Prolusione, in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2018/2019 dell’Università Sapienza di Roma, di Giuliano Amato
Professore emerito e
Giudice della Corte costituzionale
Cento anni fa, nel nuovo clima
determinato dalla vittoria e dalla pace,
il nostro Ateneo inaugurava
l’anno accademico 1918-1919
con una prolusione di Pietro Bonfante.
Buona parte di essa era dedicata
alle condizioni per la costruzione
di uno Stato libero al di sopra
della nazione e Bonfante, nonostante
esplicitamente menzionasse
gli Stati Uniti d’Europa di cui
si era preso a parlare, riteneva tale
costruzione possibile in contesti
“più primitivi” di quello europeo,
come il Canada a esempio.
Perché? Perché la nazione – scriveva –
agli europei appare come una meta,
una meta assoluta. E le nuove idee,
il nuovo ordine che molti invocano
in nome in primo luogo della pace,
faranno molta fatica ad affermarsi.
Non aveva torto Bonfante. L’idea
di Europa era cresciuta nel corso dei
secoli, dal Medio Evo sino
al primo Novecento ma a nutrirla
non era stata la politica, erano stati
i tanti fili della cultura europea;
da quelli inizialmente stesi dai monaci
e dai professori che, di convento
in convento, da università a università,
avevano diffuso valori etico-religiosi
e principi giuridici comuni;
dagli architetti e dagli stessi artigiani,
che lo stesso avevano fatto con le tecniche
e con gli stili costruttivi. Ne era uscito
– per usare le parole di Federico Chabod –
«un certo abito civile, un certo modo
di pensare e di sentire, proprio
dell’europeo e diverso, ben diverso,
da tradizioni, memorie e speranze
di Indiani, Cinesi, Giapponesi, Etiopi ecc.».
Ed è ancora Chabod a citare Burke,
che vedeva una «somiglianza
di consuetudini sociali e di forme di vita»,
per cui «nessun europeo potrebbe essere
completamente esule
in alcuna parte d’Europa».
Già, ma bastava tutto questo
a generare anche l’unità organizzativa
e politica degli europei? Per porre fine
alla guerra una tale unità era stata
propugnata sin dalla fine del ‘700.
Lo aveva fatto Kant, che aveva affidato
la pace perpetua all’allineamento
dei popoli, in primis europei,
in un’unica federazione. Lo aveva fatto
Victor Hugo, preconizzando la fusione
delle gloriose individualità europee
in una comune fratellanza, sino a che
«si mostrerà un cannone in un museo
come si mostra oggi uno strumento
di tortura, meravigliandosi
che ci sia potuto essere». Mentre
il nostro Giuseppe Mazzini
avrebbe propugnato l’unità nazionale
come passo propedeutico alla creazione
della Federazione europea.
L’aspirazione, dunque, c’era
da tempo e i federalisti del ‘900,
ciascuno a suo modo, avrebbero
anche fornito il disegno: Richard Nikolaus
Coudenove Kalergi, straordinario
anticipatore che già negli anni ’20
lanciò l’unione paneuropea, propose
la comunità del carbone e dell’acciaio
e propose addirittura l’Inno alla gioia
come inno europeo; Luigi Einaudi,
che arrivò alla messa a fuoco
dei tributi con cui alimentare un futuro
bilancio europeo; Carlo Rosselli,
che vide nell’Europa federale
la dimensione più adatta all’affermazione
dei diritti sociali del lavoro;
per non parlare di Altiero Spinelli,
Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni
con il loro Manifesto di Ventotene.
Eppure, far scoccare la scintilla
dell’integrazione e condurre poi avanti
il relativo processo sarebbe stato tutt’altro
che semplice, tant’è che dopo
la Prima guerra mondiale i progetti
cominciavano a esserci,
ma non se ne fece nulla. Perché?
Per quello che abbiamo letto
nella prolusione di Bonfante
di cento anni fa e che sarebbe stato
lucidamente e amaramente ribadito
da Lucien Febvre, nelle sue lezioni
sull’Europa agli studenti parigini
al termine della Seconda guerra mondiale.
Sì, la cultura, le religioni, il diritto,
gli stili di vita comuni li avevamo,
ma la nostra unità non era quella
di un popolo, era quella di un contesto
di tratti comuni a culture nazionali,
che coltivavano anche le loro diversità e
ne facevano ragioni identitarie.
Ai fini dell’integrazione europea,
era essenziale che queste diversità fossero
orientate a comporsi, non a contrapporsi.
Ebbene, l’antinomia con cui non avremmo
mai smesso di fare i conti è stata (ed è)
quella fra la propensione a comporsi
e la propensione a contrapporsi,
compresenti, sempre, nelle identità
nazionali che dovevano (e devono)
riconoscersi nella casa comune europea.
L’europeismo si affida ovviamente
alla prima, ma gli storici realisti gli
ricordano la forza della seconda,
di cui – scrive Febvre – non ci si deve mai
dimenticare. E lo stesso Febvre,
che pure si affida in conclusione
delle sue riflessioni alla speranza,
la piccola speranza di una bella poesia
di Charles Péguy, scrive senza mezzi
termini che «gli Stati uccidono l’Europa»,
«perché gli Stati sono sempre lì a impedire
che quella realtà prenda corpo; e dietro
gli Stati, le nazioni».
Dopo la Prima guerra mondiale
è questo che è successo, tant’è che,
passati pochi anni, si è arrivati
alla Seconda. Ed è stato solo dopo la
Seconda, vale a dire dopo la Shoah,
dopo un numero di morti, militari e civili,
mai visto prima nella storia,
che la coscienza europea si è ribellata.
Davanti alle distese di croci sotto
le quali stavano fratelli, figli, padri,
vittime a quel punto tutte eguali
di una follia umana senza pari, la parola
d’ordine «Basta guerre fra noi»
diveniva ineludibile. E, con Auschwitz
nel cuore, la forza dell’orrore diveniva
più forte della forza degli Stati.
Ma attenzione, non sino al punto
di sradicarla, di provocare la catarsi
del mondo nuovo. Intanto quello
che essa riuscì ad attivare non fu una
costituente federalista, ma un processo
di integrazione, che si sarebbe sviluppato
– come disse Schuman il 9 maggio 1950 –
via via che fosse cresciuta la solidarietà
fra gli europei (realistica ammissione,
quella di Schuman, di una tensione
fra poli opposti che – lui pensava –
solo il tempo avrebbe potuto
sperabilmente cancellare). E poi nulla
ci garantiva contro futuri passi indietro,
giacché quel fuoco sotto la cenere
continuava a esserci.
Insomma, nel valutare il percorso
che allora si avviò, non dimentichiamo
mai l’antinomia e quindi la tensione
mai rimossa con cui esso ha dovuto
e deve fare i conti. Antinomia e tensione
che non sono, come qualcuno pensa,
fra ideologia e realtà, fra retorica
dell’identità comune e durezza
delle identità nazionali. No,
la drammaticità storica della vicenda
europea è che essa si fonda su valori,
su sentimenti, su modi di vita che sono
tutti veri, autentici, dall’una
e dall’altra parte. Autentica è
l’idea d’Europa di Burke e di Chabod,
autentiche sono le tradizioni
costituzionali comuni che hanno esaltato
in Europa più che altrove la rule of law,
autentica è la stessa aspirazione a vivere
uniti nelle nostre diversità. Ma autentiche
sono sempre state, e sono rimaste,
queste diversità, capaci di composizione,
ma mai spogliate di quei tratti identitari
pronti a far scattare le contrapposizioni
e quindi a mettere a repentaglio l’unità.
Certo, quando, riuniti a Roma per la firma
del Trattato istitutivo della Comunità
economica europea, gli Stati fondatori
scrissero nel Preambolo: «Determinati
a porre le fondamenta di una unione
sempre più stretta fra i popoli d’Europa»,
essi erano convinti di avviare così
un processo che avrebbe richiesto tempo,
ma che nel tempo sarebbe stato
irreversibile e irrefrenabile. Così dettava
dentro di loro la fortissima motivazione
etica che bruciava nelle loro coscienze
a pochissimi anni dalla fine della guerra.
Quella che ho definito la forza dell’orrore.
Così era allora e così certo fu
per molti anni a seguire.
Ma se fu necessaria quella forza
per fare i primi passi, che cosa avrebbe
potuto accadere quando essa fosse
inesorabilmente scemata per il passare
del tempo e il succedersi
delle generazioni? Una volta esaurito
quell’impellente messaggio messianico,
come Joseph Weiler lo avrebbe definito,
in quale direzione ci avrebbe portato
l’immanenza della tensione
fra unità e diversità? I fautori
della ever closer integration di solito citano,
una dopo l’altro, il passaggio
che ho appena ricordato del Preambolo
del Trattato di Roma e la solenne
Dichiarazione di Stoccarda, nella quale
i capi di Stato e di governo confermarono
il loro «impegno a progredire
verso una unione sempre più stretta
fra i popoli e gli Stati
della Comunità europea». Nessuno
notò che l’unione, a quel punto, non era
solo fra i popoli, come nel 1957,
ma era fra i popoli e gli Stati;
gli Stati, die herren der vertraege, avrebbe
osservato Lucien Febvre. Era il 1983.
Ma procediamo con ordine. Nei primi
decenni, sia pure fra pause e scosse,
il processo di integrazione fu realmente
tale e – quel che più conta – non soltanto
portò alla progressiva unificazione
del mercato, ma fece emergere
i valori comuni della civiltà europea,
i diritti degli europei non connessi
soltanto all’economia, le architravi
di un sistema di governo comune,
che rappresentasse non solo gli Stati,
ma anche direttamente i cittadini europei.
Ed ecco il Consiglio europeo
che già nel 1972 pone la tutela
dell’ambiente al fianco dello sviluppo
economico fra le priorità comuni,
ecco lo stesso Consiglio che nel 1978
conferma la volontà di salvaguardare
i principi della democrazia
rappresentativa, della supremazia
del diritto, della giustizia sociale
e del rispetto dei diritti dell’uomo,
come elementi essenziali
della partecipazione alla Comunità.
Ecco, lo stesso anno, l’elezione diretta
del Parlamento europeo,
di per sé inconcepibile in una comune
organizzazione internazionale fra Stati.
Ecco, infine, lo straordinario lavoro
della Corte di Giustizia, che i diritti
dei cittadini li fa emergere al livello
europeo, non solo sulla base dei Trattati,
ma riconducendoli alle tradizioni
costituzionali comuni, e dando
quindi forza, per questa via, al patrimonio
comune, alla civiltà comune europea
così come si era venuta formando nelle
nostre distinte esperienze costituzionali.
Uniti nelle nostre diversità.
È un vero e proprio crescendo, che può
avvalersi di una complessiva sintonia
fra Corte di Giustizia, nel ruolo testé
rammentato una vera apripista,
e istituzioni politiche europee, nonché
fra queste stesse istituzioni e le arene
politiche nazionali. Accade così
che le formule utilizzate dalla Corte
nelle sue sentenze, a partire da quella
sulle tradizioni costituzionali comuni,
vengono codificate nei trattati.
E accade che questi progressi
nell’integrazione sono condivisi
non solo a Bruxelles e dal Parlamento
europeo, ma dalla grande maggioranza
delle forze politiche nazionali.
Poi qualcosa è venuto cambiando,
per una certa fase facendo da controcanto
ai passi integrativi che pure continuavano,
da ultimo con una forza tale da farne
temere il sopravvento. Fu una esemplare
vicenda di canto e controcanto
il Trattato di Maastricht,
che ci dette bensì la moneta unica
e la Banca centrale europea, portando
al livello europeo prerogative e poteri
fra i più tipici, prima, degli Stati nazionali.
Tuttavia, agli Stati nazionali lasciò
tutte intere le politiche economiche
e fiscali, affidando la convergenza
necessaria per la stabilità dell’euro
al loro coordinamento. E fu così che
per questioni fra le più delicate
e importanti le sedi europee presero
a servire non per trovare insieme
soluzioni europee, ma per comporre
fra di loro i diversi interessi nazionali;
un cambio di passo e di fini del cui peso ci
si sarebbe resi sempre più conto
via via che tali interessi avrebbero
preso a divergere e a determinare vere
e proprie fratture.
Ma prima che questo accadesse
un’altra vicenda di canto e controcanto
va ricordata, quella imperniata
sulla Costituzione per l’Europa.
La Convenzione che l’avrebbe scritta
fu convocata in un momento nel quale
l’aspirazione federalista era ancora forte.
Nel maggio del 2000 il Ministro
degli esteri tedesco Joschka Fischer tenne
un discorso alla Humboldt University,
nel quale dichiarò esaurito il metodo
funzionalista del passo dopo passo
e disse che era giunto il momento
di tentare il passo finale, quello federale.
Il suo divenne, per la Convenzione,
un mandato non meno importante
di quello, peraltro ben più cauto,
del Consiglio europeo che la convocò
nel dicembre dello stesso anno.
Quello che tuttavia uscì
dalla Convenzione fu, insieme,
un Trattato e una Costituzione,
i governi ne vollero accentuare i caratteri
di Trattato e alla fine fu com’è noto
bocciato dai due referendum, francese
e olandese, del 2004. Ma per la storia
successiva quello che più conta
è che i suoi contenuti furono poi
largamente ripescati dal Trattato
di Lisbona, oggi vigente,
che negli articoli ne accoglie le novità
di maggiore integrazione,
ma nelle dichiarazione
e nei protocolli annessi, ribadisce
le competenze degli Stati
e il loro ruolo essenziale.
Canto e controcanto.
Quello che stava accadendo
era un lento e progressivo risveglio
delle diversità nazionali, evidentemente
non più assoggettate all’incontrastabile
primato delle ragioni europee.
Era un segnale importante, di cui
i vecchi europeisti
delle prime generazioni avevano colto
il significato. Kohl mi diceva:
«Facciamo presto, quelli che verranno
dopo non saranno europeisti come noi».
E aveva ragione. La forza dell’orrore,
del messaggio messianico dell’unità
contro la guerra stava ormai svanendo
dalle coscienze. Epperò, negli anni
dopo Maastricht il cammino sembrava
inalterato, nessuno contestava il primato
del diritto europeo, si andava
verso l’entrata in funzione dell’euro,
le fratture fra di noi erano di là da venire.
Poi è arrivata la crisi economico
finanziaria sono arrivati flussi più intensi
di immigrati proprio mentre diminuivano
anche da noi i posti di lavoro, è arrivato
il terrorismo. Ed ecco le fratture
fra di noi: prima la frattura Nord/Sud,
fra paesi economicamente
e finanziariamente forti
e paesi con alto debito pubblico,
che pesa sul funzionamento
dell’Eurozona e dell’Unione bancaria,
rendendo impossibile portarle
a compimento, giacché il rischio
da non correre è proprio la condivisione
dei rischi; poi la frattura Est/Ovest,
con alcuni paesi dell’Est
che hanno messo in discussione
il primato stesso del diritto europeo
e il rispetto della rule of law.
E sono fratture – si noti – dovute
non soltanto ai governi, ma a moti
di opinione pubblica sollecitati
da movimenti populisti,
che hanno giocato con successo
la carta antieuropea e del ritorno
alle sovranità nazionali. Quando
la paura c’è, diventa una formidabile
carta politica, che – come ha dimostrato
il referendum sulla Brexit –
ben può essere giocata contro l’Europa.
Certo si è che, in questa fase,
hanno preso piede torsioni identitarie
in chiave nazionalista, che hanno
rinfocolato identità anche culturali
sempre più contrapposte e sempre
meno disponibili alla composizione, ostili,
spesso, non solo agli immigrati
da paesi terzi, ma anche agli altri europei
(è per l’appunto il caso di Brexit).
Le conseguenze si vedono, non solo
nei paesi in cui quei movimenti
hanno conquistato la maggioranza,
ma anche negli altri, dove i partiti
più moderati, per il timore
di essere sbalzati di sella, fanno sempre
più proprie le istanze delle estreme.
Significa però questo che siamo tornati
al punto di partenza, in una sorta di gioco
dell’oca nel quale gli Stati, dopo un lungo
percorso, hanno effettivamente sconfitto
l’ideale stesso dell’Unione e aspettano
solo che si sgretoli? Penso proprio di no,
e lo penso per due ragioni.
La prima è che nel corso degli anni
le istituzioni europee hanno acquisito
un radicamento e una solidità in grado
di proteggere la loro legittimazione
e quindi la loro autorità, al di là
delle critiche corrosive che pure stanno
subendo da ultimo. Basti pensare
alla sfida alla rule of law, e quindi
all’Unione europea, lanciata
dalla Polonia con le sue leggi
sul pensionamento del giudici (a partire
da quelli della Corte costituzionale)
per sostituirli con giudici
di nomina governativa.
La Commissione ha deferito la Polonia
alla Corte di Giustizia e ci si chiedeva
se una eventuale decisione di condanna
sarebbe stata ottemperata. Ebbene,
è bastato un provvedimento cautelare
di sospensione perché il governo polacco
si adeguasse. L’autorità europea
è stata rispettata, così come,
in circostanze assai meno estreme,
la stessa cosa è stata fatta,
nei confronti della Commissione, dal
Governo italiano in tema
di indebitamento, dopo che era stato
minacciato il contrario.
Ma le istituzioni non solo stanno
reggendo, esse hanno anche dimostrato,
durante gli ultimi difficili anni,
di essere in grado di adeguarsi
e di innovare, fosse pure a pezzi e bocconi
e lasciando quindi aperte forti criticità.
Non dimentichiamo che siamo arrivati
alla crisi finanziaria che ha messo
in difficoltà l’euro, senza che nessuno
strumento fosse stato predisposto
per fronteggiarla. Ebbene negli anni stessi
della crisi si sono rafforzate le procedure
per prevenire i disavanzi eccessivi,
si è creato il meccanismo europeo
di stabilità per intervenire
nelle emergenze degli Stati e delle banche,
si sono fatti passi avanti
(a metà, lo so bene) nell’Unione bancaria.
Per non parlare
della Banca centrale europea,
che ha ora nella sua Santa Barbara
sia le OMT sia il QE, operazioni
entrambe battezzate dalla Corte
di Giustizia europea, nonostante
i dubbi tedeschi. Insomma,
gli antieuropeisti parlano, frenano,
deviano anche i corsi di azione europea.
Ma questa, in realtà, non si è mai fermata
e ha dimostrato, per ciò stesso,
che l’Unione, pur criticabile per eccessi
da un lato e per carenze dall’altro,
è comunque vitale e non ha mai cessato
di esserlo.
E arrivo alla seconda ragione
che mi porta a credere nel futuro europeo.
L’antieuropeismo che è cresciuto,
il sovranismo che lo alimenta
e che in più paesi ha gioco facile
nel far prevalere i suoi stereotipi
sull’ostile elitismo burocratico europeo
una cosa la dimostrano di sicuro:
la forza dell’originaria motivazione
europea si è spenta da tempo,
se ne è andata con le generazioni
che la portavano dentro di sé.
Il grosso di coloro che oggi fanno opinione,
come pure di coloro che le opinioni
le subiscono e le fanno proprie,
è costituito dalle generazioni ora adulte,
cresciute in Europa e che dell’Europa
non hanno avvertito l’impellenza etica,
né hanno avuto modo di confrontare
i benefici che essa ha portato
con l’assetto che la precedeva
(cominciano a rendersene conto ora
gli inglesi, alla vigilia della loro
sempre più probabile uscita).
Molti di costoro non sono antieuropei,
sono semplicemente lontani dall’Europa,
la vivono come un dato di fatto,
non come un valore, certo non come
una necessità. Per questo finiscono
facilmente per convenire con coloro
che antieuropei lo sono davvero.
Ma pesano davvero tanto e sono loro
il nostro futuro?
Intanto, leggendo le sequenze recenti
di Eurobarometro, impariamo
che l’opinione dei cittadini
di tutti gli Stati membri
a favore dell’Europa è in crescita,
supera ampiamente il 60%. Inoltre,
la critica più condivisa alle istituzioni
europee non è che fanno troppo
(anziché lasciare agli Stati), ma che
non fanno abbastanza. Si noti
che questo vale anche per gli italiani.
C’è poi ovunque una netta divaricazione
fra le generazioni più giovani
e quelle intermedie e più anziane.
Il favore per l’Europa è sempre
e invariabilmente più largo fra i giovani,
in misura tale da portare a concludere
che i giovani, specie quelli scolarizzati,
sono, in realtà, europeisti.
Perché lo sono? Perché, a differenza
delle generazioni che immediatamente
li precedono, essi hanno avuto
una formazione europea. L’hanno avuta
nella scuola primaria, che li ha abituati
alla multietnia e non alla chiusura
nazionale; l’hanno avuta negli studi
superiori, nel corso dei quali, Erasmo
o non Erasmo, hanno viaggiato
per tutta Europa creandosi amicizie
in altri paesi; l’hanno avuta dopo
gli studi, andando a lavorare altrove,
per periodi anche brevi, ovvero essendo
in contatto con loro amici
che l’hanno fatto. Insomma, la loro realtà
è europea e ne sono consapevoli.
Antonio Megalizzi era un esponente
esemplare di queste generazioni.
Non traggo da questa constatazione
alcuna conclusione deterministica.
Dico solo, al contrario, che,
pur consapevole dell’importanza decisiva
dell’originario messaggio messianico
per spingere le diversità nazionali
a comporsi nel processo di integrazione,
non ritengo che la sua perdita porti
con sé la fine di tale processo.
Non lo ritengo perché tra i frutti,
non sempre considerati, dell’integrazione
che comunque si è realizzata,
c’è stato il nascere di generazioni
che ne sono segnate, perché ne sono stati
segnati gli anni della loro formazione.
E allora, forse inaspettatamente
per alcuni, c’è un nuovo europeismo
che sta prendendo corpo. Diamogli
il tempo di assumere le redini.
È ben possibile che ritrovi il percorso
tracciato dai suoi progenitori.
La piccola speranza è tutta qui.
Ma non è poi tanto piccola,
se la sapremo coltivare.
Giuliano Amato - 21 gennaio 2019