Inferno. Canto X. Gli epicurei

Dante, Inferno Canto X.

Testo

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. 3

«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 6

La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face». 9

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati. 12

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno. 15

Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 18

E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto». 21

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. 24

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto». 27

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio. 30

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 33

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 36

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte». 39

Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 42

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 45

poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi». 48

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte». 51

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 54

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 57

piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 60

E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 63

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 66

Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 69

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 72

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa: 75

e sé continuando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. 78

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa. 81

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». 84

Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio». 87

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. 90

Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». 93

«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 96

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». 99

«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. 102

Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. 105

Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». 108

Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto; 111

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto». 114

E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava. 117

Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico,
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 120

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. 123

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. 126

«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio.
«E ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 129

«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio». 132

Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede, 135

che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo. 136

Video HD https://www.youtube.com/watch?v=NyNnxIEHyao

Gassman https://www.youtube.com/watch?v=3ocWgUop4gk


Parafrasi

A quel punto il mio maestro procedette per un sentiero nascosto, tra le mura e le tombe, e io lo seguii. 3
Gli chiesi: «O sommo sapiente, che mi conduci per i Cerchi infernali, ti prego di rispondermi e soddisfare il mio desiderio. 6
Si potrebbero vedere i dannati che giacciono nelle tombe? Tutti i coperchi sono sollevati e nessun demone fa loro la guardia». 9
E lui a me: «Saranno tutti richiusi quando le anime torneranno qui dalla valle di Giosafat coi corpi che hanno lasciato sulla Terra. 12
In questo punto del cimitero sono puniti Epicuro e tutti i suoi seguaci, che proclamano la mortalità dell'anima. 15
Perciò ben presto sarà soddisfatto il desiderio che mi hai svelato, e anche quell'altro (vedere Farinata) che tu non vuoi dirmi». 18
E io: «Mia buona guida, io non ti nascondo i miei pensieri se non per parlare poco, e sei stato proprio tu a insegnarmelo in varie occasioni». 21
«O toscano, che te ne vai per la città del fuoco parlando in modo così dignitoso, abbi la compiacenza di trattenerti. 24
Il tuo accento indica che sei nato in quella nobile patria alla quale, forse, fui troppo fastidioso». 27
Questa voce uscì improvvisamente da una delle tombe, per cui ebbi paura e mi strinsi un poco al mio maestro. 30
Ed egli mi disse: «Voltati, che fai? Non vedi laggiù Farinata che si è sollevato? Lo puoi vedere dalla cintola in su». 33
Io avevo già fitto il mio sguardo nel suo; e lui si ergeva con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse tutto l'Inferno. 36
E le mani di Virgilio, pronte e animose, mi spinsero fra le tombe verso di lui, mentre il maestro diceva: «Fa' che le tue parole siano misurate». 39
Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi guardò un poco e poi, quasi con disdegno, mi domandò: «Chi furono i tuoi avi?» 42
Io, che ero smanioso di obbedire, non glieli nascosi ma, anzi, risposi pienamente; allora lui sollevò un poco le ciglia 45
poi disse: «Essi furono aspri nemici miei, dei miei avi e della mia parte politica (Ghibellini), al punto che per due volte li cacciai da Firenze». 48
Io gli risposi: «Se essi furono cacciati, tornarono poi da ogni parte, in entrambe le occasioni; ma i vostri avi, invece, non furono altrettanto bravi». 51
In quel momento apparve alla nostra vista un'anima, che si sporgeva accanto a quella di Farinata fino al mento: credo che fosse inginocchiata. 54
Mi guardò intorno, come se avesse desiderio di vedere se c'era qualcun altro con me; e poi che smise di osservare, mi disse piangendo: 57
«Se tu vai per questo cieco carcere per i tuoi meriti di intellettuale, dov'è mio figlio? E perché non è qui con te?»60
E io a lui: «Non sono qui per mio solo merito: colui che attende là (Virgilio) mi conduce attraverso l'Inferno verso colei (Beatrice) che vostro figlio Guido, forse, ebbe a disdegno (disprezzò)». 63
Le sue parole e il fatto che fosse tra gli Epicurei mi avevano fatto capire il nome di costui (Cavalcante); perciò risposi così prontamente. 66
E lui, improvvisamente sollevatosi, gridò: «Come? Hai detto "egli ebbe"? Guido non vive ancora? la dolce luce del sole non colpisce più i suoi occhi?» 69
Quando si accorse che esitavo a rispondere, ricadde supino e non ricomparve più fuori dalla tomba. 72
Ma quell'altro nobile dannato, alla cui domanda mi ero fermato, non mutò aspetto, né parve minimamente colpito dall'accaduto: 75
e proseguendo il discorso iniziato, disse: «Se i miei avi hanno appreso male l'arte di rientrare in Firenze, ciò mi procura più sofferenza di questa tomba. 78
Ma non passeranno cinquanta fasi lunari (meno di quattro anni) che anche tu saprai quant'è dolorosa quell'arte. 81
E ora dimmi (e possa tu tornare nel dolce mondo terreno): perché i fiorentini sono così duri in ogni loro provvedimento contro la mia famiglia?» 84
E io a lui: «Lo strazio e l'orrenda strage di Montaperti, che colorarono di rosso il fiume Arbia, ci induce a emanare queste leggi». 87
Dopo che ebbe scosso il capo sospirando, disse: «Non fui certo il solo a combattere quella battaglia, né certo ci sarei andato senza una valida ragione. 90
In compenso fui l'unico a difendere Firenze a viso aperto, quando ciascun capo ghibellino era pronto a raderla al suolo». 93
Allora lo pregai: «Orsù, possa la vostra discendenza trovare pace: risolvetemi quel dubbio che aggroviglia i miei ragionamenti. 96
Mi sembra che voi dannati vediate, se ho capito bene, gli eventi futuri, mentre abbiate altra conoscenza del presente». 99
Disse: «Noi, come chi ha un difetto di vista (presbite), vediamo le cose che sono lontane nel tempo; soltanto questo ci permette Dio. 102
Quando le cose si avvicinano o accadono, il nostro intelletto è vano e se altri non ci porta notizie, non sappiamo nulla della vostra condizione umana. 105
Perciò puoi capire che la nostra conoscenza (del futuro) sarà totalmente annullata dal momento in cui sarà chiusa la porta del futuro, ovvero il giorno del Giudizio». 108
Allora, come pentito della mia colpa, dissi: «Poi direte a quel dannato che suo figlio è ancora in vita; 111
e se poc'anzi non gli diedi subito risposta, ditegli che lo feci perché ero nell'errore che voi mi avete spiegato». 114
E ormai Virgilio mi richiamava; perciò pregai in fretta lo spirito che mi dicesse chi erano i suoi compagni di pena. 117
Mi rispose: «Qui giaccio con più di mille dannati: qua dentro è Federico II di Svevia, nonché il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri». 120
Quindi tornò nella tomba; e io mi incamminai verso l'antico poeta, ripensando a quelle parole che mi sembravano ostili. 123
Virgilio si mosse; e poi, mentre camminava, mi disse: «Perché sei così turbato?» E io glielo spiegai. 126
Quel saggio mi comandò: «La tua mente ricordi bene ciò che hai sentito contro di te. E ora ascolta,» e drizzò il dito: 129
«quando sarai davanti al dolce raggio di colei che coi suoi begli occhi vede ogni cosa (Beatrice), saprai da lei il tuo destino futuro». 132
Quindi si volse a sinistra: ci allontanammo dal muro e ci dirigemmo verso l'orlo esterno del Cerchio, per un sentiero che conduce a una valle 135
da cui fin lassù arrivava un gran puzzo. 136

Riassunto
In questo Canto vengono descritti due epicurei, cioè due materialisti che non credevano nell'immortalità dell'anima: Farinata degli Uberti, di casato e partito ghibellino, e Cavalcante de' Cavalcanti, di casato e partito guelfo, pur essendo imparentato con l'altro, poiché il proprio figlio Guido aveva sposato la figlia Bice del capo ghibellino.
Stranamente la descrizione dell'ambiente non mette in evidenza alcunché di orrido o di ripugnante o di mostruoso. Tutto sembra tranquillo. Dante anzi, che sta camminando per un sentiero insieme a Virgilio e che vede alla sua sinistra quelle strane tombe scoperte, si meraviglia dell'assenza di demoni: non c'è nessuno che faccia la guardia ai condannati. Virgilio gli risponde che quello è come un cimitero, dove i loculi resteranno aperti sino al Giorno del Giudizio, quando verranno richiusi sulle anime ricongiunte ai loro corpi. Dunque i coperchi non sono aperti perché da lì deve uscire qualcuno, ma perché dovrà entrare il corpo che avevano in vita, affinché il loro dolore aumenti d'intensità.
Sembra non esserci neppure una vera legge del contrappasso. Le anime non fanno nulla di particolare. Vivono soltanto una condizione in cui sono obbligate a credere nel contrario di ciò in cui credevano quand'erano sulla terra. Si sentono morte, impossibilitate a fare alcunché, pur essendo vive.Vivono come ibernate, ma nel fuoco, che le brucia senza consumarle, e si guardano reciprocamente (essendo le tombe dei contenitori collettivi). Vien quasi da pensare che Dante abbia cercato di evitare il più possibile di punire con pene esemplari coloro che avevano commesso un semplice reato di opinione. In fondo quelle anime si trovavano lì non perché avessero compiuto qualcosa di umanamente spregevole, quanto perché l'ideologia dominante condannava ogni forma di miscredenza.
Se Dante fosse stato un credente fanatico o integrista (come p.es. lo erano i guelfi Neri), sapendo che in quel girone vi erano gli atei e i miscredenti, non avrebbe chiesto a Virgilio di parlare con loro, né, tantomeno, l'avrebbe fatto usando un tono così rispettoso e parole così gentili, che in genere nella Commedia vengono usate per ottenere qualcosa cui si tiene in modo particolare e che non si potrebbe ottenere diversamente.
Sembra quindi che Dante voglia fare una bella figura al cospetto di questi dannati, i quali peraltro, quando lui li incontra, non mostrano alcunché di "eretico", essendo intenti a parlare con lui o di politica o di questioni personali, lontanissime dalla teologia. Si potrebbe addirittura pensare che Dante avesse già capito che quando un cristiano smette di credere nell'immortalità dell'anima non può più essere definito "eretico" bensì"ateo". Se l'anima non è immortale e con la morte del corpo finisce tutto, il cristianesimo viene contestato alla radice, come ogni altra religione. Parlare di "eresia cristiana" sarebbe quanto meno improprio.
In ogni caso qui Dante non vuol fare il teologo né il filosofo, come invece nel Canto successivo, che non a caso è il più arido di tutto l'Inferno. Non si mette a disquisire coi dannati sui motivi per cui si trovano lì. Egli peraltro doveva saper bene che Epicuro non negava l'anima, ma solo la sua immortalità separata dal corpo; inoltre ammetteva l'infinità dell'universo. Ci sarebbe stato quindi di che discutere, e sarebbe stato interessante mostrare a questi epicureisti che proprio in nome dell'infinità dell'universo diventava necessario sostenere la validità della legge della perenne trasformazione della materia anche nei confronti dell'essere umano, per il quale quindi la morte non è che un momento di passaggio da una condizione a un'altra. Una volta accettato questo, sarebbe apparso del tutto irrilevante credere o non credere nell'immortalità dell'anima. Se l'universo è infinito, la composizione della materia risponde a leggi infinite, che possiamo comprendere, stando sul nostro pianeta, solo in misura limitata.
Ma sarebbe troppo chiedere questo a Dante, che, avendo deciso di metterli all'inferno, ha già fatto sue le tesi della teologia scolastica allora imperante. Sicché quando incontra Farinata, l'unico tema che esplicitamente tratta è quello politico, e indirettamente fa capire al lettore che aveva deciso di metterlo all'inferno non solo per non contraddire la versione ufficiale che vedeva in Farinata un miscredente (non dimentichiamo ch'egli,su questo tema, era stato processato e condannato dopo morto), ma anche per motivi più che altro etici, cioè umani, come vedremo dettagliatamente più avanti.
Qui in ogni caso non dobbiamo pensare che Dante accetti supinamente la disumanità della teologia scolastica. La condanna ch'egli infligge a questi epicurei ai nostri occhi appare sicuramente sproporzionata rispetto alla loro colpa, tuttavia egli si sforzerà di mostrare il lato umano, sofferente,di questi condannati, anche perché deve stare attento a non prestare il fianco alle critiche di chi potrebbe dire che li aveva messi lì in quanto avversari politici.
E qui bisogna che apriamo una parentesi. Il Canto X è impossibile capirlo se prima non si chiarisce, sul piano storico-politico, chi fosse una personalità di spicco come Farinata degli Uberti, che era morto un anno prima della nascita di Dante e che pertanto non poteva essere stato, come invece Filippo Argenti, un suo nemico personale.
Farinata era stato il capo ghibellino più importante di Firenze e Dante sapeva bene di non poterlo mettere all'inferno solo per questo. Sarebbe stato puerile, anche perché lo stesso Dante esiliato era diventato ghibellino, come ben attesta il suo interessamento per la discesa in Italia dell'imperatore Arrigo VII e anche il suo De Monarchia, un testo nettamente favorevole alla diarchia dei poteri istituzionali, senza poi tralasciare ch'egli mette all'inferno anche i guelfi di parte Nera e di parte Bianca, inclusi vari pontefici. Se avesse voluto guardare, obiettivamente, solo gliaspetti politici, avrebbe dovuto mettere Farinata quanto meno in purgatorio.
In teoria Dante mette Farinata all'inferno perché questi, insieme alla moglie, aveva subìto un processo post-mortem per eresia (1283): una di quelle assurdità medievali del cattolicesimo romano che qui Dante accetta senza discutere, proprio perché, temendo, in caso contrario, di passare egli stesso per eretico, non se la sente di contraddire un verdetto ufficiale. I processi per eresia (pare peraltro che Farinata fosse aderente a quella catara) servivano proprio per screditare politicamente gli avversari. Va detto tuttavia che nessuno a quel tempo avrebbe potuto governare una qualunque città senza essere, almeno formalmente, "cattolico". Farinata era stato uno di quel leader ghibellini che mentre sul piano politico era formalmente cattolico (e favorevole alla separazione di chiesa e stato), sul piano filosofico era invece sostanzialmente ateo. Le due concezioni, nell'avanzata vita borghese della Firenze di allora, potevano tranquillamente coesistere, persino in ambienti ecclesiastici, e in ogni caso va tassativamente esclusa l'equazione di ghibellinismo=ateismo (come attesta appunto la presenza del guelfo Cavalcante in quel cerchio).
Ci si può comunque chiedere se Dante, che ama fare la parte dell'idealista, abbia messo Farinata all'inferno per un semplice reato di opinione o per l'ipocrisia di una doppiezza che lui considerava insostenibile. La cosa strana è che in questo Canto non si parla affatto di questioni filosofiche o religiose ma solo di questioni storico-politiche e, parlando di queste, Dante vi introduce alcuni aspetti che non c'entrano niente neppure con la politica, ma piuttosto con la morale umana.
Ma se non avrebbe avuto senso mettere Farinata all'inferno solo perché avversario politico, e se il fatto d'averglielo messo solo perché condannato ufficialmente per eresia risulta del tutto irrilevante nel dialogo tra i due (tanto che si è convinti che se Dante avesse potuto agire in piena autonomia l'avrebbe messo altrove), quali sono gli "aspetti umani" per cui lo mette nel sesto cerchio degli eresiarchi? E se sono davvero "umani", perché condannarlo per motivi ideologici?
Il cattolico Dante condanna Farinata come eretico, poiché, agendo questi inevitabilmente come politico "cattolico" (la laicità della politica è una concezione post-medievale), non poteva non credere nell'immortalità dell'anima: la sua eresia era una forma di ateismo incompatibile con il suo ruolo istituzionale. Ma il guelfo Dante non può condannarlo come "politico", sia perché sarebbe apparso fazioso, sia perché nel corso del proprio esilio egli stesso aveva capito che i ghibellini avevano ragione nei confronti della chiesa.
Dante deve quindi dimostrare che l'idea d'averlo messo all'inferno per il reato "oggettivo" d'opinione era confermato dalla presenza di altri elementi "soggettivi", squisitamente umani, che rendevano per così dire inevitabile quella condanna. In altre parole la colpa d'essere ateo si rifletteva sul suo modo umano d'interagire con le persone. Farinata deve dunque apparire disumano sul piano etico-personale, proprio perché Dante non ha un altro modo convincente per condannarlo all'inferno.
Dante cioè doveva cercare di dimostrare, quasi arrampicandosi sugli specchi, che la pena infernale (nel Canto peraltro ridotta al minimo) era stata comminata a Farinata per soddisfare esigenze che, sul piano formale, dovevano apparire anzitutto teologiche, anche se nella realtà, quella per lui sostanziale, erano invece di tipo etico. Farinata viene messo all'inferno perché Dante lo considerava un politico con poca umanità. E i posteri purtroppo si son fatti di Farinata questa idea.

Chiusa la parentesi su Farinata, passo ad esaminare il testo.
L'esordio dell'intervento di Farinata è stilisticamente stupendo. Egli si sente indotto a uscire dal proprio loculo non solo perché Dante era originario come lui della Toscana, ma anche perché si esprime in un linguaggio "onesto"(v. 23), che qui vuol dire "rispettoso", "riguardoso".
Dante fa parlare Farinata in una maniera particolarmente gentile nei suoi confronti e non senza una propria ammissione di colpa: "La tua favella ti dice nativo di quella nobile patria alla quale forse io fui troppo molesto"(vv.25-27). Lo supplica quindi di fermarsi a parlare un po' con lui. La sua voce esce improvvisamente da un tumulo, senza le preoccupazioni pedagogiche di chi non vuole turbare in alcuna maniera il proprio interlocutore. Dante infatti se ne impaurì e si accostò a Virgilio, il quale però, vedendolo così timoroso, lo prende quasi in giro, dicendogli di voltarsi verso il punto da cui la voce proveniva e non verso la parte opposta.
Il poeta qui è autoironico, anche se in questa maniera ha voluto farci capire due cose, anzitutto che Farinata non era un uomo dalle mezze misure ma un orgoglioso, uno che, pur uscendo dal basso, come in questo caso, guardava solo dall'alto. E poi che il luogo cimiteriale ed evidentemente molto silenzioso, aveva un che di tenebroso e di inquietante. Quando Farinata parla doveva esserci un gran silenzio, una gran solitudine: dobbiamo immaginarci Dante che cammina tra tombe scoperte, all'interno delle quali non era possibile scorgere nessuno. Lui e Virgilio stavano camminando per un sentiero e le tombe stavano alla loro sinistra. Rappresentare la paura conseguente al fatto che da una tomba era improvvisamente uscita una voce, soltanto con poche efficaci parole autoironiche, senza dire quasi altro dell'ambiente, solo un grande poeta poteva farlo. Qui sembra di assistere a una modernissima scena di un film horror o di un racconto di E. A. Poe.
La descrizione che Dante fa del ghibellino (e solo alla fine del Canto verremo a sapere ch'egli s'era staccato da Virgilio, per cui questi non ebbe modo di ascoltare il dialogo tra i due) è molto eloquente e in alcuni punti gli aggettivi sembrano pesati col bilancino. Egli s'era alzato dal loculo "com'avesse l'inferno a gran dispitto", cioè come se non gli importasse nulla soffrire pene indicibili.
Poi la domanda, che quello rivolge a Dante, "quasi sdegnoso", cioè con tono altero, superbo: "Chi furono i tuoi antenati?". Qui è la fierezza dell'aristocratico che parla, la consapevolezza di provenire da un casato illustre, l'alterigia nei confronti di chi non può vantare pari dignità di sangue. Da quella tomba era emersa, fino alla cintola, la personificazione del razzismo.
Qui il poeta è stato davvero grande nel mettere in evidenza il contrasto tra la richiesta iniziale di Farinata, fatta con tutta la possibile etichetta signorile, e questo atteggiamento così altero, che difficilmente uno come Dante, più vicino alla media borghesia, avrebbe potuto condividere. Già da questa domanda si evince lo scontro politico tra una stantia etica nobiliare, proveniente dal possesso della terra, e una repubblica democratico-borghese sempre meno interessata alle origini aristocratiche del potere politico ed economico. Dante qui rappresenta la borghesia illuminata, di spirito democratico, economicamente in ascesa, tendenzialmente favorevole a un compromesso col papato.
"Chi furono i tuoi antenati?" è una domanda tristissima, del tutto fuori luogo in quel contesto, anche perché, se Farinata sentiva il bisogno diparlare con un fiorentino dall'eloquio "onesto", che importanza aveva conoscere le origini di lui, la sua provenienza sociale? Non era forse questo un modo di umiliarlo? Se Dante avesse avuto origini meschine o incerte, che avrebbe fatto Farinata? avrebbe rinunciato a dialogare con lui? lui che - come dirà più avanti - bramava sapere il motivo di quel pervicace odio guelfo che impediva ai suoi figli di ritornare in patria?
Qui per la terza volta Dante è costretto a usare una descrizione negativa di Farinata, atta a mettere in risalto la sua eccessiva fierezza: "ei levò leciglia un poco in suso", cioè lo guardò, ancora una volta, con un certo orgoglio, come se volesse sfidarlo. D'altra parte se Dante non avesse esagerato in questa descrizione, che motivo avrebbe avuto di condannarlo in quel cerchio? Qui anzi deve stare attento a come si muove. Avendo deciso di mettere all'inferno un ghibellino così in vista, rischia di attirarsi l'odio di chi combatte contro il papato: cosa che lui stesso, seppur da esule, stava facendo. Egli dunque deve dimostrare che la decisione di metterlo lì era stata motivata non tanto dall'accusa pubblica di miscredenza, quanto dal fatto che Farinata era stato un aristocratico altero, un anti-democratico.
Non a caso Farinata sembra voglia porsi come "avversario politico" del guelfo Dante e ora è meno contento di parlare con lui. Viceversa, Dante ha acquisito sicurezza, risponde a tono, non si lascia impressionare né dagli argomenti superbi di quello, né dalle sue dichiarazioni e ricostruzioni storico-politiche. Dante è tranquillo anche perché sa che se i ghibellini sconfissero i guelfi sia nel 1248 che nel 1260, questi seppero rientrare in città ogni volta, sia nel 1251 che nel 1266, determinando la cacciata definitiva dei ghibellini, anche se poi questo porterà a lotte intestine ancora più tragiche, quelle tra guelfi Bianchi e guelfi Neri.
L'ambigua personalità di Farinata, che qui Dante vuole dipingere, viene indicata anche dal fatto che mentre nell'invito iniziale a parlare con lui, egli s'era espresso in forma autocritica ("forse fui troppo molesto con Firenze"), ora invece appare chiaramente fiero d'esser stato duro coi guelfi, benché sigiustifichi dicendo che a ciò fu costretto a causa dell'opposizione tenace di loro.
Dante vuole legittimare a tutti i costi la scelta d'aver messo Farinata all'inferno, ma deve stare attento alle motivazioni che adduce, perché se usa soltanto quelle politiche verrà accusato di partigianeria e se usa solo quelle religiose di superficialità: deve evitare la parzialità del soggettivismo partitico e l'arido schematismo della Scolastica.
Al verso 54 veniamo improvvisamente a scoprire che le anime, in quelletombe, giacevano orizzontali, poiché l'altro abitante di quel loculo Cavalcante de' Cavalcanti, si limita a mostrare la testa, il che fa supporre a Dante ch'egli si fosse messo in ginocchio. Dunque, poiché Farinata era in piedi, l'altezza del loculo doveva essere pari a quella delle sue gambe.Ovviamente già da questo Dante vuol farci capire che tra i due il più umile era proprio Cavalcante.
Non senza astuzia, peraltro, egli evita a Farinata di replicare subito sulla questione del rimpatrio, introducendo improvvisamente una figura, la cui presenza in quel cerchio resta poco comprensibile, almeno dalla lettura dei versi. Si ha l'impressione che Dante l'abbia messa lì soltanto per mostrare che si può essere eretici o atei anche in forme più umane, ma con questo resta ancor meno spiegabile la scelta di mettere all'inferno personaggi del genere.
Peraltro Cavalcante (morto prima del 1280) non era neppure ghibellino e aveva subìto, dopo la battaglia di Montaperti, la distruzione di tutti i suoi beni. Dante poteva certamente averlo conosciuto, essendo il padre del suo amico più caro, ma non poteva aver di lui un ricordo tale da indurlo a comminargli una pena così grave. Qui si ha l'impressione che Dante abbia voluto far credere che il fatto d'aver messo Farinata all'inferno, tra gli atei, non era stato dettato da motivi politici, proprio perché nello stesso cerchio si trovava anche un guelfo. Solo che se si accetta l'idea che egli li abbia messi in quel cerchio per motivi unicamente ideologici, Dante rischia di passare per una persona incredibilmente superficiale. E' probabile invece che Dante abbia voluto mostrare, con questi due personaggi,due lati della politica attiva: quella irriducibile, ideologica, schematica,rappresentata da Farinata, e quella sensibile, tollerante, umanistica(ancorché, imperdonabilmente, epicurea) rappresentata da Cavalcante.
Che anche Cavalcante fosse ateo è fuor di dubbio, poiché egli, nel suo dialogo con Dante, suppone che questi abbia potuto fare il viaggio per meriti propri, grazie al suo "ingegno", e non per virtù divina, sicché si meraviglia di non vedere suo figlio Guido, che di Dante era amico caro, accanto a lui (non si dimentichi però che quando Cavalcante morì, Dante aveva appena 15 anni). Al che Dante gli risponde che essendo ateo anche Guido (secondo Boccaccio era seguace di idee averroistiche ed epicuree), non poteva in alcun modo seguirlo. Guido era stato un grande poeta e politicamente era un guelfo Bianco, come Dante, il quale però lo aveva espulso da Firenze nel 1300, insieme ad alcuni guelfi di parte Nera, onde ottenere la pacificazione delle fazioni opposte. Di lì apoco, in esilio, Guido sarebbe morto. Qui Dante parla di lui al passato ("ebbe"), intendendo riferirsi non al fatto che fosse già morto (nella scansione temporale del viaggio oltremondano, ambientato nel 1300, non poteva esserlo), ma al fatto che quando svolgeva la funzione dell'intellettuale aveva chiaramente manifestato idee ateistiche, sicché suo padre, pur non avendo motivo di crucciarsi sull'esistenza in vita del figlio Guido, non doveva comunque illudersi sul suo destino: prima o poi infatti l'avrebbe raggiunto nello stesso cerchio.
Tuttavia Cavalcante capisce il contrario e cioè che se Guido era già morto e non era finito nello stesso cerchio, forse una speranza di salvezza per lui c'era. A un padre che vive già all'inferno poteva importare meno che il figlio continuasse a vivere sulla terra, e molto di più che vivesse in modo tale da non dover finire all'inferno dopo morto. La critica invece ha pensato ch'egli si fosse addolorato di non poter sapere da Dante s'era già morto.
Dante non gli aveva risposto subito semplicemente perché - come spiegherà più tardi a Farinata - non aveva capito bene la domanda, essendo convinto che i dannati conoscessero, almeno in parte, il futuro, come già Ciacco gli aveva mostrato. Tuttavia la risposta che darà pare poco convincente. Sarebbe meglio supporre ch'egli si sia rifiutato di rispondere a Cavalcante proprio perché non voleva esprimersi sul destino di suo figlio e del suo amico più caro. Infatti la risposta che alla fine dà è del tutto irrilevante rispetto alla grandezza degli argomenti trattati in questo Canto.
Ma c'è dell'altro. Per quale ragione Dante usa, per descrivere Farinata,delle espressioni forti, che denunciano i difetti dell'umanità di lui, mentre per descrivere Cavalcante usa toni dimessi? Se l'uno meritava l'inferno per la sua alterigia, l'altro per che cosa lo meritava? Non sembra che Dante stia usando molta parzialità mettendo all'inferno tutti gli atei, a prescindere dalla loro umanità. Va detto tuttavia che questo vuole essere il Canto di Farinata non di Cavalcante e Dante ha bisogno di dimostrare, anche servendosi della paterna sensibilità di Cavalcante, che Farinata si meritava l'inferno. Saranno poi stati i posteri - avrà pensato il poeta, consapevole della propria grandezza - a perdonargli d'aver messo all'inferno un ateo come Cavalcante, la cui umanità, nel peggiore dei casi, avrebbe meritato il purgatorio.
Che Farinata fosse altero, Dante lo ribadisce marcatamente anche adesso, ed è la quarta volta. Infatti, vedendo il suo compagno di cella "ricaderesupino", egli "non mutò aspetto / né mosse collo, né piegò sua costa". Anzi, come se nulla fosse, riprende il discorso nel punto dove era stato interrotto da Cavalcante, e pare faccia capire di non sapere che i ghibellini non sono più riusciti a rientrare in Firenze. E se ne dispiace più che non l'essere tormentato nella sua tomba. Eppure lui stesso profetizza a Dante, con spirito vendicativo, che l'attende un duro esilio. Quindi è da presumere,altrimenti si finirebbe in un vicolo cieco, che il "se" del verso 77 ("Se imiei non hanno ben appresa l'arte del ritorno in patria") non vada inteso come un se dubitativo ma come se concessivo: "Il fatto che i miei nonabbiano appresa...". E' una semplice costatazione di fatto.
In realtà quel che lui chiede a Dante e che non può sapere ("perché ilpopolo fiorentino è tanto crudele contro il mio casato in ogni legge che sancisce?") fa parte della libertà di coscienza, cioè non appartiene al mondo fenomenico. I dannati conoscono l'accadere degli eventi ma non le loro motivazioni, che appartengono al presente, sicché quando Farinata vuol sapere perché i guelfi detestino così tanto gli Uberti, Dante è costretto a rispondergli che la causa principale stava proprio nella battaglia di Montaperti, in cui si fece dei guelfi ampia strage.
Al che quello ribatte dicendo cose per le quali al massimo avrebbe meritato il purgatorio, e cioè che non era stato solo lui a infierire sul nemico sconfitto e purtuttavia era stato soprattutto con lui che i guelfi, tornati in auge, se l'erano presa. Peraltro dopo quella battaglia, quando i ghibellini volevano distruggere Firenze, lui fu il solo a opporvisi, dicendo che l'avrebbe difesa con le armi, e alla fine ebbe la meglio sui compagni di partito, anche se poi i fatti gli diedero torto, poiché i guelfi cacciarono definitivamente i ghibellini dalla città.
Qui Farinata tenta di giustificarsi e Dante avrebbe fatto meglio a mettere all'inferno un ghibellino più fanatico e intransigente, poiché dal punto di vista politico si fa fatica a capire la collocazione di Farinata. Che senso ha far dire delle cose a un uomo che in fondo appare politicamente pentito e poi farlo stare all'inferno per un motivo d'opinione? A chi si rivolgeva Dante quando scriveva queste cose? E come può augurare la "pace" (v. 94) agli Uberti, se poi è costretto a metterli all'inferno in forza dell'accusa di ateismo, che veniva notoriamente usata a scopi politici?
La parte finale del dialogo è quanto mai contorta, non nel suo significato tecnico, che è chiaro: i dannati vedono meglio le cose lontane che quelle vicine, quanto nel suo significato motivazionale: davvero Dante era interessato a conoscere una cosa del genere? oppure ha posto quel dubbio ("sembra che voi dannati prevediate le cose future e per il presente vi comportiate diversamente e sembra lo ignoriate") semplicemente per indurre Farinata ad avere con Cavalcante un rapporto più umano, visto che, pur essendo nello stesso loculo, sembrava s'ignorassero completamente? Cioè quella domanda ha una funzione teologica o pedagogica? Serve per capire un mistero, la cui utilità per i vivi era prossima allo zero, o per invogliare ad amarsi in un luogo in cui peraltro non era possibile farlo?
L'ultima domanda che Dante pone a Farinata è di pura curiosità e avrebbe fatto meglio a evitarla in quel frangente. Il fatto è però ch'egli voleva dare l'ultima stoccata al superbo Farinata, ed è la quinta. Quello infatti dice: "Qui con più di mille giaccio / qua dentro è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio". Cioè non val la pena parlarne, essendo ben poca cosa rispetto a questi due.
Ma è probabile che la domanda l'abbia posta anche per farsi dire che gli atei erano moltissimi (già nel Trecento!) eche tra loro vi erano personaggi illustri come l'imperatore Federico II di Svevia e persino esponenti ecclesiastici come l'ambizioso cardinale Ottaviano degli Ubaldini, appartenente a una illustre famiglia ghibellina, ma nemico di Federico II e di Manfredi. Ottaviano fu accusato d'aver tradito la causa della chiesa scendendo a patti con Manfredi; ebbe altresì parte nella vittoria di Montaperti (1260), che portò i ghibellini a dominare Firenze, con l'aiuto di Siena e dello stesso Manfredi. Veniva considerato notoriamente ateo. Non dimentichiamo che Dante, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, stimava sia Federico II che Manfredi (quest'ultimo, sebbene scomunicato, viene messo nel Canto III del Purgatorio).
I critici han voluto vedere in quel "cardinale" il suddetto Ottaviano, ma, essendosi tenuto in astratto, Dante poteva anche voler indicare ai posteri che si può essere atei anche in panni religiosi. Dunque che cos'era l 'ateismo per l'Alighieri? Una semplice concezione della vita o un indizio di superbia? Quanto ha pesato in lui il condizionamento della Scolastica? Davvero solo i credenti possono essere idealisti? E quando Farinata decise che Firenze non doveva essere distrutta, in che veste l'aveva fatto?
Il dialogo finale di Virgilio e Dante ha un che di misterioso. Dante è infatti preoccupato circa il suo destino e rivela alla sua guida le parole appena dettegli da Farinata. Virgilio gli dice di ricordarle, ma di considerare anche che quando vedrà Beatrice saprà davvero quale sarà il suo destino.
Difficile capire cosa volesse dirci Dante, contrapponendo Beatrice a Farinata, in merito alla capacità d'interpretare gli eventi che hanno gli uomini. Probabilmente che il miglior modo d'interpretare gli eventi è quello di collegarli a un ideale superiore. Nontutti i mali vengono per nuocere: forse è questo il senso della frase di Virgilio. Cioè anche se Farinata ha anticipato il fatto dell'esilio, non è però in grado di individuarne gli sviluppi. Per i credenti vi è la divina provvidenza che, in ultima istanza, spiega tutto, quella provvidenza che in fondo è un invito a non disperare.
Virgilio in sostanza gli fa capire che se anche non potrà tornare aFirenze, non per questo la sua vita sarà finita; anzi, avendo occasione di cimentarsi a livello letterario, sarà possibile ch'egli diventi più grande che non a fare il politico nella sua città. Una concezione di vita, questa, che ritroveremo cinquecento anni dopo nei Promessi sposi e che risaliva, in ambito cristiano, allo stesso Paolo di Tarso, secondo cui le disgrazie servono per mettere alla prova la virtù umana, per cui le divisioni sono necessarie.
L'ultimo verso è massimamente ironico e si ricollega all'inizio, quando Dante s'era aggrappato a Virgilio sentendo la voce tombale di Farinata. Doveva averci lavorato parecchio su questo Canto, poiché è incredibilmente elaborato e ben congeniato. Dopo 135 versi di suprema serietà, avendo a che fare con politici più che motivati, Dante conclude dicendo che la valle sottostante quel cerchio emanava un lezzo insopportabile, i cui miasmi si facevano già sentire. E' in queste cose incredibilmente realistiche che Dante dà il meglio di sé.
Per il resto infatti il Canto, pur eccellente a un'analisi stilistica, resta piuttosto involuto a un'analisi politica. Se Dante voleva usare la teologia scolastica per dimostrare l'assurdità della tripartizione oltremondana,senza poterlo dire esplicitamente, possiamo comprenderlo, avendo egli scritto la Commedia, e in specie l'Inferno, in un momento drammatico della sua esistenza, quello dell'uomo esule perché politicamente sconfitto; sicché, in riferimento a questo specifico Canto, possiamo anche ipotizzare che se fosse dipeso da lui, non avrebbe messo Farinata all'inferno, o comunque non l'avrebbe caratterizzato così negativamente sul piano umano (tanto più che personalmente non l'aveva mai conosciuto).
S'egli invece ha voluto usare quella medesima teologia per vendicarsi dei suoi nemici politici, assegnando loro una condanna eterna (e in tal senso Farinata dovrebbe essere considerato la principale fonte di tutti i suoi guai, in quanto se non vi fosse stata la guerra civile tra guelfi e ghibellini, probabilmente non vi sarebbe neppure stata l'altra, tra guelfi Bianchi e Neri), allora dobbiamo dire che la grandezza di Dante come uomo non era di molto superiore a quella dei suoi nemici, e il fatto d'essere stato un grandissimo artista non è sufficiente per riscattarlo.

Farinata degli Uberti

Farinata, figlio di Jacopo degli Uberti, visse a Firenze all'inizio del XIII secolo, una delle epoche più difficili per la città toscana, tormentata da discordie interne tra guelfi, i sostenitori papali, e ghibellini, i sostenitori imperiali, di cui Farinata faceva parte. Su questo sfondo di divisioni politiche, vi era lo scontro molto feroce per il governo della città, che vide alternarsi le due fazioni al potere con reciproche violenze. Dal 1239 Farinata è a capo della consorteria di parte ghibellina e svolge un ruolo importantissimo nella cacciata dei guelfi avvenuta pochi anni dopo, nel 1248, sotto il regime del vicario imperiale Federico d'Antiochia, figlio dell'imperatore Federico II. Gli Uberti, come parte dell'élite ghibellina, furono poi esiliati quando al potere tornarono gli esponenti delle famiglie di appartenenza guelfa (1251). La famiglia degli Uberti trovò scampo a Siena nel 1258. Farinata poi contribuì da protagonista alla vittoria ghibellina di Montaperti (4 settembre 1260). Nella dieta di Empoli che ne seguì, Farinata dimostrò nobilmente il suo grande amor di patria, insorgendo a viso aperto contro la proposta dei deputati di Pisa e di Siena, che avrebbero voluto radere al suolo la città di Firenze. «E nel detto parlamento tutte le città vicine, e' conti Guidi, e' conti Alberti, e que' da Santafiore, e gli Ubaldini, e tutti i baroni d'intorno proposono e furono in concordia per lo migliore di parte ghibellina, di disfare al tutto la città di Firenze, e di recarla a borgora, acciocché mai di suo stato non fosse rinomo, fama, né podere. Alla quale proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata degli liberti e nella sua diceria propose gli antichi due grossi proverbi che dicono: com' sino sape, così minuzza rape; e vassi capra zoppa, se 'I lupo non la 'ntoppa: e questi due proverbi rimesti in uno, dicendo: com'asino sape, si va capra zoppa; così minuzza rape, se 'I lupo non la 'ntoppa; recando poi con savie parole esempio e comparazioni sopra il grosso proverbio, com'era follia di ciò parlare, e come gran pericolo e danno ne potea avvenire, e s'altri ch'egli non fosse, mentre ch'egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe. Veggendo ciò il conte Giordano, e l'uomo, e dell'autoritade ch'era messer Farinata, e il suo gran seguito, e come parte ghibellina se ne potea partire, e avere discordia, sì si rimase, e intesono ad altro; sicché per uno buono uomo cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distruggimento, mina. Ma poi il detto popolo di Firenze ne fu ingrato, male conoscente contra il detto messer Farinata, e sua progenia e lignaggio, come innanzi faremo menzione.» Anche dopo morti gli Uberti dovettero subire un'ulteriore vendetta da parte della fazione rivale dei guelfi: infatti nel 1283, 19 anni dopo la sua morte, i corpi di Farinata e sua moglie Adaleta subirono a Firenze un processo pubblico per l'accusa di eresia. Per l'occasione i loro resti mortali, sepolti all'epoca nella chiesa fiorentina di Santa Reparata, vennero riesumati per la celebrazione del processo, conclusosi poi con la condanna, da parte dell'inquisitore Salomone da Lucca. Quindi tutti i beni lasciati in eredità da Farinata vennero confiscati agli eredi. La fondatezza dell'accusa d'eresia non è certa ancor oggi: l'accusa mossa alla fazione ghibellina di Firenze, per la quale vennero considerati eretici Farinata e sua moglie, in realtà riguardava la contestazione della supremazia religiosa della Chiesa. Ma la fazione cui Farinata apparteneva ne contestava solamente l'ingerenza politica, reclamando una suddivisione tra potere spirituale e potere temporale. La confusione venne probabilmente aumentata dalla propaganda della fazione guelfa di Firenze, pronta a sfruttare a proprio vantaggio l'accusa d'eresia. Tuttavia alcuni studiosi sostengono che Farinata fosse vicino all'eresia catara. Gli Uberti, comunque, vennero esclusi da qualsiasi amnistia e l'odio dei guelfi fiorentini si focalizzò su di loro. Infatti, nell'Inferno, Farinata è collocato tra gli eretici epicurei che l'anima col corpo morta fanno, ovvero non credono nell'immortalità dell'anima. Tra lui e Dante, avversario politico, si svolge un colloquio al cui centro ricadono i temi della lotta politica e della famiglia (in particolare quello delle colpe dei padri che ricadono sui figli: un tema caro al poeta, che avrebbe potuto far revocare l'esilio ai figli maschi se avesse voluto far ritorno, umiliandosi e chiedendo perdono a Firenze). Dopo un alternarsi di battute cariche di tensione, Farinata pronuncia una profezia sull'esilio di Dante in cui è facile leggere l'amarezza del poeta, già esule da qualche anno: «Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge, (la Luna) che tu saprai quanto quell'arte pesa.» A Farinata degli Uberti, personaggio importante del suo tempo, Dante rese un grande omaggio, facendone uno dei protagonisti indimenticabili del suo Inferno e tratteggiandone una figura imponente e fiera, quasi omerica nel contrastare le avversità ("com'avesse l'inferno a gran dispitto"), tanto che la sua guida Virgilio lo esorta a non usare con lui parole comuni ma nobili.

Cavalcante de' Cavalcanti

Cavalcante de' Cavalcanti (1220 circa – 1280 circa) è stato un filosofo epicureo vissuto nel tardo Medioevo, padre di Guido Cavalcanti. Appartenente alla nobile casata guelfa dei Cavalcanti, fu uno spirito razionalista ed epicureo. Non credeva nell'immortalità dell'anima e sosteneva che l'unica realtà fosse costituita dagli atomi. Come abbiamo visto Dante lo incontra nel X canto dell'Inferno, dove sono collocati, in arche infuocate, a scontare la loro pena, eretici ed epicurei, come Farinata degli Uberti. Proprio con quest'ultimo, ghibellino, Cavalcante s'era imparentato, come avveniva spesso a quei tempi tra famiglie avversarie quando volevano riconciliarsi: dopo il ritorno dei guelfi a Firenze (1267) Guido, figlio di Cavalcante, era stato fatto sposare con la figlia di Farinata, Bice Uberti. Sempre nel X canto dell'Inferno, Cavalcante chiede a Dante notizie di suo figlio Guido, meravigliandosi di non vederlo in compagnia del Poeta, se era vero che il viaggio oltremondano dell'Alighieri fosse dovuto ad "altezza d'ingegno". In effetti Guido Cavalcanti fu tra le più belle intelligenze della Firenze del XIII secolo, e "primo amico" di Dante stesso.

Eugenio Caruso - 12 dicembre 2018

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