L'IRI tra conservazione e privatizzazioni. Parte III


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Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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33. L'IRI, tra conservazione e privatizzazioni. Parte III

Il 21 aprile 1988, il ministro delle partecipazioni statali, Fracanzani, invita i dirigenti delle aziende pubbliche a presentare le loro proposte per gli stanziamenti, da parte del tesoro, dei fondi di dotazione per il triennio '89-'91; le richieste sono di 3.000 miliardi dall'Eni e di 11.500 miliardi dall'Iri (senza contare gli oneri della reindustrializzazione delle aree ex siderurgiche, valutate 1.600 miliardi). Fracanzani si chiede come si concili la forte richiesta di fondi da parte dell'Iri, con i comunicati trionfalistici di Prodi e dei suoi amici che parlano di una gestione risanata; cosicché invia al presidente dell'Iri una nota nella quale chiede di essere informato preventivamente su tutte le iniziative di una certa importanza. Prodi risponde rivendicando l'autonomia di gestione dell'Istituto e il ministro, con una nota durissima, afferma che il ministro delle ppss è il solo responsabile nei confronti di governo e Parlamento «per tutto quanto attiene alla attività e alla gestione degli enti».
Nel 1989, al termine del prima presidenza Prodi, con le cautele suggerite dalla corte dei conti che afferma «l'attuale sistema contabile dell'Iri rende di non facile comprensione all'esterno l'interpretazione dei risultati economici», il bilancio dell'Iri segna un meno 2.416 miliardi (considerando anche le perdite transitate nel conto patrimoniale), il netto patrimoniale dell'Iri passa da 3.959 miliardi del 1982, a 2.102 miliardi, l'indebitamento dell'Istituto da 7.349 del 1982, a 20.873 miliardi (+184%); dei 28.500 miliardi, erogati dallo stato a titolo di fondo di dotazione dalla nascita dell'Iri, Prodi ne ottiene ben 17.500 (Geronimo, 2000). Ma quali sono, allora, i tanto decantati successi di Prodi all'Iri? E come mai «La stampa di informazione economica non si risparmiò nel diffondere urbi et orbi i trionfalistici comunicati dell'Istituto sul bilancio del 1988» (Pini, 2000), che chiudeva con una perdita di 1.403 miliardi? Solo Milano Finanza riporta le analisi di Mediobanca che mostrano come gli utili siano invece perdite.
Al termine del suo secondo mandato, Prodi lascia al suo successore, l'andreottiano Franco Nobili, una serie di gatte da pelare: dai nuovi fondi di dotazione solo promessi dal governo ma già impegnati, al problema della siderurgia, dai grossi crediti inesigibili di Fincantieri, Italstat e Italimpianti, ai grandi programmi di investimento già approvati senza nessuna copertura finanziaria. Quando Nobili tira le somme del bilancio del 1989 l'indebitamento del gruppo si rivela superiore al previsto e pari a 47.500 miliardi, nonostante che dal 1982 siano affluiti nelle sue casse fondi freschi per oltre 17.000 miliardi. Tra l'altro i tempi sono cambiati anche per le imprese di stato; Prodi aveva goduto del periodo d'oro della ripresa economica della seconda metà degli anni ottanta, senza essere stato capace di attuare i bellicosi propositi enunciati al suo insediamento. Ma, ora, il debito pubblico, dal quale avevano attinto a piene mani i manager delle aziende pubbliche, ha superato il 100% del pil e Andreotti annuncia tagli alla spesa. Arrivano all'Iri i fondi di dotazione, ma essi sono insufficienti per coprire la voragine di debiti, l'unica soluzione è mettere in borsa partecipazioni di minoranza di alcune imprese.
Nel febbraio 1989, Leon Brittan viene nominato commissario alla concorrenza nella Cee; egli cerca di imporre le sue idee, di stampo thatcheriano, e, nel suo mirino, mette in primo luogo le imprese pubbliche. Nel consiglio Cee del 15 ottobre 1990, Brittan contesta, alla radice, ogni forma di sovvenzione degli stati alle imprese, pubbliche o private; è il trionfo di una visione liberista che toglie agli stati il potere di politiche industriali difensive e anticoncorrenziali.
Per dare un segnale che, da quel momento, l'Iri si sarebbe finanziata con i propri cespiti, alla fine del 1991, Nobili decide di mettere in vendita la Cementir; l'asta viene vinta dal gruppo Caltagirone, per 480 miliardi e ciò significa una plusvalenza di 193 miliardi per l'Istituto.
Nel 1989, il Banco di Roma, da tre anni non distribuisce dividendi ed è un altro elemento di preoccupazione per Nobili: Andreotti, come già visto, diventa, pertanto, l'ispiratore della costituzione del grande polo bancario capitolino con la concentrazione della Cassa di risparmio di Roma, del Banco di Santo Spirito e del Banco di Roma e con la nascita di quella che verrà chiamata Banca di Roma.
Nello stesso periodo, Andreotti tenta un attacco insidioso contro Cuccia; per mettere lo gnomo di via Filodrammatici con le spalle al muro sarebbe stato sufficiente non rinnovare l'accordo che impegnava le tre Bin dell'Iri a vendere alla propria clientela certificati Mediobanca. La questione del rinnovo viene affidata al presidente del Banco di Roma, che fa slittare nel tempo la convenzione; ma Cuccia, nonostante gli ottantatré anni e pur essendo reduce da un'operazione chirurgica, affila le armi. La maggioranza del consiglio dell'Iri è favorevole al rinnovo, i repubblicani premono e Craxi si muove per crearsi un rapporto privilegiato con l'alta finanza; Nobili preferisce evitare uno scontro, che è prevalentemente politico, e, sia pure in extremis, la convenzione viene rinnovata.
Il 12 settembre 1991, Michele Tedeschi rivela che gli apporti dello stato all'Iri, ammontano (a moneta 1990) a 41.776 miliardi, dei quali 32.837 sono affluiti tra il 1980 e il 1985; tra il 1986 e il 1990 gli apporti dello stato sono stati di soli 2.147 miliardi, ma l'indebitamento dell'Istituto è aumentato di 20.000 miliardi. Giovanni Goria, infatti, ministro del tesoro di Craxi e grande amico di Prodi, aveva inventato un altro trucchetto: lo stato in sostituzione dei fondi di dotazione concede all'Iri, per legge, di emettere obbligazioni a tasso agevolato con rimborso a carico dello stato.
Ma l'epoca dei soldi facili è oramai agli sgoccioli, il 15 ottobre 1991, la corte dei conti dichiara illegittima la legge 42/91 che legittima la concessione dei fondi di dotazione, poiché, l'articolo 81 della costituzione, cita «Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Andreotti cerca di dare una mano a Nobili, ma le elezioni incombenti non consentono di tradurre in legge una modifica della 42/91, che avrebbe permesso di aggirare l'ostacolo posto dalla corte dei conti. I fondi arriveranno, nel 1993, con Prodi nuovamente alla presidenza; afferma Pini «… a conferma che gli uomini della sinistra democristiana mantenevano un tocco magico ineguagliabile con le casse dello stato».
Nel 1991, Nobili, provenendo dal settore dei grandi lavori, elabora il progetto di fusione tra Italstat e Italimpianti, entrambe in situazioni desolanti, pensando di produrre delle sinergie; la nuova società Iritecna eredita, però, 382 miliardi di perdite da Italstat e 303 miliardi da Italimpianti. La fusione, invece di creare i vantaggi dello scaling up, crea gli svantaggi delle sovrapposizioni, i due amministratori delegati decidono, infatti, autonomamente senza alcun coordinamento. Nel giugno 1992, a causa di ben 1800 miliardi di crediti a rischio delle passate gestioni, l'indebitamento di Iritecna è aumentato di altri 500 miliardi. Ma proprio da Iritecna arrivano le frecce avvelenate contro la gestione Nobili. Tutto parte da un'interrogazione parlamentare di Castagnetti, braccio destro di De Mita in Emilia Romagna, su Italsanità, una piccola società di Italstat, che si occupa di residenze per anziani. La stampa economica parla di lotte di potere all'interno della Dc tra sottocorrenti del gruppo degli andreottiani. La successiva inchiesta della magistratura mette, invece, in luce lo scandalo dei "vecchietti d'oro", che porta a molti arresti e tra questi anche a quello di Nobili (successivamente dichiarato estraneo alla losca vicenda) e alla rimozione di Nobili stesso dalla presidenza dell'Iri. Il processo di Roma mette in evidenza il livello di degrado delle ppss, con un intreccio di complicità tra partiti, magistrati, finanzieri senza scrupoli, capaci di attingere a piene mani nei fondi dello stato, e dirigenti delle ppss in combutta con loro.
Il 1 ottobre 1991, Guido Carli, ministro del tesoro del governo Andreotti VII, illustrando la legge finanziaria per il 1992, indica tre indirizzi programmatici, contenere la spesa per il personale pubblico, contenere la spesa previdenziale e sanitaria, avviare la vendita di imprese pubbliche; lo stato si ripromette di incassare, nel 1992, da questa voce circa 15.000 miliardi. Con l'annuncio di un decreto legge per la trasformazione in spa degli enti pubblici economici e di un disegno di legge per l'abolizione del ministero delle ppss, Andreotti, secondo Eugenio Scalfari, «arrivato il momento di guadare il fiume, ha abbandonato Cirino Pomicino ed è salito a cavalcioni sulle spalle di Carli», in nome di «una politica del rigore che è stata l'ultima piroetta di questo espertissimo giocoliere». Chi non ha voglia di scherzare, è piuttosto interessato ai calcoli del professor Scognamiglio: risulta che i fondi versati dallo stato alle ppss, a tassi di interesse corrente e a moneta 1990, assommano a lire 245.000 miliardi (un quarto del debito complessivo dello stato), dei quali 100.000 erogati negli ultimi dieci anni.
Amato, salito al governo il 28 giugno 1992, mette i partiti (in quel momento più impegnati a seguire faccende giudiziarie che problemi economici) davanti al fatto compiuto del decreto legge 333 dell'11 luglio 1992, che prevede la trasformazione di Iri, Eni, Enel e Ina in spa e la liquidazione dell'Egam. I consigli di amministrazione vengono azzerati e composti da tre sole persone, il presidente uscente, un dirigente ministeriale di nomina del tesoro e un amministratore delegato scelto tra i direttori generali; una sorta di gestione commissariale diretta dal ministero del tesoro. All'Eni, presidente rimane Gabriele Cagliari e alla poltrona di amministratore delegato approda Bernabè, all'Iri, il presidente Franco Nobili viene affiancato da Michele Tedeschi, all'Enel, il presidente Franco Viezzoli lavorerà in tandem con Alfonso Limbruno e all'Ina, Lorenzo Pallesi lavorerà con Mario Fornari. I media parlano di privatizzazioni, della fine dei finanziamenti alle imprese pubbliche, di colpo di mano, ma in realtà, al momento, si tratta del passaggio degli enti pubblici, dalla forma giuridica pubblica a quella privata, con l'unico immediato risultato che lo stato non potrà più servirsi delle ppss per finalità sociali. Il 18 luglio, con decreto legge 340, il governo mette in liquidazione l'Efim, le cui controllate passano all'Iri. Inoltre il governo congela, per due anni, i debiti del gruppo, compresi quelli esteri, sollevando lo sdegno del mondo economico internazionale e facendo declassare il debito dell’Italia da AA1 a AA3 da parte dell'agenzia di rating Moody's. Lo stesso Amato ammetterà, nel 1993, «È stato grave, da parte mia, prendere quella decisione che ha sconquassato la credibilità internazionale dell'Italia e della lira».
La trasformazione degli enti da diritto pubblico a diritto privato non significa, automaticamente, che lo stato non potrà più intervenire a sostegno delle imprese; infatti, anche i privati hanno sempre beneficiato di finanziamenti pubblici. A titolo di esempio, durante la permanenza di Cirino Pomicino alla commissione bilancio, le imprese private hanno beneficiato di almeno 10.000 miliardi di finanziamenti e di questi 3.000 sono andati alla Fiat per lo stabilimento di Melfi.
Nel rapporto del ministro Barucci ad Amato, il programma di riordino di Iri, Eni, Enel, Imi e Ina privilegia l'ipotesi della costituzione di nuclei stabili di controllo delle imprese pubbliche da privatizzare contro l'ipotesi della public company sostenuta da tutta la sinistra e dai sindacati. Il primo obiettivo del tesoro è la privatizzazione delle banche, «esse possono essere cedute senza provocare crisi occupazionali»; le camere chiedono un aggiornamento al marzo del 1993 del programma proposto dal tesoro e si limitano a notare la mancanza di un progetto di politica industriale che sottenda il processo delle privatizzazioni nel loro complesso.
Nell'aprile '93, si insedia al governo Carlo Azeglio Ciampi, che, al convegno I Nobel a Milano, afferma che i mali d'Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione. «Assieme, queste tre rigidità - afferma Ciampi - hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere - favorendo in tal modo l'inquinamento da corruzione - e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell'azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell'economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti». I politici nostrani mostrano sempre una grande capacità nell'individuazione delle cause delle anomalie della nostra economia, come se tali anomalie siano da attribuirsi, solo, ad altri e non in parte anche a se stessi.
Il Ciampi governatore della Banca d'Italia aveva inviato frequenti messaggi ai politici circa la sua contrarietà che le banche entrassero nel processo di privatizzazione degli enti pubblici, ma ora il Ciampi capo del governo può essere di avviso contrario. D'altra parte, a fine 1992, le sofferenze bancarie ammontano a circa 38.000 miliardi, ciò significa che le industrie debitrici non sono in grado di restituire i crediti ricevuti dalle banche; l'unica via d'uscita è quella di trasformare i crediti inesigibili in azioni. Ciampi, l'11 giugno 1993, abolisce il divieto della legge bancaria del 1936, cosicché le banche, ora, possono controllare fino al 15% del capitale di ogni impresa. Ma le stesse banche sono perplesse perché si trovano davanti a un panorama disastrato di grandi debitori, cosicché, per stabilizzare la situazione, il 10 giugno, la Banca d'Italia invia a tutto il sistema creditizio una circolare in base alla quale i prestiti a Iri, Ina, Eni ed Enel vengono definiti a rischio zero essendo garantiti dallo stato.
Il 30 giugno, Ciampi nomina un comitato di consulenza per le privatizzazioni, presieduto da Mario Draghi. Per Enel, Ina, Imi, Stet, Agip, Comit e Credit si dovrebbe procedere subito alla privatizzazione, previa la costituzione di nuclei stabili. Ai primi di agosto, la commissione arriva alla conclusione che le banche debbano avere la precedenza. Intanto si prepara uno scontro tra il ministro dell'industria, Paolo Savona e Romano Prodi, tornato alla testa dell'Iri. Il primo è favorevole alla costituzione dei "noccioli duri" alla francese, mentre Prodi è favorevole alla public company. Le dimissioni di Ciampi, il 13 gennaio 1994, pongono fine alla querelle.
Con il ritorno di Prodi all'Iri, riprende anche il flusso monetario: 2.100 miliardi di crediti di imposta, vanamente sollecitati da Nobili, 3.000 miliardi per la siderurgia, che Prodi aveva già impegnati nel lontano '87, e infine la possibilità, concessa all'Iri, di sostituire i debiti verso le banche con un importo, presso la cassa depositi e prestiti, fino a 10.000 miliardi di obbligazioni emesse dal tesoro e sottoscritte dall'Iri, che avrebbe restituito capitale e interessi con i proventi delle privatizzazioni.
Data la necessità di produrre liquidità, nel settembre 1993, l'Iri affida alla Lehman Brothers l'incarico del collocamento in borsa delle azioni della Comit e alla Goldman Sachs (della quale Prodi era consulente prima di far ritorno all'Iri) delle azioni del Credit. Sotto le acque limacciose degli intrecci tra politica ed economia si svolgono le grandi manovre tra chi opta per il nocciolo duro e chi per la public company; degno di nota un intervento di Giorgio La Malfa che afferma «Al professor Prodi non riconosco alcun titolo di privatizzatore di aziende, e tantomeno, di risanatore dell'Iri. Quel che gli riconosco è invece un preciso ruolo politico: il presidente dell'Iri non è un tecnico, ma un fior di democristiano. La spartizione continua». Ciampi impone, per la vendita delle banche, al fine di evitare la costituzione di un nucleo di controllo, il limite del 3% al possesso azionario per ogni soggetto.

 

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Eugenio Caruso - 3 aprile 2019



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