La privatizzazione dell'ENI


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"

Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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35. La privatizzazione dell'Eni

Il 3 agosto del 1992, l'Eni dice addio alla Giunta, longa manus dei partiti, il consiglio di amministrazione è costituito da Cagliari, presidente, Ammassari, del ministero dell'industria e Bernabè, il più anziano in servizio dei sette direttori centrali; Cagliari deve piegarsi alle direttive del governo e cedere le leve del comando a Bernabè, a suo tempo voluto in Eni da Reviglio.
Il nuovo amministratore delegato dell'Eni si trova a dover sbrogliare una matassa di ben 335 aziende, per lo più in perdita e operanti nei settori più disparati e partire con un rosso di bilancio, nell'esercizio '92, di oltre 800 miliardi. Bernabè ha, però, in mente un progetto ben chiaro di privatizzazione; tagliare tutto ciò che non ha niente a che vedere con il core business dell'azienda (petrolio e chimica) e portare sul mercato l'Eni nella sua interezza e non le varie controllate, come auspicato dal management di queste. Il processo di privatizzazione dell'Eni trova ostacoli enormi; dirà lo stesso Bernabè «Perché la presunta irrealizzabilità del processo di privatizzazione era quasi un elemento scritto nel dna di politici e manager. Era nella loro mappa genetica considerare il sistema pubblico come qualcosa di inattaccabile» (Roddolo, 2000).
Con fatica, con determinazione e con la consulenza degli advisor Merrill Lynch, Ubs e FinComit, Bernabè avvia il percorso delle dismissioni delle aziende non strategiche o patologicamente in crisi; prima le minori, poi, man mano, imprese più importanti, affrontando, di volta in volta, discussioni infinite sul ruolo strategico o no dell'impresa da dismettere, con il fronte compatto del management interno. Ricorderà Bernabè «Stavano combattendo ferocemente contro di me, ma soprattutto contro la privatizzazione che metteva in discussione il meccanismo di legittimazione del loro potere e cioè il rapporto con la politica.
La svolta per il processo di privatizzazione in Eni sarebbe venuta con tangentopoli, che difatti avrebbe eliminato i maggiori ostacoli al cambiamento. Alla luce dei risultati delle indagini e dei successivi processi diventarono, infatti, più chiari a tutti, anche a quelli che legittimamente avevano dei dubbi, i veri motivi della resistenza al rinnovamento. E sono convinto che mani pulite si possa a ragione considerare il momento di svolta anche per un altro motivo. Dopo il ciclone tangentopoli, il sistema politico non vorrà, infatti, e in alcun modo, mettere le mani nell'Eni. Cercherà, al contrario, di dissociarsi completamente dal "cane a sei zampe" per non rischiare di essere coinvolto in quanto stava accadendo. Per lasciare, insomma, al management la piena responsabilità.
Se il pool di Milano mette sotto scacco i reali centri di comando dell'Eni, Bernabè cavalca l'onda dello sconquasso per effettuare un drastico rinnovo dirigenziale, allo scopo di operare liberamente sui fronti del recupero di efficienza, delle dismissioni e della privatizzazione. Il risultato è che, in meno di un anno, l'Eni viene alleggerita di novanta società e di 350 posti di consigliere d'amministrazione.
Nel 1994, Bernabè viene duramente attaccato da Tatarella (vice presidente del consiglio del governo Berlusconi) che ne chiede le dimissioni (l'Msi è contrario alle privatizzazioni perché vede allontanarsi quel modello corporativo che più si avvicina all’economia dello stato fascista). Ma i risultati positivi che iniziano ad evidenziarsi (nel '94, per la prima volta nella sua storia, l'Eni realizza 2.500 miliardi di utile netto) mettono Bernabè al sicuro dagli attacchi politici strumentali. Ricorda Bernabè «Le pressioni perché mi dimettessi, dopo il cambio di governo, erano fortissime. Ma era evidente che se io mi fossi dimesso perché era cambiato il governo avrei dato un segnale chiaro e inequivocabile che l'Eni rimaneva una società delle partecipazioni statali. Al contrario, volevo a tutti i costi riaffermare il principio che l'Eni era ormai una società dove la natura privatistica non era un fatto puramente formale» (Roddolo, 2000). Lo stesso segnale non lo daranno Romano Prodi e Claudio Demattè, che, con il governo di centro destra, si dimetteranno, rispettivamente, dall'Iri e dalla Rai.
Con il governo Dini, il 28 novembre '95, viene messa sul mercato la prima tranche di azioni Eni, pari al 15% dell'intero pacchetto azionario a 5.230 lire per azione; a fine anno l'utile netto è di 4.327 miliardi e le società dismesse sono diventate 140. Con il governo Prodi, nell'ottobre '96, viene fatta un'offerta pubblica di vendita per un altro 16% di azioni; l'anno si chiude con un utile netto di 4.450 miliardi e le società dismesse dal gruppo hanno raggiunto quota 230.Nel luglio '97, con la terza tranche (a 9.288 lire per azione per i sottoscrittori), restano in mano del tesoro il 51% delle azioni. Nel giugno del '98, con la vendita della quarta tranche (a 11.430 lire per azione) il pacchetto in mano allo stato scende al 35%, quota più che sufficiente per detenerne il controllo; l'utile netto è di 4.502 miliardi e raggiunge la quota record di 5.538 miliardi nel '99. La cura intensiva praticata da Bernabè e la lontananza dal cane a sei zampe dei maneggioni della politica hanno dato risultati più che buoni, anche se resta un po' deprezzato il valore del titolo per la presenza dello stato come azionista di maggioranza.

 

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Eugenio Caruso - 2 magio 2019



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