgari usurpatori. Insomma, continuavano le frecciate propagandistiche per cui Cosroe si dichiarava imitatore dei fasti degli achemenidi, che avevano sottomesso l’intero Medio Oriente, e dunque emulo di Ciro e di Cambise, mentre Eraclio rispondeva proponendosi come nuovo Alessandro e nuovo Costantino.
Ciò gli venne concesso l’anno successivo, quando finalmente, nel marzo del 624, il khan avaro accettava riluttante un nuovo trattato, strappato a condizioni onerosissime tra cui la consegna di alcuni ostaggi.
Eraclio fremeva per tornare in battaglia. Le sue truppe, nonostante la vacatio imperiale, avevano rinforzato le loro posizioni armene, offrendo al sovrano una buona piattaforma da cui lanciarsi per continuare la otta.
Eraclio poteva tornare così in Oriente accompagnato da sua moglie Martina, allora incinta del futuro Eracleona. La scelta non fu casuale: con quella mossa l’imperatore dimostrava di voler spendere tutto se stesso nell’impresa, al punto da coinvolgere nello sforzo anche i suoi cari. Serviva anche questo, nella lotta psicologica che stava conducendo a distanza con Cosroe.
L’azione intrapresa il 25 marzo del 624, subito dopo la Pasqua, si affidava a una logica a dir poco audace:
Eraclio accettando il gravissimo rischio di lasciare Costantinopoli quasi senza difese, condusse il suo esercito in una sorta di incursione strategica che puntava attraverso l’Armenia diretta
mente al cuore del territorio sasanide, nella zona nord-occidentale del moderno Iran. Il coraggio dell’imperatore fu premiato dall’effetto sorpresa prodotto. I bizantini avanzarono senza particolari patemi, attraversarono la provincia di Ayrarat e raggiunsero la fortezza di Dvin che, per quanto ritenuta inespugnabile, fu assediata e conquistata nel maggio del 624. Quindi puntarono decisi verso la Persia, all’altezza delle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate.
Alla fine di quell’anno, discendendo l’alto corso del Tigri, Eraclio raggiunse e distrusse il grande tempio zoroastriano di Takht-I-Suleiman presso Ganzak, la capitale della Media Atropatene. L’imperatore vendicava così l’incendio di Gerusalemme del 614 e molto di più provocava uno sbocco di bile a Cosroe, al quale aveva incendiato il santuario di famiglia. Nel frattempo Shahrbarâz era stato richiamato dall’Anatolia, ma non era riuscito a raggiungere in tempo il teatro delle operazioni, e così le porte di Ctesifonte sembravano aperte. Ma Eraclio aveva come obiettivo la distruzione del potere persiano, e a questo fine la presa della capitale nemica sarebbe stata inutile: il vero fulcro del potere sasanide era l’altopiano iranico, e da là Cosroe, che difficilmente si sarebbe fatto imbottigliare nella sua capitale, poteva organizzare i suoi eserciti intatti, affidando a Shahrbarâz o al suo collega Shahin il contrattacco.
Comunque, ben deciso a rimanere vicino al cuore del nemico, Eraclio si ritirò sulle rive del mar Caspio, nell’Albania caucasica, dove svernò, approfittando della sosta per stringere alleanze con i locali. Nel frattempo Cosroe non dormiva certo sonni tranquilli, e indisse una leva militare per tutto il suo impero, che gli procurò numeri sufficienti a costruire tre eserciti, affidati rispettivamente a Shahrbarâz, Shahin e Shahrblaganaz, mandati immantinente a intercettare Eraclio. Shahrblaganaz recuperò territori fino a Siwnik, nell’Armenia sud-orientale, con l’obiettivo di impadronirsi dei passi di montagna; Shahrbarâz avrebbe bloccato la ritirata di Eraclio attraverso l’Iberia caucasica, mentre Shahin serrava il passo di Bitlis, al confine con l’Anatolia.
L’imperatore era ben deciso a mantenere l’iniziativa, e nella primavera del 625 attaccò gli eserciti avversari, con l’obiettivo di impedire alle forze persiane di riunirsi. Shahrblaganaz riuscì però a impedire ai bizantini di passare di nuovo nell’Azerbaigian, e anticipandoli si ricongiunse con Shahrbarâz. I due comandanti persiani commisero però l’errore di non attendere Shahin e nell’estate del 625 attaccarono Eraclio nelle vicinanze di Tigranocerta, in Armenia, a est del lago Shevan, adottando una tattica a tenaglia che prevedeva che le forze di Shahrbarâz stringessero da nord il nemico, chiudendosi con quelle di Shahrblaganaz provenienti da sud.
Eraclio eluse la manovra, fece finta di sganciarsi per poi tendere un’imboscata alle truppe che lo pressavano. Nello scontro che ne seguì Shahrbarâz fu messo in fuga mentre Shahrblaganaz fu ucciso e il suo esercito disperso. A questo punto non rimaneva che l’esercito di Shahin ma l’imperatore, proseguendo nella sua avanzata, questa volta verso ovest, ne disfece l’avanguardia che tentava di riunirsi agli altri due corpi persiani, e poi attaccò il campo dove stazionava ancora il corpo principale, costringendolo alla fuga.
Deciso a sfruttare questo strepitoso successo, Eraclio riprese il cammino verso l’Azerbaigian ma, abbandonato dagli alleati, e dovendo fronteggiare l’esercito che Shahrbarâz e Shahin avevano formato riunendo i superstiti dei corpi sconfitti a Tigranocerta, l’imperatore dovette di nuovo dirigersi verso nord, anche perché l’inverno si stava affacciando. Si tolse però la soddisfazione di sgominare con una sortita notturna il corpo di 6000 uomini scelti che il solito Shahrbarâz gli aveva lanciato contro, a nord-est del lago Van, tentando di sbarrargli la strada verso i quartieri invernali; in quell’occasione lo stesso generale persiano riuscì a sfuggire alla cattura.
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L’anno 625 si concludeva quindi con una serie di folgoranti vittorie bizantine. Fu un risultato straordinario per impegno e dimensioni. Eraclio interpretò in modo brillante quanto riportato nel De re strategica, il trattato militare del secolo in cui si consigliava fortemente, al comandante ridotto in gravi condizioni di inferiorità numerica, di condurre un’incessante ed estenuante guerra di movimento. Ciò fu possibile, oltre che per l’indiscussa grandezza dell’imperatore-generale, anche e soprattutto perché gran parte di quella campagna si svolse all’interno dell’Anatolia, vale a dire in territorio imperiale. A far sopravvivere l’esercito, non furono di sicuro le casse di Costantinopoli cronicamente in esaurimento, quanto la possibilità di raccogliere tasse sul posto, ricevere contribuiti dalle chiese e dai monasteri della regione e ovviamente effettuare prelievi forzosi sulla popolazione.
Aiutò inoltre, e non poco, la geografia del territorio, dove le montagne del Nord erano intervallate da frequenti valli ricche d’acqua, mentre nel Sud le rigogliose pianure della Cilicia e della Cappadocia costituirono una confortante riserva di cibo.
Fu anche in considerazione di tali fatti che nella primavera del 626, dopo la consueta pausa invernale, Cosroe decise di seguire la strategia opposta. Stanco di subire le iniziative del nemico, provò a ribaltare i piani e ad attaccare Eraclio proprio al cuore, vale a dire Bisanzio. Inviò dunque in Cilicia
il suo generale di spicco, Shahrbarâz. Non sappiamo con quanta convinzione egli penetrasse in territorio imperiale e, allungando pericolosamente il fronte e le linee di rifornimento, puntasse a settentrione, fino a giungere a Calcedonia, proprio in faccia a Costantinopoli.
Nel frattempo il re dei re metteva in moto anche la macchina diplomatica con cui strappava per l’ennesima volta gli avari agli impegni assunti con i bizantini, inducendoli a marciare contro la capitale imperiale. Una terza forza guidata da Shahin aveva il compito di supportare l’offensiva verso ovest. Il piano era ben congegnato e Cosroe sperava di dirottare Eraclio verso ponente, sottraendogli così il controllo dell’Armenia, pericoloso trampolino di lancio verso l’Iran. Ma l’imperatore non abboccò: aveva imparato a giocare a tutto campo e ciò gli permise di adottare le contromisure più adeguate.
Egli era abbastanza sicuro che Costantinopoli avrebbe resistito, in virtù delle sue fortificazioni e della flotta, e quindi ritenne di non dover cadere nella trappola che l’avrebbe portato a imbottigliarsi in Anatolia tra due eserciti nemici superiori in numero. Affidò quindi un’armata a suo fratello Teodoro, che si dispose verso la Mesopotamia con l’intento di disturbare le manovre di Shahin, mentre lui, con un piccolo nucleo di uomini, non si mosse dal Caucaso ma organizzò rapide incursioni e azioni di guerriglia nel territorio persiano e in quello dei suoi alleati caucasici.
Vide giusto. L’avanzata di Shahrbarâz fu tormentata dalle truppe bizantine che, al passaggio delle truppe nemiche, si rinchiudevano nelle città fortificate e si rischiaravano, per colpire con continue azioni di disturbo. Quanto a Shahin, subiva per mano di Teodoro un rovescio così disastroso da morire per l’umiliazione.
Comunque, il 29 giugno del 626 i persiani riuscirono a prendere possesso di Calcedonia e da lì potevano controllare la sponda meridionale del Bosforo. Quando dopo pochi giorni giunsero gli avari e i loro alleati, circa 80.000 uomini, era tutto pronto per fare la festa a Costantinopoli. Il Chronicon paschale registrò l’accrescimento delle capacità ossidionali degli avari, un tempo abili solo come arcieri-cavalieri, riportando come il loro khan «aborrito da Dio» si preoccupasse di «legare insieme i suoi lancia-pietre [per assicurare stabilità anche nel rilasciare colpi pesanti] ricoprendone l’esterno con delle pelli» quindi «predispose l’erezione sul posto di dodici alte torri che vennero fatte avanzare sino alle prime difese della città». Non solo dunque i nomadi conoscevano l’arte ossidionale, ma erano a tal punto padroni della tecnica da
essere in grado di adottare contromisure adeguate a impedire che le proprie macchine fossero danneggiate, come testimonia l’utilizzo delle pelli a protezione di eventuali lanci di frecce, oltre all’accortezza di legare insieme i trabucchi per assicurare stabilità durante il lancio di colpi pesanti.
Apparecchiati così lungo le mura numerosissime ordigni, gli assedianti sottoposero la città a un bombardamento continuo, alimentato da centinaia di catapulte. All’interno delle mura resistevano 12.000 cavalieri, mentre tutta la popolazione abile alle armi montava la guardia alla cinta fortificata.
L’intero mese di luglio trascorse proponendo lo stesso immutato copione: gli avari intenti a bersagliare le mura e a cercare di scalarle, i cittadini armati a proteggerle e la vergine Maria a tutelare la salute di Costantinopoli. I persiani rimanevano spettatori interessati intorno a Calcedonia mentre la flotta bizantina, fino ad allora inutile, rimaneva ancorata e munita nel porto della capitale. All’inizio di agosto i sasanidi pensarono di accelerare gli eventi, anche perché le notizie che giungevano dalla Mesopotamia non erano incoraggianti e richiedevano un’azione risolutiva nell’immediato. Iniziarono così una serie di trasbordi delle truppe persiane sull’altra sponda del Bosforo, affinché potessero partecipare direttamente all’assedio.
Qui entrò in scena la potenza marittima bizantina, che fece la sua figura. Il 7 agosto, la colonna di chiatte adibite al trasporto delle truppe persiane fu intercettata e distrutta, interrompendo così le comunicazioni tra assedianti e retrovie: stessa sorte toccò poco dopo alla nutrita flottiglia di imbarcazioni slave e avare, che fu annientata del tutto. Mai e poi mai le misere barche monoxyla, “a un albero”, generosamente concesse dal khan avaro per l’impresa, avrebbero potuto competere con le galee e le agili imbarcazioni dei bizantini, con i loro equipaggi addestrati e soprattutto con i loro arcieri. Tutte le catastrofiche sconfitte che avevano privato l’impero delle sue terre più ricche e di una buona parte del suo esercito non avevano intaccato una potenza navale che vantava ancora possedimenti costieri in Nord Africa, Sicilia, Italia, Creta, Cipro e nella stragrande maggioranza delle isole egee.
Tra gli avari si diffuse il panico e tra i persiani lo scoramento. Tre giorni dopo l’assedio fu tolto, mentre dalla città usciva una folla armata che incalzava i barbari in fuga e ne faceva strage. Fu una rotta disastrosa che rovinò per sempre il prestigio avaro tra le popolazioni transdanubiane, trascinate in quel disastro dalle loro promesse: era il 10
agosto e Maria Odighitria aveva salvato Costantinopoli, l’impero eD Eraclio. Inutile dire che, per parte sua, Shahrbarâz sgomberò Calcedonia e si ritirò nell’Anatolia orientale, dove lo attendeva la non confortante prospettiva di un’estenuante caccia delle truppe bizantine che nel frattempo impazzavano nella zona.
L’esito dell’assedio accelerò la crisi della potenza persiana. Il capovolgimento a cui si assistette trovava il suo fulcro non tanto nelle campagne intorno a Costantinopoli, quanto nella Mesopotamia settentrionale e soprattutto tra le montagne del Caucaso, là dove Eraclio e suo fratello picchiavano come martelli. La sconfitta di Shahin aveva aperto la via alla penetrazione nel cuore medesimo dell’impero persiano, mentre il nuovo incaricato di Cosroe per quell’area, il generale Rhahzadh, era ancora intento a riorganizzare le sue truppe. Eraclio e Teodoro non passarono immediatamente al contrattacco, ma pensarono a rinforzare le loro posizioni in Mesopotamia mentre i Sasanidi procedevano allo sgombero dell’Asia Minore. In questa maniera passò l’ultima parte del 626 e la primavera dell’anno seguente.
Nell’autunno del 627 la guerra di movimento condotta da Eraclio mutò drasticamente. Ancora una volta l’imperatore avanzò verso oriente, nel Caucaso, dove ci si attendeva si ritirasse con l’approssimarsi dell’inverno: stavolta però Eraclio continuò senza pause, compiendo quella manovra che gli permise di assestare il colpo mortale. Fino ad allora era stato costretto a interrompere le manovre all’avvicinarsi dei primi freddi: i suoi cavalli, al pari di quelli dei suoi nemici, avevano bisogno di biada che, dopo ottobre, iniziava a scarseggiare; i pascoli verdi si rarefacevano costringendo tutti all’acquartieramento nei ricoveri invernali, dove erano state predisposte le riserve di foraggio. Senza contare che indurre le truppe a una campagna invernale era un’impresa titanica: Maurizio ci aveva provato, incitando i suoi a guerreggiare con la brutta stagione contro avari e slavi, ricevendone in risposta l’ammutinamento e la morte che aveva aperto la strada alla sanguinaria stagione di Foca, uno dei centurioni rivoltosi.
Certo, alcuni comandanti in epoca romana ci erano riusciti, ma erano rari esempi di ferrea disciplina, duri maestri quasi ineguagliabili; a loro Eraclio si ispirò compiendo quell’impossibile sortita invernale, realizzata grazie all’alleanza che riuscì a stipulare con i Kazari, strabiliante popolo delle steppe, eredi dell’impero turco che si estendeva dalla Cina al mar Nero. Il loro khan, Thong Yabghu, mal tollerava le ingerenze sasanidi in Asia centrale, senza contare che la sua stirpe turca da sempre odiava gli avari, un tempo loro signori, prima di intraprendere quella via verso occidente che ne aveva ribaltato la sorte.
Con tali premesse il khan concedeva a Eraclio 40.000 uomini coraggiosi, secondo la testimonianza di Teofane, attento relatore dei fatti nella sua Cronaca, ma soprattutto offriva i loro cavalli, i meravigliosi pony mongoli capaci di muoversi su qualsiasi tipo di terreno, anche su quello ricoperto di un sottile strato di neve ghiacciato o battuto dal vento impietoso, come le colline delle campagne del Nord-Ovest dell’Iran, verso cui l’imperatore si stava dirigendo. Quel contributo si rivelerà determinante, a riprova di come anche la più audace delle offensive militari bizantine non fu solo un cammino d’arme: essa fu resa possibile grazie agli sforzi energici spiegati per assicurarsi alleati preziosi e dividere i nemici con ogni mezzo; senza questi espedienti Eraclio, grandissimo generale sul campo, difficilmente avrebbe vinto la guerra. Ora invece quella formidabile moltitudine di arcieri a cavallo si era aggiunta alla sua armata: l’imperatore poteva così contare su una maggiore libertà di manovra, che gli consentì non solo di compiere un’incursione, ma di sferrare un’offensiva su larga scala e in profondità.
Così, nel settembre del 627 usciva da Tbilisi conquistata poco prima e, con un ampio movimento avvolgente che faceva perno sul lago Urmia, oggi a nord-ovest dell’Iran, puntava decisamente verso sud, cogliendo i persiani in contropiede. Shahrbarâz tentennò, in netto disaccordo con Cosroe (si narra di una lettera del sovrano persiano in cui si ordinava l’esecuzione del generale dopo il fallimento dell’attacco a Costantinopoli, intercettata dai bizantini e consegnata al generale stesso) e così l’unica forza su cui il sovrano sasanide poteva contare era quella del generale Rhahzadh, che ammontava all’incirca a 30.000-40.000 uomini, nettamente inferiore alle forze di Eraclio che, grazie ai suoi alleati raggiungeva, pare, le 70.000 unità.
Rhahzadh fu colto di sorpresa dalla mossa di Eraclio e dovette mettersi al suo inseguimento, incontrando difficoltà sempre crescenti per rifornire il suo esercito, a causa delle requisizioni bizantine di approvvigionamenti effettuate durante l’avanzata verso l’Assiria. Eraclio nel frattempo stava compiendo una serie di devastazioni e tra il 9 e il 15 ottobre si fermò nella terra di Chamaetha, dove fece riposare le sue truppe. Il 1° dicembre 627 raggiunse il fiume Grande Zab, lo attraversò e si attestò presso Ninive, l’antica capitale assira posta sul fiume Tigri, oggi la tristemente nota cittadina irachena di Mossul. Lì il 12 dicembre lo raggiunse Rhahzadh, con un esercito stremato dal lungo inseguimento. Eraclio lo attaccò senza concedergli tregua, impedendo l’arrivo di ulteriori rinforzi.
Niceforo, nel suo Breviarum, tracciò un resoconto fin troppo altisonante della battaglia, che a suo dire si sarebbe risolta grazie alla maestria dell’imperatore Ben più sobria la Cronaca di Sebeos, che offrì uno squarcio sulla battaglia sufficientemente ampio da permettere di apprezzare lo stile tattico di Eraclio senza iperboli. L’imperatore attirò con una finta ritirata i persiani nella piana di Ninive, sfruttando la nebbia che mortificò il lancio dei giavellotti sasanidi. Poi, approfittando di quella copertura naturale, Eraclio effettuò un rapido capovolgimento, travolgendo i nemici. Dopo otto ore di combattimento i persiani, in rotta sulle colline vicine, lasciarono sul campo 6000 caduti.
La vittoria di Ninive comportò il raggiungimento di un traguardo ragguardevole: le truppe di Eraclio erano riuscite a penetrate in profondità nelle retrovie dell’immenso territorio conquistato dagli eserciti di Cosroe ed erano riuscite a colpire i centri vitali della potenza sasanide in quello che oggi è l’Iran centrale. Facendo ciò Eraclio aveva messo a nudo il vulnus strategico in cui Cosroe si dibatteva, vale a dire l’impossibilità per le sue forze, sparse su un’area enorme che andava dal remoto Egitto alla Siria e poi alla lontana Anatolia, di poter rientrare in tempo sufficiente a fermare Eraclio prima che creasse danni ancora maggiori.
Al contrario l’imperatore bizantino, con quel successo, si garantiva una soddisfacente risoluzione ai suoi problemi logistici. Una volta entrato in città infatti, poté prendere possesso di uno dei palazzi che Cosroe aveva avuto l’avvedutezza di distribuire nel suo immenso impero, quali simulacri del suo potere eretti per incutere una reverente soggezione sui dintorni. All’interno di esso, costruito con la solita magnificenza persiana, Eraclio scoprì tesori nascosti e soprattutto grandi giardini paradisiaci, ricolmi di ogni specie zoologica che, tradotta in termini alimentari costituì una vera e propria manna con la quale sfamare le truppe: le fonti parlano di 300 struzzi, 500 gazzelle e 100 asini, tutti alimentati a grano, oltre a un imprecisato numero di pecore, maiali e buoi che ricolmarono le tavole dei soldati affamati.
Saziati gli stomaci e annientato l’unico esercito persiano presente nella zona, la via per Ctesifonte era praticamente spalancata. Eraclio avanzò di nuovo verso sud e a fine gennaio attraversò il Piccolo Zab. Poi penetrò per altri 320 chilometri fino a giungere alla fortezza di Dastagard, oltre il fiume Diyala. Qui si tolse la soddisfazione di recuperare 300 stendardi, bandiere e insegne romane che risalivano ai tempi di Carre e della disfatta di Valeriano subita per mano di Shapur. Quindi, ricevuta risposta negativa in merito a una proposta di pace, puntò implacabile contro la capitale del regno nemico, da dove Cosroe era fuggito in direzione delle montagne della Susiana, nel disperato tentativo di racimolare armati per la difesa del suo trono.
Anche in quel frangente Eraclio dimostrò un acume fuori dal comune, decidendo di non abbattersi contro l’odierna Baghdad: i canali attorno alla
città erano in piena, la rocca appariva ben difesa e munita ed era nota l’abilità persiana nel sostenere gli assedi; inoltre, non era da escludere che l’esercito di Shahrbarâz, l’ultima forza campale persiana, tentasse la riscossa. D’altro canto, Eraclio era conscio di aver inflitto il colpo del knock out a Cosroe e decise di perseguire la strategia di annientamento fisico e psicologico delle forze nemiche, ritirandosi poi di nuovo a Ganzak nell’aprile del 628.
Gli eventi presero il corso ampiamente previsto dall’imperatore. Il malcontento maturato nei confronti del re dei re crebbe e si concretizzò in una congiura di palazzo, che nel marzo del 628 portò alla destituzione di Cosroe e alla sua morte. Il trono fu usurpato dal figlio Kavadh Shiroe II con cui, nel giro di un mese, Eraclio firmò una pace che prevedeva il ritorno delle frontiere alla situazione sancita col trattato del 591 tra Maurizio e lo stesso Cosroe ii (in pratica tornavano ai bizantini l’Egitto, la Palestina, la Siria, l’Armenia e la Mesopotamia romana) e la restituzione dei prigionieri e della Santa croce, presa dai persiani a Gerusalemme.
Ciò fatto, Eraclio poteva ritirarsi ad Amida e concentrare la sua attenzione su Shahrbarâz, che, ancora in possesso di Egitto e Siria, non sembrava intenzionato a restituirle. Ma ormai la Persia era sull’orlo del caos: a settembre Kavadh ii morì, sembra di malattia, mentre sul trono ascendeva il suo giovane figlio Ardashir III. A quel punto Shahrbarâz fu costretto a scendere a patti, e nell’estate successiva raggiunse un accordo che prevedeva la restituzione di Siria ed Egitto in cambio della Mesopotamia romana a sud di Amida, e dell’appoggio dell’imperatore al suo tentativo di impadronirsi del trono persiano.
Così Shahrbarâz tornò in patria con il suo esercito per prendere il potere, mentre Eraclio recuperava Siria ed Egitto e riportava la Santa croce a Gerusalemme nel marzo 630. Il mese successivo Shahrbarâz conquistò Ctesifonte e il trono, ma fu ucciso in una congiura due mesi dopo; a lui subentrò la figlia di Cosroe ii, Boran, che però morì nel 631: in una fiammata lo Stato sasanide sprofondò nella guerra civile e praticamente si dissolse. Eraclio approfittò della situazione per rioccupare la Mesopotamia a sud di Amida e nel 631 tornò a Gerusalemme, dove lo attendeva un meritatissimo trionfo: la secolare lotta contro la Persia sasanide era da ultimo vinta.
La fine della Persia fu la fine del grande, inestinguibile, “altro” regno. Ora esisteva un solo impero ed era quello di Eraclio. Basileus divenne un titolo universale, ben diverso dal rex dei germani o dal khan o khagan delle popolazioni mongoliche che infestavano il Danubio. L’ecumenicità di quella carica apparve evidente quando, nel ix secolo, i
franchi si approprieranno della dignità imperiale, adottando la formula latina di imperator: il sovrano di Costantinopoli risponderà alla provocazione affermando di essere basileus ton romaion, e cioè “re dei romani”.
La riconquista aveva avuto luogo in sette anni, sette come i giorni della creazione: questa coincidenza numerica fu più volte rimarcata. In un crescente gioco di allusioni e simboli, Eraclio diverrà secondo l’ideologia cristiana una reincarnazione del fondatore dell’impero, Costantino il Grande; e di Traiano secondo quella laica, per quanto quest’ultima potesse sopravvivere ancora. Ma si andò oltre. La popolazione di quell’impero, che trovava il suo elemento fondante nel popolo di Costantinopoli, iniziò a percepire se stessa come il nuovo popolo eletto, capace di riportare a Gerusalemme la Vera croce, strappandola ai persiani di Zoroastro. Il cappadoce riconosciuto come guida inimitabile e trascinatore di questa genia rinnovata, fu più volte onorato dall’appellativo di “nuovo Mosè”.
E dunque Eraclio nel 630 si trovò a essere, nello stesso tempo, Mosè, Alessandro Magno, Traiano e Costantino e cioè la congiunzione inverata della storia di tutta l’umanità, secondo l’interpretazione cristiana e grecolatina. Sulla scorta di tale coscienza ingigantita, l’imperatore si riconobbe il diritto di intervenire nelle secolari dispute che agitavano la Chiesa, mai doma nonostante la minaccia dei pericoli esterni sin qui narrati. La stessa assunzione del termine Basileus, sottratto ai sovrani persiani che, mutuandolo dalla cultura omerica, se ne erano appropriati ribadendo attraverso una robusta tradizione la somma regalità del re dei re, sanciva infatti non solo il primato conquistato dal sovrano bizantino a danno del popolo sconfitto, ma anche la sua rinnovata dimensione teocratica.
In virtù di questa, Eraclio promosse un nuovo orizzonte culturale in cui l’impero assumeva una sorta di “tutela” nei confronti dell’Ecclesia.
Prest, Eraclio fu costretto ad abbandonare le dispute teologiche per affrontare nuovamente problemi dannatamente terreni. Il 622, l'anno in cui si registrò l’inizio della riscossa bizantina, era lo stesso in cui un tale Mohamed fuggiva dalla Mecca per rifugiarsi a Medina, sancendo quell’egira che costituirà l’atto fondante dell’Islam. Da allora il mondo non sarebbe più stato lo stesso ed Eraclio fu tra i primi a sperimentarne le conseguenze.
Un iniziale sconfinamento delle tribù arabe era già avvenuto nel 629: un misero gruppo di guerrieri, forse trecento, sotto la guida del loro profeta era penetrato nei territori dell’impero, ma era stato rapidamente respinto. Nessuno all’epoca diede peso a quella piccola scorribanda, che parve inquadrarsi nella normale routine di confine con cui le tribù di beduini del Nord dell’Arabia attestavano la loro presenza. Nell’autunno del 633, però, accadde qualcosa di assolutamente nuovo. Gli arabi, forse 10.000 guerrieri, penetrarono in Transgiordania e in Palestina. Due scontri sul mar Morto e nei pressi di Gaza si risolsero in un disastro per le guarnigioni bizantine; i combattenti musulmani misero fin da subito in campo la loro tattica sconvolgente e disorientante: attacchi rapidissimi condotti da cavalieri armati in maniera estremamente leggera, cementati da un’inossidabile compattezza tra le loro schiere. Addirittura il patrizio Sergio, comandante militare locale, cadde sul campo.
Consapevole della serietà della situazione, Eraclio spostò la sua sede operativa a Emesa, l’attuale Homs, posta nella Siria settentrionale, e mobilitò un esercito che affidò al comando di suo fratello
Teodoro. Questi si diresse a sud e iniziò a incalzare gli assalitori, contenendoli e respingendoli. Gli arabi si trovarono in grave difficoltà ma si affidarono a un personaggio leggendario, Khalid ibn al-Walid, l’autore di un vero e proprio miracolo strategico. Costui interruppe l’assedio di Hira al quale si stava dedicando e, attraversando il deserto a marce forzate, giunse in Palestina, con lo scopo di riunire le sue truppe a quelle già operanti nella regione. Il 30 luglio del 634 attaccò l’esercito bizantino al comando di Teodoro presso Ajnadayn, a sud-ovest di Gerusalemme, dove gli imperiali subirono una terza umiliante sconfitta: il governatore della Palestina cadde in battaglia e il fratello dell’imperatore si salvò solo fuggendo.
Dopo un tale successo i musulmani guidati da Khalid, detto ormai “la spada di Dio”, marciarono verso settentrione, ignorando Gerusalemme, che aveva chiuso le porte preparandosi all’assedio, e penetrarono nella Siria meridionale. Qui Eraclio aveva sostituito nel comando il fratello con un nuovo generale, l’armeno Vaanes. Khalid e i suoi riuscirono a ottenere l’ennesima vittoria a Pella, poco a sud di Damasco, e giunsero di slancio a cingere d’assedio la città. Era il marzo del 635. Dopo sei mesi di assedio, il 10 settembre, Damasco si arrese e fu espugnata.
Eraclio si spostò allora ad Antiochia e qui riorganizzò il suo esercito. Affidò una prima armata a Teodoro, un secondo corpo di spedizione a Vaanes e altre truppe all’alleato arabo di stirpe ghassanide Jabala ibn Ayham. Di fronte a tale spiegamento di forze, Khalid preferì ritirare le sue truppe, sgomberando i territori e le città conquistate fino ad allora, e ripiegando in cerca del luogo ideale allo scontro, che individuò sulle rive del fiume Yarmuk, un affluente di poco conto del Giordano, a sud del lago di Tiberiade. Qui, il 20 agosto del 636 infuriò una lunga e sanguinosa battaglia, dall’esito incerto fino all’ultimo, ma che si risolse in una netta vittoria degli arabi.
Dopo quella data Eraclio abbandonò definitivamente il comando dell’esercito e si ritirò nelle retrovie, in Asia Minore: l’imperatore si convinse che la situazione militare era troppo compromessa e che non era assolutamente possibile organizzare una controffensiva in tempi brevi, destinando tale compito alla sua discendenza.
Insomma il grande combattente, l’intrepido cappadoce, colui che, secondo la leggenda, aveva ucciso in duello il generale Rahazhad durante la battaglia di Ninive, si arrese ai suoi sessantasei anni e alla forza degli eventi. Decidendo di attestarsi sulla catena montuosa che separa l’Anatolia dalla Siria, l’imperatore andava a descrivere, consapevolmente o no, una linea di confine e un progetto difensivo che sarebbe rimasto valido per centocinquanta anni. Siria e Palestina furono, in buona sostanza, abbandonate a loro stesse dopo l’agosto del 636. Gerusalemme, soprattutto, si apprestò a resistere
ma dopo otto mesi di attacchi e di blocco commerciale nel 638 capitolò.
E meno male che in tempi non sospetti Eraclio, sentendosi incapace di reagire militarmente, si era preoccupato di tradurre la Vera croce da Gerusalemme verso Costantinopoli, evitando che la beffa si sommasse al danno. Ciò naturalmente non lo salvò dal disastro di immagine che si ripeteva dopo ventiquattro anni: la nuova perdita della Palestina e della Siria lasciava presagire che la forza e il carisma universale dell’impero erano ormai per sempre compromessi.
D’altronde, ciò che accadde in quegli anni fu un fenomeno storico che non ebbe quasi eguali. Fu come assistere al dilagare di una marea irrefrenabile, che nel giro di pochissimi anni, una quindicina circa, si abbatté dal Nilo all’Indo formando il più grande impero della storia del Medio Oriente e dell’Oriente dopo Alessandro. Una cosa inaudita a cui nessuno, era preparato. Nemmeno Eraclio. Se la guerra greco-persiana dei due decenni precedenti era stato uno scontro combattuto da eserciti regolari e di tipo tradizionale, all’interno dei quali la professione di fede aveva certamente un suo ruolo ma non influenzava l’organizzazione militare e la tecnica bellica, nel caso degli arabi Eraclio si trovò davanti un fenomeno del tutto nuovo. I musulmani praticavano una guerra di religione organizzata dal basso: la loro stessa struttura politica e militare si cementava sulla predicazione del Profeta, e i combattenti arabi possedevano delle motivazioni e una compattezza che lasciò sbalorditi gli strateghi dell’epoca fino a disarmarli.
Nonostante che nel confronto tra bizantini e musulmani i rapporti di forza fossero nettamente favorevoli ai primi, almeno di tre a uno, la cavalleria leggera degli arabi annullò ogni svantaggio. Il suo impiego rese obsolete tutte le precedenti e ben rodate tecniche belliche, basate sulla fanteria e sulla cavalleria pesante: le truppe di Eraclio risultarono troppo lente nella manovra in battaglia e prevedibili negli spostamenti strategici. Basti pensare a quando, nel 635, l’avanzata di Eraclio in Siria fu anticipata con facilità disarmante da Khalid, il quale con estrema rapidità preparò una linea difensiva arretrata. Dove, al contrario, i bizantini dimostreranno una certa superiorità, e questo va tutto ascritto a Eraclio e alla sua riforma militare, fu nella difesa territoriale e nella tecnica di interruzione dell’avanzata nemica. Un pregio che l’impero riuscirà a manifestare solo più tardi, quando il cappadoce da tempo sarà passato a miglior vita.
Eraclio risentiva personalmente e nel profondo del disastro di Yarmuk e della seconda perdita di Gerusalemme. Iniziò a soffrire di fobie nervose e di una grave affezione organica, l’idropisia. Ritiratosi nel cuore dell’Asia Minore, a Hiera, aveva probabilmente in animo di non abbandonare più la cittadina e di governare da lì l’impero, in una posizione privilegiata per il controllo dell’aggressività musulmana, che dalla Siria si estendeva verso le montagne del Tauro a minacciare l’Armenia.
Purtroppo lo scandalo per le sconfitte subite non tardò a investire il ruolo pubblico dell’imperatore. Circolarono di nuovo prepotentemente le voci sull’empietà del suo rapporto con Martina, mai tramontato capro espiatorio cui addossare tutte le sventure dell’impero. Stavolta la fronda divenne qualcosa di più serio e si concretizzò in una congiura che trovò adesioni nel figlio illegittimo di Eraclio, Atalarico, e nel nipote Teodoro. Solo allora l’imperatore si decise ad abbandonare Hiera, ma non potendo sopportare la vista del mare a causa di una gravissima forma di quella che poteva essere talassofobia, si avviò verso la capitale via terra, attraversando il Bosforo in modo stupefacente e agghiacciante al medesimo tempo.
Si costruì infatti un ponte di barche che fu ricoperto di erbe e di foglie, in modo tale da ricreare l’impressione della terraferma. Eraclio poté così attraversare il mare a cavallo, quasi fosse Cristo che camminava sulle acque, o meglio, una sua triste replica caricaturale. Giunto a Costantinopoli, sedò la rivolta e utilizzò contro i congiurati, per la prima volta nella storia giudiziaria dell’impero, una forma di punizione tipicamente orientale ed estranea alla tradizione romana: Atalarico e Teodoro subirono l’amputazione delle mani e del naso, per poi scontare il resto dei loro giorni in monastero.
Per inciso, tale condanna diventerà in seguito molto di moda al punto che, nel 726, sotto l’impero di Leone III Isaurico, verrà formalizzata. La congiura non contribuì certo a migliorare le idiosincrasie dell’imperatore che, anzi, in un eccesso di sfiducia globale, associò il legittimo erede al trono, Costantino III, ai congiurati e non riuscendo a dimostrarne la colpevolezza lo mortificò, inserendo nella linea dinastica anche il fratellastro minore, Eracleona. Ma andò anche oltre, nominando nel suo testamento politico la moglie Martina come reggente dei due fratellastri.
Peggiore affronto non poteva essere fatto a Costantino III, da lungo tempo uscito dalla minore età, ma soprattutto peggiore ingiuria alla tradizione politica romana, tardo-romana e proto-bizantina non poteva essere pronunciata: una donna, nei fatti, veniva designata all’impero. Neppure Giustiniano aveva osato tanto nei confronti di Teodora, permettendole sì di governare, ma sempre nell’ombra formale del macedone. Così, mentre il palazzo scricchiolava, l’impero crepitava nell’incendio musulmano. La Mesopotamia bizantina cedette fin dal 638 quasi senza opporre resistenza; e lo stesso avvenne per la Mesopotamia persiana.
A quel punto, risalendo vorticosamente il corso dell’Eufrate e del Tigri, i cavalieri islamici giunsero ai confini dell’Armenia, riconquistata alla causa bizantina da soli quindici anni. Qui la risposta imperiale fu più efficace, grazie alla conformazione montana della regione che permise alle guarnigioni di effettuare continue imboscate frenando l’offensiva musulmana, nonostante la perdita del nodo strategico di Dvin, posto nella parte orientale dell’area.
Ma la storia ormai presentava il conto. Nel 639 un gruppo di 4000 cavalieri arabi, provenendo dalla Siria e dalla Palestina e guidati da Amr, cercò di penetrare in Egitto. Lì per lì le difese bizantine ressero e anzi ottennero qualche successo, riuscendo a erigere una barriera lungo la penisola del Sinai. Addirittura, la popolazione della provincia, soprattutto quella urbana, diede segni di resistenza e di solidarietà con il potere imperiale e tutto fece ipotizzare che non si sarebbe trattato di una guerra lampo. Ma Amr non si perse d’animo e all’inizio del 640 riprese l’offensiva, riuscendo a occupare Pelusio, la tradizionale sede della flotta militare romana e tardo romana, e spalancando di fatto agli arabi il delta del Nilo. Nel luglio dello stesso anno, battuto un distaccamento bizantino, i musulmani ponevano d’assedio Babylon e la linea del Sinai dovette essere irrimediabilmente abbandonata.
L’Egitto, granaio dell’antichità e terra della tassazione privilegiata in favore delle plebi urbane delle grandi metropoli imperiali, era di nuovo contesa. Il patriarca d’Alessandria, Ciro, che esercitava funzioni politiche simili a quelle governatoriali, chiese a Eraclio di poter trattare la resa di Babylon. L’imperatore rifiutò decisamente e anzi depose Ciro, che pure era stato lui a nominare, accusandolo di simpatizzare per gli estremisti monofisiti e per gli arabi che a quelli facevano riferimento.
La fortezza di Babylon e soprattutto la metropoli egiziana rimasero obiettivi irrinunciabili, pena lo scatenarsi di un secondo e terribile scandalo, dopo quello di Gerusalemme. Un evento che fu risparmiato all’imperatore dal sopraggiungere della morte. Eraclio si spense l’11 febbraio del 641, giusto in tempo per non assistere allo sfaldamento dei domini italici cui contribuirà prepotentemente l’astro nascente longobardo di Rotari. Morì a settantuno anni, affetto da idropisia, al cui aggravamento contribuì certo una grave forma di depressione nervosa che lo perseguitò dai tempi dello Yarmuk, e cioè per almeno cinque anni vissuti nel tormento.
Vera e propria fenice, egli seppe risorgere dalle ceneri e, cavalcando il disfacimento in cui languiva l’impero, riuscì a restituire nuova vita alla compagine statale, affrancandola definitivamente dal retaggio romano: con lui nasceva l’impero compiutamente bizantino, greco di lingua e di essenza, capace di sopravvivere per almeno altri otto secoli. In ciò fu degno erede dell’eroe di cui portava il nome: se a ovest le colonne d’Ercole segnavano il confine europeo, saranno quelle di Eraclio a definirlo a est durante il quasi millenario corso del Medioevo.
Eugenio Caruso
- 24 ottobre 2018