In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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36. L'inchiesta mani pulite. Parte I
Nell'estate del 1993, divampano le polemiche sull'inchiesta mani pulite, che sta facendo luce, tra l'altro, su Enimont e sulla maxitangente da 150 miliardi (entrata nel lessico giornalistico col nome di "madre di tutte le tangenti"), pagata per assicurare ai Ferruzzi una sopravvalutazione di Enimont nell'operazione di vendita della quota Montedison all'Eni.
L'inchiesta ha chiamato in causa i più bei nomi della finanza, della politica, dell'imprenditoria pubblica e privata. Quando Di Pietro concluderà la sua requisitoria sul processo Enimont affermerà, nel suo caratteristico dipietrese «Innanzitutto è vero che in occasione della campagna elettorale diversi gruppi industriali versarono denaro, ed è vero che anche la Montedison-Ferruzzi versava denaro. È vero che lo ha fatto ripetute volte anche in passato. È vero … che non solo il partito socialista, ma tanti altri partiti, prendevano denari dalle imprese. E questo da quando? Da quando avevano i pantaloni alla zuava. Negli enti pubblici vengono collocati, come membri dei consigli di amministrazione, soggetti che hanno loro sponsor e loro referenti politici, i quali vengono messi in quei posti affinché, oltre a occuparsi della parte nobile, si occupino anche di quella meno nobile: portare denaro alle casse del partito, affinché il partito possa sempre più coltivare la propria immagine, e quindi emergere e avere maggior rilievo nella società, nei voti, e quant'altro. Insomma, alla fine, una democrazia che viene comprata, o venduta».
Il pool del tribunale di Milano, con il procuratore Saverio Borrelli e il nucleo storico dei pm Di Pietro, Davigo e Colombo, sono i pionieri di un'applicazione pragmatica della giustizia. Si assiste a un'interpretazione flessibile della carcerazione preventiva e allo spostamento del centro di gravità del processo dal dibattimento, come luogo deputato alla verifica delle ragioni dell'accusa e della difesa, alle indagini preliminari, che rappresentano la fase più autoritaria di tutto il procedimento. Il pool di Milano, grazie a queste interpretazioni "flessibili" del codice e all'ampio consenso popolare, sta lentamente dipanando il bandolo della collusione tra partiti, imprese, governo e sottogoverno, e, per la prima volta nella storia della repubblica, sta mettendo sotto accusa personaggi ritenuti intoccabili.
Craxi tenta un affondo contro il pubblico ministero Di Pietro, accusandolo di oscure trame e preannunziando «assi nella manica» e rivelazioni esplosive, che, però, non arrivano; parla di «caccia alle streghe», ma i suoi attacchi e le sue accuse non trovano più, né un'opinione pubblica disposta ad ascoltarlo, né i poteri politico e istituzionale in grado di sostenerlo. Assicura di essere oggetto di persecuzione politica, ma, quando alla Camera, è chiamato a difendersi contro l'autorizzazione a procedere per concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti, affermerà «In quest'aula, e di fronte alla nazione, penso che si debba usare un linguaggio improntato alla chiarezza. All'ombra di un finanziamento regolare ai partiti fioriscono e s'intrecciano casi di corruzione e di concussione che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. Se gran parte di questa materia dev'essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale». Anche l'ammissione del 3 luglio '92 alla Camera «tutti sapevano, tutti tacevano» è un atto di accusa ma è anche una piena confessione.
Di Pietro, quest'uomo che è entrato in seminario da ragazzino, che ha fatto l'operaio in Germania, l'impiegato, il poliziotto e infine il magistrato, che ama la mitologia e Ulisse, ha assunto una funzione mitopoietica nell'immaginario collettivo degli italiani, è diventato l'eroe che, con la daga della legge, scaccia i corrotti che si sono impossessati dello stato, i politici, che hanno ridotto i cittadini a sudditi. Di Pietro durante i dibattimenti «usa un linguaggio rude, da contadino e da poliziotto insieme, evita le sottili formule giuridiche, va sempre al sodo, si presenta come il paladino della legge contro i marpioni della politica. La sua ingenuità è un po’ ostentata; ambiziosissimo, aveva intrecciato legami con la Milano da bere dei socialisti ed era incorso in qualche sbadataggine: ma conquistò vastissime simpatie e divenne l’uomo di punta del pool guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. (Montanelli, 2000).
I giornalisti della grande stampa e della televisione, dopo l'unanimismo iniziale, quando nessuno poteva immaginare che l'iniziativa dei magistrati milanesi fosse qualcosa di più del solito polverone, destinato presto a diradarsi, se da una parte dànno risalto alle iniziative dei giudici, che colpiscono ora un personaggio di uno schieramento ora quello dell'altro, mostrano un'inossidabile propensione alla difesa d'ufficio del regime, cui devono gloria e successo. I giornalisti si avvitano su se stessi, combattuti da due forze antagoniste, da una parte la necessità di inseguire lo scoop o l'audience e sbattere in prima pagina o in apertura di telegiornale l'indagato di turno, sottoposto a una sorta di rito giustizialistico, dall'altra la paura che un'eccessiva dose di "rivoluzione" possa intaccare situazioni consolidate di potere o rompere quella catena di amicizie e di compromessi che li ha portati al successo. Molti temono di dover sbattere in prima pagina, prima o poi, il “personaggio” che li ha aiutati nella loro carruiera.
La gente comune si rende conto che, attenendosi al puro codice di procedura penale, che prevede la carcerazione preventiva come extrema ratio, la magistratura sta operando ai limiti della legalità, ma, davanti ai gravi episodi di corruzione, che investono le più alte personalità dello stato, dell'imprenditoria e dei partiti, accetta che vi possano essere deroghe alla stretta osservanza delle regole, specie se queste deroghe sembrano poter essere la base per un'incruenta rivoluzione politica nel Paese.
Di Pietro, nel suo diario, fa alcune considerazioni che è interessante analizzare; dall'85 al '92, presso il tribunale di Milano alcuni magistrati, dopo aver lavorato in inchieste come Lombardia Informatica, le carceri d'oro, le patenti facili giungono alla conclusione che ogniqualvolta s'indaga sulla pubblica amministrazione esce qualcosa di illecito (Di Pietro, 2000). Non si riesce mai a stabilire un quadro d'assieme, ad «accendere il motore» di «tangentopoli, la città virtuale, fatta di malaffare, di lottizzazioni, raccomandazioni e voti di scambio, dove la gestione della politica è finalizzata agli interessi personali o di parte, piuttosto che agli interessi generali». Si incrimina questo o quell'assessore, ma tutto resta circoscritto. Finché, Di Pietro (abile nell'investigazione), Davigo (competente sul fronte degli atti giudiziari) e Colombo (esperto di illeciti amministrativi) elaborano una strategia nuova: indagare presso le segreterie di partito, dal lato politico, e partire dal falso in bilancio e sui fondi neri che le imprese accantonano per lubrificare la macchina amministrativa, dal lato degli imprenditori. Inoltre, negli ultimi anni, sono stati introdotti strumenti operativi che agevolano il lavoro dei pm: la convenzione di Strasburgo, del '91, consente ai magistrati di contattare direttamente i colleghi stranieri, saltando il livello politico, l'articolo 648 bis consente di effettuare rogatorie non solo su corrotti e corruttori, ma anche su coloro che agiscono da tramite, e di arrivare quindi a banche e banchieri. Tra gli strumenti extragiudiziali, entra in magistratura l'uso dell'informatica, che consente un'operatività su più fronti, prima impensabile; sul lato del costume, la pratica tangentizia è diventata un atto talmente usuale che i tangestisti allentano il livello di attenzione e diventarono imprudenti. Secondo Di Pietro, il pool si serviva della carcerazione quando aveva acquisito la certezza della colpevolezza dell'inquisito. Lo strumento aveva quindi un duplice scopo: uno, far confessare l'indagato e rimetterlo subito in libertà, due renderlo non più credibile nei confronti dei complici che, in generale, si precipitavano a confessare. «In quel periodo, noi arrivavamo la mattina in ufficio e non potevamo entrare perché c'era la fila delle persone che venivano a confessare». D'altra parte, nel 1989, il sistema politico, con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che imponeva di azzerare l'arretrato degli uffici giudiziari, aveva varato un'amnistia per i reati di illecito finanziamento ai partiti; grazie a questo decreto, molti politici si salveranno e potranno evitare la condanna. Secondo Di Pietro, inoltre, tra l'89, l'anno dell'amnistia, e il '92, quello dell'avvio dell'inchiesta mani pulite il sistema tangentizio cambia metodologia. Non è più l'azienda X che paga il partito Y per l'appalto Z, ma la corruzione fa un salto di qualità e diventa "corruzione ambientale". Ogni partito ha le proprie 15/20 aziende di riferimento che lo finanziano, indipendentemente dal volume di appalti che l'azienda acquisisce. I segretari amministrativi (Citaristi per la Dc, Stefanini per il Pds, Balsamo per lo Psi) diventano i collettori di un flusso enorme di danaro pubblico. Le varie imprese non si fanno più la guerra per vincere le gare, si mettono d'accordo, i prezzi delle opere salgono e lo stato paga. Inoltre il reato figura come finanziamento illecito dei partiti, mentre in realtà è di corruzione ambientale, molto più grave per le finanze dello stato e più difficile da perseguire per i magistrati.
Sempre dal diario di Di Pietro leggiamo «Il sistema politico divideva le tangenti in quattro parti: una andava alla Dc, una allo Psi; una alle altre forze del pentapartito … e infine una parte al Pci, di regola sotto forma di lavoro alle Cooperative che gravitavano nell'orbita del partito e alcune volte con versamento di vere e proprie bustarelle, per le quali abbiamo sempre proceduto. … Non è colpa del pool se il Pci ha usato spesso un metodo moralmente discutibile ma penalmente irrilevante. E noi dovevamo attenerci al codice, mica al Vangelo!».
L'inchiesta del pool non risparmia i grandi industriali; sono inquisiti decine di dirigenti della Fiat, anche ai massimi livelli come Romiti e Mattioli, ma, obiettivamente, la Fiat mantiene un rapporto corretto con la magistratura e ammette il falso in bilancio. De Benedetti si presenta spontaneamente ammettendo l'illecito finanziamento dei partiti e di essere stato concusso. Gli stilisti Ferrè, Armani, Krizia ammettono di essere stati vittime di concussione da parte della guardia di finanza. E come loro molti altri.
Diverso è il comportamento di Berlusconi, che non ammette nessun illecito, considera l'azione della magistratura un complotto politico ad opera di comunisti, conduce un'azione di logoramento finché molti dei suoi ipotetici reati cadono in prescrizione. Lui affermerà di essere stato assolto, ma la realtà giudiziaria è diversa; prescrizione non è assoluzione. Prendiamo il caso All Iberian, il più importante dei processi intentati a Berlusconi. Nel 1997, il processo viene interrotto a pochi giorni dalla sentenza per via di una notifica mancante, nel 1999, viene tutto azzerato per un vizio di forma, nel febbraio 2001, il processo viene ancora annullato per l'accettazione, da parte della Cassazione, dopo nove mesi dalla richiesta, della ricusazione di un giudice da parte del collegio difensivo. Il processo si è definitivamente concluso con l’assoluzione di Silvio Berlusconi (con formula perché il fatto non costituisce più reato), il 26 dicembre 2005.
La vera storia degli avvenimenti che hanno coinvolto Berlusconi in tangentopoli non sarà, forse, mai scritta. Quello che appare, comunque, evidente è l'atteggiamento persecutorio tenuto dai magistrati nei suoi confronti. Bastano alcuni esempi, dall'avviso di garanzia, per mazzette alla G.d.F., consegnato durante il G7 di Napoli sulla criminalità, al caso dell'accusa di falso in bilancio per l'acquisto del giocatore Lentini, pagato dal Milan in nero, prassi consolidata nel mondo del calcio.
Dall'altra parte molti documenti scritti a sostegno delle accuse lasciano molte perplessità: l'operazione San Valentino della Criminalpol di Milano, che porta all'arresto di alcune teste di ponte della mafia a Milano, si occupa di Dell'Utri e Berlusconi, la cassetta registrata da Borsellino, prima della sua morte, con riferimenti a Berlusconi e Dell'Utri, l'assunzione di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, un importante trafficante di droga di cosa nostra, le indagini sulle holding di Berlusconi condotte da Francesco Giuffrida, funzionario della banca d'Italia, e da Giuseppe Ciuro della Dia, che gettano dubbi sull'origine della ricchezza del cavaliere (Veltri, 2001). Inoltre i tentativi per non far pubblicare un libro che fa un'analisi spietata sulla possibile origine dei primi finanziamenti a Berlusconi , (Ruggeri, 1987) non sono comprensibili per chi non ha nulla da temere dalla giustizia. Giova notare che il nome di Berlusconi era sotto il mirino della magistratura prima che il Cavaliere decidesse di entrare in politica, in un'epoca in cui i referenti politici di Berlusconi erano personaggi del calibro di Craxi e Forlani; pertanto quelle prime indagini non possono essere certo collegate a un piano della sinistra per farlo fuori.
Resta in molti un ragionevole dubbio: Berlusconi è colpevole o vittima di un pervicace progetto di delegittimazione? La magistratura non è stata in grado di dare certezze a chi, al di fuori di atteggiamenti giacobini o garantisti, cerca la verità storica; essa ha messo, ancora una volta, a nudo la propria impotenza.
Nel suo diario, Di Pietro descrive come scientemente Berlusconi, mentre da un lato lo blandisce con proposte di ministeri e altro , dall'altra gli lancia contro veri e propri siluri destinati alla sua delegittimazione: il dossier Abusi D.P., trovato in casa della ex moglie di Paolo Berlusconi, il "testamento" di D'Adamo, il memoriale di Giancarlo Gorrini, la cassetta fatta registrare da Berlusconi, durante un suo incontro con D'Adamo. La procura di Brescia apre una serie di indagini nei confronti di Di Pietro e un'ispezione ministeriale, voluta da Biondi nell'ottobre '94, indaga su presunte violazioni delle regole processuali da parte del pool di Milano. Il 6 dicembre '94, a chiusura della sua requisitoria sul processo Enimont, Di Pietro si toglie la toga in diretta televisiva. Il pm si mette fuori ruolo e nel giugno 1995 si dimette definitivamente dalla magistratura; le ragioni "reali" di queste dimissioni non sono mai state chiarite. Quello che è certo è il suo repentino passaggio dalla magistratura alla politica.
Dai ventisette capi d'accusa contestati, l'ex magistrato verrà completamente assolto per insussistenza dei fatti; i famosi «assi nella manica» di Craxi e le «rivelazioni terrificanti» di Berlusconi si riveleranno false e date, ad arte, in pasto ai media e alla magistratura per delegittimare Di Pietro e l'inchiesta "mani pulite" (Di Pietro, 2000).
Eugenio Caruso - 7 maggio 2019