In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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32. L'IRI, tra conservazione e privatizzazioni. Parte II
Quando il 29 aprile 1968, Aldo Moro pone la prima pietra dello stabilimento Alfa Sud a Pomigliano d'Arco, il commento di Gianni Agnelli, che interpreta quell'operazione come un atto di ostilità nei confronti della Fiat, è il seguente «Una pazzia … Un'operazione clientelare in grande stile, nient'altro». La storia confermerà la correttezza dei giudizi di Agnelli. Nel 1985, le perdite consolidate del gruppo Alfa Romeo sono pari a 1.685 miliardi e mettono in crisi la stessa controllante, la finanziaria dell'Iri, Finmeccanica, che, tra il 1979 ed il 1986, ha iniettato nell'Alfa Romeo ben 1.281 miliardi e, di questi, ben 615 nel biennio '85-'86.
Nel 1986, la Ford fa un'offerta per l'acquisto del gruppo automobilistico, ma il "partito" della Fiat riesce a contrastare l'operazione; il gruppo torinese offre 8.000 miliardi, tra prezzo d'acquisto, assunzione dei debiti e grossi investimenti per il rilancio. Il presidente di Finmeccanica, Franco Viezzoli, afferma che una comparazione tra l'offerta Ford e quella Fiat è difficilmente attuabile, cosicché la Fiat s'impossessa dell'Alfa Romeo.
Nella realtà l'Iri si trova nell'impossibilità di usare l'arma della concorrenza tra due contendenti, e la Fiat, pagando 1.750 miliardi a rate (meno 700 miliardi di debiti finanziari che si accolla l'Iri), si impossessa dell'ultimo marchio automobilistico italiano non ancora nelle sue mani. Nel 1995, secondo il ministro dell'industria Clò, la Fiat deve ancora pagare 470 miliardi di quel debito; i grandi investimenti per il rilancio del marchio non ci sono mai stati e la storica fabbrica di Arese, è, praticamente, chiusa (Pini, 2000).
Il passaggio della storica fabbrica dell'ing. Romeo dallo stato ai privati avrebbe dovuto segnare il rilancio di un marchio che negli anni sessanta e settanta era stato il sogno dei giovani di tutta europa, e non solo. Ma Fiat, in quei tempi, era una società privata solo di fatto, nella realtà, mantenuta perennemente sotto tutela dello stato e di Mediobanca, mai in grado di realizzare una politica industriale di ampio respiro. Il marchio Alfa Romeo, come quello altrettanto glorioso di Lancia, finirà per essere assorbito dal grigiore dei modelli Fiat e non verrà sfruttato come strumento di vantaggio competitivo e di rilancio di tutto il gruppo automobilistico. Bisognerà attendere la gestione Marchionne per vedere rilanciati i marchi Alfa Ropmeo e Lancia.
Un altro incubo per i bilanci dell'Iri è rappresentato dalla siderurgia. Sinigaglia, dal 1945 al 1953 presidente di Finsider (la solita finanziaria che controlla le società operative), si era posto l'obiettivo di fornire all'industria italiana l'acciaio di cui aveva bisogno, a bassi prezzi, anche nella convinzione che i privati non ne fossero in grado. Il Paese diventa uno dei massimi produttori di acciaio nel mondo, ma i faraonici progetti dell'Iri hanno fragili basi finanziarie e poggiano su un sistema produttivo antieconomico nel suo complesso. La principale società operativa, l'Italsider, nel 1970, ha debiti pari al doppio dei ricavi; nel 1981 viene ricostituito il capitale sociale bruciato dai debiti, con una rivalutazione dei cespiti pari a 2.500 miliardi.
Nel 1983, Prodi fa approvare un piano di risanamento che prevede un'iniezione di liquidità che, sommandosi a quella del 1981, porta, entro il 1985, al gruppo siderurgico la bella somma di 13.159 miliardi. Eppure, nel 1987, il gruppo perde ancora 100 miliardi al mese; tutti i paesi europei stanno, nel frattempo, riducendo la produzione siderurgica. L'assemblea dell'Iri, nel 1987, approva, sia il bilancio di Finsider, che chiude con 835 miliardi di perdite, sia la nomina di Lupo e Gambardella a presidente e amministratore delegato di Finsider. Il lavoro di Gambardella porta, in un anno, alla messa in liquidazione volontaria della Finsider, alla nascita dell'Ilva, all'emersione di migliaia di miliardi di perdite e alla polemica sulla sparizione delle stesse dai conti dell'Iri (Pini, 2000); nel corso della sua vita travagliata Finsider ha bruciato più di 25.000 miliardi di lire.
Ma il risanamento della siderurgia è scritto solo sulla carta, cosicché, come afferma Pini «le conseguenze sia degli errori che dei rimedi escogitati da Prodi andarono a ricadere sul suo successore, Franco Nobili».
Il bubbone della siderurgia esploderà ancora nel 1993, con un duro scontro tra il governo italiano e l'unione europea. In quell'epoca, tutti i governi dell'Ue hanno accettato, in cambio di cospicui aiuti al settore, tagli nella produzione, mentre l'Italia si oppone al processo di ristrutturazione. Le decisioni del governo italiano sono ostacolate, infatti, dalla grave crisi dell'Ilva che, dopo cinque anni dalla sua costituzione, si trova già gravata da novemila miliardi di debiti finanziari.
La Stet è la più ricca delle finanziarie dell'Iri, non solo perché controlla la Sip, l'azienda statale dei telefoni, ma, secondo la peggiore delle prassi monopolistiche, anche le aziende fornitrici della Sip, come l'Italtel e la Sirti. Nel 1985, la Fiat, che vuole rafforzare la propria presenza nel settore delle telecomunicazioni, propone la costituzione di Telit, dalla fusione tra la Telettra e l'Italtel. L'operazione non riesce perché l'Iri propone come amministratore delegato la Bellisario (a.d. dell'Italtel), sostenuta dallo Psi, e la Fiat ne vuole uno estraneo all'influenza dei partiti; nella realtà lo scontro verte su chi, Stet o Fiat, debba controllare la nuova società. Nel 1989 l'Italtel è venduta alla ATeT americana; nel quadro dell'accordo complessivo la Stet rileva dall'Iri il 26% del pacchetto azionario di Italtel per 440 miliardi. Nel progetto elaborato da Prodi e Fiat, l'Iri ne avrebbe incassati solo 210 (Pini, 2000). "Eppure Prodi è un uomo d'onore".
Nel 1946, nasce, per le pressioni di Raffaele Mattioli, presidente della Comit, Mediobanca; affermerà Antonio Maccanico «si trattava di far nascere un istituto speciale con il compito di aiutare la ricostruzione del sistema industriale del Paese, compito che la legge bancaria del 1936 precludeva agli istituti di credito ordinario». L'ambiente finanziario italiano vede con ostilità la nascita della banca di credito, quattordici banche interpellate si defilano, cosicché viene siglato un accordo solo con le tre banche in possesso dell'Iri (Comit, Credit e Banco di Roma), che diventano i soci di controllo della nuova banca.
Mediobanca si procura, attraverso le tre Bin (Banche di Interessa Nazionale), i mezzi per la raccolta finanziaria necessaria per operare come banca d'affari. Essa rappresenta un'anomalia del sistema bancario in quanto, è un'istituzione con una maggioranza di controllo in mano allo stato, al servizio degli interessi dei grandi industriali del Nord, grazie ai depositi delle banche Iri, ma operante in assoluta autonomia, come se fosse un soggetto privato, grazie alla sorveglianza del dominus della banca, Enrico Cuccia, che riesce a tenere i partiti lontani da Mediobanca.
Cuccia, come molti personaggi cresciuti all'ombra dei padri del partito d'azione, aveva un gran disprezzo per la politica vissuta come professione esclusiva.
Nel 1958, viene costituito un sindacato di controllo nel quale i privati, pur controllando solo il 6,25% delle azioni, hanno un diritto di veto sulle decisioni della maggioranza costituita dalle tre Bin. Nel 1984 Cuccia cerca di forzare la mano verso una maggiore privatizzazione di Mediobanca, cercando di vendere il 20% di azioni alla Banque Lazard; Prodi reagisce duramente, impedisce che Cuccia venga rieletto nel consiglio di amministrazione tra i consiglieri espressi dall'Iri, sostiene che mai l'Iri avrebbe rinunciato al controllo di Mediobanca, concede di vendere solo il 6% di azioni e fa scadere il patto di sindacato stipulato nel 1958. Seguono furiose lotte di palazzo, nei partiti e nei vari centri di potere; usando le parole di Massimo Pini «Era necessario a quel punto rivolgersi a un mediatore per sciogliere il nodo gordiano senza usare la spada di Gordio: in quell'ottica, il 16 marzo 1987, viene eletto presidente di Mediobanca Antonio Maccanico, nipote di Adolfo Tino» che ne era stato per trent'anni presidente.
Maccanico, anche lui cresciuto alla scuola dell'azionismo, porta Mediobanca alla privatizzazione entro un anno. Il 13 ottobre 1987, Maccanico presenta un piano, che dopo veti, interferenze politiche e relative modifiche, consente alle tre Bin con il 25% e al gruppo privato con un altro 25%, di costituire il sindacato di controllo, con il restante 50% delle azioni posto sul mercato. Nel novembre 1988, le plusvalenze realizzate dalle tre Bin assommeranno a 1.235 miliardi; dall'iniziale "provocazione" di Cuccia, che aveva tanto irritato Prodi, ne nasce quindi una delle rare operazioni che porta liquidità nelle casse dell'Iri.
Un'altra operazione che va citata è la prima utilizzazione della legge Amato sulle fondazioni bancarie. Il professor Capaldo, con la benedizione politica di Andreotti, adottando lo slogan "prendi tre, paghi due" riesce, con la fondazione della Cassa di risparmio di Roma, a sfilare all'Iri, con poca spesa il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma (Bragantini, 1996). Le due banche erano fonte di continue preoccupazioni finanziarie per l'Istituto. Prodi presenta una proposta di vendita che viene giudicata dal consiglio troppo favorevole al compratore e la proposta viene modificata, grazie alla valutazione dell'advisor Schroders. Comunque, anche a causa delle forti interferenze politiche intervenute nell'operazione, le due banche dell'Iri vengono svendute.
Eugenio Caruso - 25 marzo 2019