In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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34. Procedono le privatizzazioni degli anni novanta
Prodi prosegue l'azione di Nobili volta alla vendita della Sme, che era stata smembrata; deve essere venduta la Cbd (Cirio-Bertolli-De Rica), gruppo valutato, nel marzo '93, dal Credito Italiano tra i 900 e i 1.350 miliardi. Prodi convince il consiglio di amministrazione di abbandonare la strada dell'asta competitiva, sulla quale si stava muovendo Nobili, e di procedere per trattativa privata. La finanziaria lucana di Saverio Lamiranda, la Fisvi, infatti, si è fatta avanti offrendo 310 miliardi per il 62,12% delle azioni possedute dall'Iri. Nonostante il basso prezzo, sembra difficile che la Fisvi possieda i 310 miliardi offerti, più i 200 miliardi per l'opa sul resto delle azioni. Secondo il Corriere della sera del 13 ottobre 1993, «La voce insistente è che la Fisvi abbia l'appoggio di potentati politici, più esattamente della sinistra democristiana campana». In realtà la Fisvi, prima di fare l'offerta per tutto il gruppo Cdb, aveva organizzato la vendita, della Bertolli alla Unilit, con il consenso del consiglio di amministrazione dell'Iri, per la somma di 253 miliardi. Il contratto di vendita della Cdb impegnava la Fisvi ad assicurare la continuità produttiva del gruppo, nel suo insieme, ma di fatto l'Iri aveva acconsentito che la Fisvi smembrasse il gruppo prima ancora di averlo pagato; Cirio e De Rica finiscono, successivamente, nelle mani del finanziere Sergio Cragnotti. L'operazione, che presenta molti lati oscuri, è anche inquinata dal fatto che Prodi, dal 1990 al 1993, è stato membro dello staff dirigenziale che decide le strategie di acquisizioni della Unilever. Secondo il perito del sostituto procuratore Geremia, che aveva aperto un procedimento penale nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione dell'Iri, «È innegabile, e documentato, che la Unilever e la Unilit (la filiale italiana) hanno inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l'Iri e gestito l'acquisto del settore olio (la Bertolli) in epoca precedente alla stipula del contratto definitivo fra Fisvi e Iri». Secondo il perito, se l'Iri avesse fatto da sola l'operazione concessa alla Fisvi, vendere cioè separatamente le tre società del gruppo, avrebbe potuto incassare 700 miliardi. Il 22 dicembre 1997, il gip Eduardo Landi non concede il rinvio a giudizio di Prodi, che ha finalmente realizzato il sogno agognato fin da studente, diventare presidente del consiglio (Pini, 2000). Prodi è sempre stato molto vicino ai poteri finanziari mondiali Goldman Sachs, Unilever, George Soros, il grande speculatore sulla lira, ma Prodi è un uomo d'onore e antepone sempre gli interessi del Paese a quelli dei potentati finanziari.
Il 18 aprile 1993, gli italiani sono chiamati alle urne per decidere, con voto referendario, delle sorti del ministero delle partecipazioni statali e ne decretano la fine; non molti, probabilmente, al di là della voglia generalizzata di cambiamento, hanno capito che quel voto segna una data storica per l'economia del Paese.
Nel dicembre 1993, si procede alla vendita del Credito Italiano, che, nelle intenzioni di Prodi, dovrà diventare una public company. Il prezzo di vendita per azione viene stabilito dalla Goldman Sachs a 2.075 lire per una valutazione della banca pari a 2.700 miliardi, contro la valutazione di 8/9.000 miliardi fatta da Merrill Lynch, all'epoca di Nobili. Per Cuccia è un gioco da ragazzi mettere insieme un gruppo di investitori, che, sommando il 3% delle azioni di ciascuno, acquisiscono il controllo della banca. Si realizza pertanto il tanto deprecato nocciolo duro che non è costretto, però, a pagare il premio di maggioranza e non è tenuto all'obbligo dell'opa.
Per la Comit, Prodi e il presidente della banca, Siglienti, escogitano il collocamento delle azioni a Wall Street, per cercare di realizzare, questa volta, una vera public company e aggirare l'ostacolo Cuccia. Ma Ciampi spinge per accelerare i tempi e vendere la banca prima delle elezioni del 27 marzo '94. Le azioni vengono cedute sul solo mercato nazionale e, come il Credito, anche Comit risulta, alla fine, controllata da azionisti amici di Mediobanca. Successivamente, Siglienti commenterà «Due sono le versioni sempre circolate: il presidente dell'Iri era d'accordo con Cuccia; Prodi era ingenuo o qualcosa di più … Io propendo per la seconda interpretazione». Indubbiamente fu un fatto positivo che le banche vedessero la costituzione di un nucleo di azionisti di riferimento coordinati da Mediobanca, quello che il cittadino non può accettare è che due gioielli del sistema bancario italiano siano stati ceduti per poco più di 1.000 miliardi, con una perdita secca di diverse migliaia di miliardi per le casse dello stato. Tra l'altro, in seguito, sia Credit che Comit si mostreranno poco acquiescenti ai voleri di Mediobanca e seguiranno ciascuna un destino diverso, la prima dando luogo a Unicredito e la seconda entrando nel gruppo Intesa Bci.
Nonostante l'ottimismo che Prodi riversava quotidianamente attraverso i media, al 31 dicembre 1993, la massa dei debiti del gruppo raggiunge la cifra di 75.000 miliardi, contro un patrimonio netto di 20.000 miliardi; all'endemica crisi finanziaria si somma, inoltre, il peggioramento del conto economico, a causa della vendita delle aziende che producevano utili. Dopo la vittoria del centro destra, il 27 luglio 1994, Prodi viene sostituito da Michele Tedeschi, un dirigente con 35 anni di anzianità nell'Istituto. Nei confronti di Berlusconi peserà il sospetto di un'eccessiva acquiescenza verso le posizioni di Alleanza nazionale, nella quale Pietro Armani, ex vice presidente dell'Iri, il sottosegretario al bilancio Antonio Parlato e il vice-presidente del consiglio Tatarella non erano certamente fautori delle privatizzazioni. Tedeschi resta, comunque, fedele al suo azionista, il ministro del tesoro Lamberto Dini, ma soprattutto a Mario Draghi che vuole proseguire la politica di privatizzazioni iniziata dal suo mentore, Guido Carli. Tedeschi, durante i governi Dini e Prodi, avvia la vendita di centinaia di piccole aziende, smantella la siderurgia, vende al tesoro la partecipazione Iri nella Stet per 14.530 miliardi e manda a casa Fabiano Fabiani, padre-padrone di Finmeccanica. La finanziaria, nonostante controlli aziende ad alta tecnologia, come Alenia, Agusta, Ansaldo, Hartman and Braun, Mannesmann, Elsag Bailey, continua ad accumulare debiti.
Il 24 gennaio 1997, il tesoro licenzia Biagio Agnes ed Ernesto Pascale e mette a capo di Telecom Italia, Guido Rossi. Nell'ottobre del '97, il tesoro decide la privatizzazione del colosso telefonico con un'offerta pubblica e con la costituzione di un nucleo stabile di controllo (Ifil, Credit, Imi e Generali), che detiene l'8% delle azioni; i media insinuano che la Fiat voglia impossessarsi di Telecom, detenendo solo lo 0,6% del capitale. Nel giugno 1997, Prodi, da primo ministro, sostituisce, alla testa dell'Iri, Tedeschi con Gian Maria Gros-Pietro (dal 1995 vice presidente del comitato scientifico di Nomisma), al quale Prodi affida il non facile incarico di liquidare l'Iri in un triennio e di rimodellare, attraverso le privatizzazioni, un capitalismo nazionale; la tentazione di pianificare e programmare è un virus che non abbandona mai i democristiani di sinistra. Alla fine del '99, Gros-Pietro viene trasferito al vertice dell'Eni e Gnudi lo sostituisce, portando alla definitiva liquidazione dello storico Istituto.
Con la scomparsa dell'Iri si sono alzate molte voci a difesa dell'Istituto, non solo e in quanto ente che si era sobbarcato oneri sociali impropri, ma proprio per la sua validità economica. Nella realtà, quando sono state messe sul mercato aziende ex ppss, delle quali l'investitore aveva la garanzia che fossero del tutto uscite dal controllo statale, allora i risparmiatori hanno fatto la fila alle banche; nei casi in cui la realtà ha mostrato il contrario, il mercato le ha penalizzate. Il conto economico finale dell'Iri è tornato in equilibrio quando si è creata la condizione virtuosa della vendita delle sue aziende al tesoro, in attesa del collocamento sul mercato, e quindi della completa privatizzazione. Se i risparmiatori non avessero visto questo passaggio il valore delle aziende vendute dall'Iri non sarebbe stato quello di mercato, ma quello risultante da gestioni perennemente inefficienti e inefficaci. Le privatizzazioni hanno, di fatto, dato una nuova vitalità ad aziende decotte, hanno permesso una risveglio della borsa e tolta la spina dal cuore economico del Paese, i debiti dalle partecipazioni statali.
È ovvio che coloro, e furono tanti, che, dall'esistenza delle partecipazioni statali, traevano benefici economici ingiustificati, sviluppavano carriere impensabili nel libero mercato, senza dover dar conto degli errori, potevano esercitare impunemente lo sciacallaggio economico, bene, costoro e alcuni, pochi, idealisti, saranno sempre tenaci difensori del valore dell'impresa di stato.
Come quasi sempre accade, esiste sempre un'eccezione che conferma la regola; la Sgs Ates è un'azienda dell'Iri che produce microchip e debiti. La Stet, che controlla la Sgs, affida a un "cacciatore di teste" l'incarico di trovare un nuovo numero uno per l'azienda. Viene individuato in Pasquale Pistorio, un siciliano responsabile delle attività internazionali della Motorola; ancora una volta quel serbatoio di competenze che sarebbe dovuta essere l'Iri, non è in grado di sfornare un manager di buone qualità. Pistorio, in quasi vent'anni, senza clamori e senza farsi condizionare dai partiti, conclude una fusione con la francese Thompson, un'altra azienda pubblica in cattive acque e crea la St-microelectronics, una multinazionale che scala i vertici delle classifiche mondiali dell'altra tecnologia: Pistorio afferma di aver puntato su tre semplici principi, realizzare prodotti competitivi, fare profitti e creare uno spirito di gruppo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti la St alle borse di Milano, Parigi e New York, nel 2000, capitalizza più di 100.000 miliardi di lire.
Eugenio Caruso - 15 aprile 2019