L'inchiesta mani pulite. Parte III


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"

Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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38. L'inchiesta mani pulite. Parte III

È interessante notare che Paolo Cirino Pomicino, superministro andreottiano della prima repubblica, dà alle stampe, sotto lo pseudonimo di Geronimo, la sua storia su tangentopoli.
Secondo Geronimo, la Dc era stata per cinquant'anni «il tutore felpato ma fermo del primato della politica sull'economia e che su questo terreno era scarsamente condizionabile», lo dimostrerebbe il fatto che la Dc aveva creato un forte impero di aziende pubbliche «modello di presenza dinamica dello Stato nello sviluppo del Paese (sic)», che si contrapponeva al potere del salotto buono della finanza privata (Geronimo, 2000). Nel momento in cui il sistema delle imprese di stato si apprestava ad essere venduto, la Dc e lo Psi avrebbero «impedito al salotto buono di fare indigestione, senza sborsare altro che poche lire. …. L'alleanza tra Dc e Psi diventava, così, un macigno sulla strada della borghesia finanziaria. Un macigno che andava rimosso al più presto». Scatta allora il piano diabolico: la grande industria stabilisce che il Pds e la sinistra Dc potrebbero essere più malleabili della Dc e dello Psi. Questi due partiti devono essere eliminati e scatta pertanto un accordo di ferro tra industria, Pds e magistrati organici al Pds, allo scopo di procedere a questa eliminazione. Secondo Geronimo i passi di questa operazione sono riconoscibili nei seguenti episodi: Nel 1990 l'alleanza tra Dc e grande industria è saldissima, come mostra il grande successo del convegno organizzato a Milano dagli andreottiani.
Nel marzo del 1991, Carlo De Benedetti, prospetta al ministro Cirino Pomicino un "progetto degli industriali" che prevedeva la sconfitta della Dc alle elezioni del '92 e il rinnovamento della classe politica. «Il progetto prevedeva che la Dc fosse ridotta a stampella centrista di uno schieramento dominato dal partito ex-comunista». Nel settembre 1991 inizia da Cernobbio la grande offensiva degli industriali contro il governo.
Da quel momento parte una martellante campagna stampa a favore del Pds e del Pri, oltre che a favore della Lega capace di sottrarre voti alla Dc nelle regioni del Nord. «Fu Cesare Romiti …. ad attaccare la politica economica del governo. Ma era sempre il circolo liberal di Scalfari e De Benedetti a dirigere la musica, naturalmente con l'appoggio di Torino e di via Filodrammatici».
Nel febbraio del 1992 inizia la stagione di tangentopoli.
Alle elezioni del 5 aprile 1992 la Dc vince ancora con quasi il 30% dei consensi. A questo punto «… agli strateghi della destabilizzazione Scalfari e De Benedetti, innanzitutto, venne l'idea di favorire la scorciatoia giudiziaria». Nel maggio 1992 viene eletto alla presidenza della repubblica Scalfaro. Afferma Geronimo «Che Oscar Luigi Scalfaro fosse funzionale all'intero disegno lo dimostra anche il fatto che venne salvato in occasione dello scandalo Sisde…… Di qui la strenua difesa messa in campo dalla sinistra e da tutti i giornali ad essa collegati: nulla contro il capo di stato. Anche se aveva mentito alla nazione, doveva rimanere al suo posto. Il progetto non ammetteva intoppi».
Nel marzo '93 partono gli avvisi di garanzia contro Andreotti (mafia), Cirino Pomicino (camorra), oltre che contro Gava, Mannino e Misasi (per il quale la Camera respinge l'autorizzazione a procedere).
Ancora nel marzo '93 il pool di Milano impedisce a Scalfaro di firmare il decreto Conso sulla depenalizzazione del finanziamento illecito. Nell'aprile 1993 nasce il governo Ciampi in cui, per la prima volta, gli ex-comunisti entrano al governo. Nel 1994 Martinazzoli fonda il partito popolare, innescando quel processo politico che porterà la sinistra democristiana ad appiattirsi sull'alleanza con la grande borghesia azionista. «Martinazzoli ha potuto, fra l'altro, contare su un'immagine di guru illibato e profetico, che gli è stata costruita ad-hoc dalla grande stampa e che è stata propagandata con insistenza per tutto il decisivo anno 1993. Potere finanziario, potere politico, potere dell'informazione: ancora una volta il circuito torna a chiudersi con l'aggiunta del potere giudiziario».
Secondo Geronimo «Questa è stata la rivoluzione italiana, questa è stata tangentopoli. Chi si schierava dalla parte del progetto della grande borghesia in cambio aveva l'immunità giudiziaria da un reato comune a tutti i partiti, quello del finanziamento illegale della politica».
Il libro di Cirino Pomicino è un comprensibile atto di difesa dall'imputazione di corruzione, dalla quale fu scagionato (ma non da quella di finanziamento illecito), e di attacco a tutto quanto odora di sinistra; secondo la cultura manichea, tipica del nostro Paese. Il male sarebbe tutto tra gli uomini della sinistra; intendiamoci quasi tutti, napoletanamente, amici e galantuomini, ma disonesti. Geronimo afferma anche di essere stato testimone di finanziamenti al Pds, ma perché si chiede Di Pietro nel suo diario, Pomicino non me ne ha parlato quando lo ho interrogato, e cita, solo ora, fatti caduti in prescrizione?
La lettura del diario di Geronimo è istruttiva perché, tra le pieghe dell'autodifesa e dell'accusa, trapela uno spaccato di quello che era il sottogoverno e di come esso veniva gestito, di come venivano nominati o silurati i ministri; e inoltre il gioco perverso delle correnti, il finanziamento illegale di tutti i partiti e delle correnti della Dc, ogni tipo di intrallazzo per mettere le mani sui soldi dello stato o per ottenere una carica pubblica. Eppure Geronimo difende quelle procedure e quel mondo. Va a esempio fiero di aver sempre favorito Napoli. «… sin da quando ero uno sconosciuto peone, miravo a far passare provvedimenti e leggi a favore della mia città. E quando divenni presidente della commissione bilancio …… riuscii a far arrivare a Napoli più soldi per investimenti pubblici che nei cento anni precedenti (sic) ». In un'altra parte del suo diario ammette «Dei cinque miliardi che mi avevano dato i Ferruzzi, un miliardo e mezzo lo consegnai a Salvo Lima. …. Tutto il contributo della famiglia Ferruzzi, come dimostrarono le indagini della magistratura, fu utilizzato per finanziare la campagna elettorale del 1992, la mia e quella di deputati dc della mia corrente». Un altro aspetto interessante del diario di Geronimo riguarda l'Eni. Cirino Pomicino, nel corso di interrogatori da parte di collaboratori di Di Pietro, viene a sapere che i magistrati erano sulle tracce di 500 miliardi di fondi neri dell'Eni e che presto Bernabè sarebbe stato arrestato. Bernabè non fu arrestato e in occasione di un incontro con Di Pietro, Pomicino raccontò al magistrato quel che aveva saputo dai suoi collaboratori. Tonino rispose «Quello è un territorio sul quale è difficile muoversi. Rischiava di saltare tutto. …… Lei non sa cos'è l'Eni. O forse lo sa ma lo ha dimenticato». Continua Geronimo «In effetti, l'Eni era sempre stata una zona franca per noi andreottiani. Già nel 1984, da presidente della commissione bilancio, avevo avviato un'indagine conoscitiva sull'ente, ma avevamo incontrato una grande difficoltà a raccogliere informazioni. All'Eni, da sempre, si mescolano delicate relazioni internazionali, forti interessi economici e il gran lavoro dei servizi segreti». Insomma nemmeno uno degli uomini più potenti dello stato era in grado di sapere che cosa avveniva in uno dei più giganteschi dinosauri di stato.
Molte critiche investiranno l'azione del pool di Milano; per l'avvocato Gaetano Pecorella, deputato di Forza Italia, «tangentopoli va considerata un'inchiesta andata avanti sulla base della sofferenza carceraria di alcune persone e dell'uso distorto della custodia cautelare». Per l'avvocato Giuliano Spazzali, il pool si serviva barbaramente di questo strumento «tu confessi quello che ti attribuiamo, e in più elargisci notizie su qualche altro episodio, almeno uno in più rispetto a quelli che già conosciamo; e poiché ciò alimenta la catena delle indagini, è possibile giungere a una soluzione compromissoria». A queste critiche risponde Gerardo D'Ambrosio, coordinatore del pool, «Noi non abbiamo indagato su un singolo caso di corruzione, ma su un sistema di collusioni che avevano un'omertà molto simile a quella della criminalità organizzata; tant'è vero che un segreto dei successi delle nostre indagini è l'aver adottato sistemi molto simili a quelli che si usano contro il crimine organizzato. Era necessario rompere l'omertà che è insita nella natura stessa del reato di corruzione» (Zavoli, 1999).
Per concludere si può affermare che in Italia per un lungo periodo politica e imprese hanno viaggiato su due binari paralleli; gli accordi stilati tra il mondo della finanza e la classe politica del dopoguerra prevedevano che lo stato non intervenisse nelle logiche d'impresa e che l'impresa non interferisse con la politica, accettando, anche, una forte presenza di aziende pubbliche, in cambio del sostegno alle aziende private in difficoltà. Per un certo periodo i partiti si sono accontentati delle rimesse provenienti dalle aziende pubbliche; ma il danaro necessario per mantenere i sempre più costosi apparati di partito, per sostenere le sempre più costose campagne elettorali, per contrapporsi al Pci, foraggiato dall'Urss e dalle sue cooperative, non basta più. Si apre un secondo periodo, i due binari iniziano ad intersecarsi e le aziende incominciano a pagare delle piccole dazioni su ogni appalto pubblico, si va dal 2-3 al 5% del valore dell'appalto, o su ogni atto che richieda un'autorizzazione pubblica. La terza fase si sviluppa negli anni ottanta, inizi novanta, quando le tangenti salgono vertiginosamente al dieci-venti percento; esse non servono più, solo, per il finanziamento dei partiti, ma anche per gli arricchimenti personali di politici e faccendieri. Il patto dei binari separati non è più valido e inesorabilmente prima o poi i treni dell’impresa e della politica si scontrano lasciando sul terreno i resti di quella che viene chiamata prima repubblica.
A proposito del pool di Milano giova ricordare quanto scritto da Montanelli «Nell’azione del pool di Mani pulite gli incontestabili meriti furono associati a un esibizionismo, un presenzialismo, un decisionismo, una smania di notorietà e di potere che poco si conciliavano con la discrezione cui il magistrato deve attenersi. L’Italia ebbe i magistrati divi, vaganti con scorta da un convegno a una presentazione di libro (loro), da una première a un talk-show televisivo» (Montanelli (2000). Sfortunatamente per il Paese questa smania di protagonismo contagierà molti magistrati in cerca di facile notorietà; non pochi passeranno dalla passerella della magistratura mediatica a quella dela politica.

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Eugenio Caruso - 22 maggio 2019



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