Il Carmide di Platone. Dialogo sulla saggezza

Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, e l'Eutifrone, mi dedico ora al Carmide.

Il Carmide è un dialogo platonico giovanile che si concentra sulla saggezza. Questa nel mondo greco era intesa come una condizione di salute dell'intelletto, una particolare avvedutezza, ma non era da reputarsi una saggezza puramente intellettuale: era, piuttosto, l'avere il pieno controllo di sé stessi e delle proprie passioni, cosa possibile a chiunque. Platone nel Fedone la definirà infatti “virtù popolare”, tale cioè da poter essere presente in chiunque anche per istinto.
Il dialogo, narrato in prima persona da Socrate, inizia col ritorno di quest'ultimo ad Atene, dopo la difficile battaglia di Potidea del 432 a.C.. Giunto nella palestra di Taurea, egli ritrova i propri amici, tra cui Crizia e Cherefonte. Dopo che Socrate ha soddisfatto le curiosità degli amici al riguardo della battaglia, il discorso va spostandosi sui ragazzi cresciuti durante l'assenza di Socrate. Alla domanda se ce ne sia qualcuno bello quanto sapiente, tutti si trovano concordi nell'indicare in Carmide (appena arrivato) il migliore dei giovani. Socrate, vedendolo, conviene al riguardo della bellezza esteriore, ma vuole verificare quella del suo animo: lo chiama perciò a sé, con la scusa di essere un medico in grado di guarire i dolori di testa accusati dal giovane. Per far ciò dirà di aver imparato dai medici Traci l'uso di un'erba, che va però somministrata solo insieme a un incantesimo, quello dei discorsi che infondono la saggezza: se essa non è presente, a nulla serve l'erba. Carmide si presta all'esame di Socrate.
Il filosofo inizia: se Carmide possedesse la saggezza, dovrebbe essere in grado di dire cos'è. La prima definizione di Carmide è che la saggezza sia un «agire in ogni circostanza in modo pacato». Socrate, giocando con le parole, sostituisce il senso di “pacato” con “lentamente” e procede alla confutazione: fa ammettere a Carmide come la saggezza sia una cosa bella, e domanda se non sia più bello, ad esempio, scrivere o imparare rapidamente o lentamente; Poiché il ragazzo conviene che in questi casi la lentezza non sia bella, Socrate conclude che la definizione debba essere errata.
La seconda definizione di Carmide è che «la saggezza sia una sorta di modestia, o pudore»: la confutazione di Socrate è qui ancora meno convincente, ma ha l'effetto voluto sul ragazzo: il filosofo si limita infatti a far riconoscere al suo interlocutore come i saggi siano anche uomini buoni, e come ciò che renda cattivi non sia bene, per poi citare Omero: «Il pudore non è bene per un uomo bisognoso». Quindi il pudore può essere sia bene (se non si ha bisogno) che non bene (nel caso opposto). Poiché la saggezza rende buoni, ed essere buoni è bene, non potrà essere pudore, poiché esso non è sempre bene.
La confutazione può essere riassunta con i seguenti passaggi:
1.Se qualcosa rende non buoni non è bene;
2.La saggezza rende sempre buoni, dunque:
3.La saggezza è sempre un bene;
4.Il pudore talvolta è un non bene;
5.Il pudore non può essere saggezza.
Carmide riporta quindi una definizione di saggezza appresa da Crizia. Essa consiste nel «fare ognuno le proprie cose». Socrate contesta la frase chiedendo se, agli occhi del ragazzo, chi compia un'abilità manuale (come tessere la stoffa) stia o meno facendo qualcosa; all'ovvia conferma ricevuta, giocando sull'ambiguità del genitivo greco “proprie” (può essere inteso sia come “di proprietà” sia come “di propria competenza”), Socrate fa notare come sarebbe mal amministrata una città immaginaria dove ognuno produca da sé le cose di cui ha bisogno, come mantelli e scarpe. Poiché la saggezza è bene, essa non può essere «farsi da soli le proprie cose». Dato che il significato è palesemente assurdo, Socrate ritiene che la frase fosse un enigma, e sia necessario capire cosa significhi “fare le proprie cose”. Interviene quindi Crizia in difesa della propria definizione: solo perché il ragazzo non sa spiegare la definizione, non vuol dire che questa non sia giusta.
Socrate incalza Crizia: possono essere saggi anche coloro che non producono solo le proprie cose, come la donna che tesse il suo vestito e quello del marito? Per Crizia niente lo impedisce: un conto è il produrre, un altro il fare. Egli si legittima citando quindi Esiodo, per il quale «l'opera non è mai fonte di vergogna»; secondo lui anche il poeta probabilmente distingueva tra il produrre e il fare, o operare: il produrre può, infatti, essere disdicevole se non si accompagna al bello, come nel caso dei pescivendoli e dei lavoratori dei bordelli, mentre l'operare in sé è un agire in maniera bella e vantaggiosa. Pertanto, «la saggezza è un operare bene, o fare le cose buone».
Secondo Socrate, però, questo comporta che si possa essere saggi senza sapere di esserlo: il medico che riporta la salute in un ammalato produce cose vantaggiose per sé come per colui che guarisce. Eppure il medico può agire vantaggiosamente anche senza saperlo, ad esempio somministrando il farmaco sbagliato (provocando quindi la morte) a un uomo la cui vita non sarebbe stata degna di essere vissuta, sebbene gliel'avesse somministrato con l'intento di salvarlo. Avendo prodotto qualcosa di vantaggioso senza volerlo, il medico sarebbe pertanto stato saggio – operando cosa bella e vantaggiosa – senza averne coscienza. Conservando questa definizione cadrebbe quindi il requisito accettato da tutti, vale a dire che chi sia in possesso della saggezza debba saperlo.
Crizia preferisce ritrattare la sua conclusione e ammettere l'errore piuttosto che accettare una simile conclusione, cioè che si possa essere saggi senza saperlo, senza perciò conoscere se stessi. Il conoscere se stessi diventa anzi la nuova definizione della saggezza che Crizia darà a Socrate. Crizia proverà anche a risolvere l'enigma del “conosci te stesso”: esso non era un consiglio, quanto un saluto. Nell'antica Grecia il saluto più classico era “sii lieto”. Poiché secondo Crizia conoscere sé stesso equivale all'essere saggio, il “conosci te stesso” poteva essere tradotto come “sii saggio”.
Socrate inizia la confutazione della definizione: se la saggezza è “conoscere qualcosa” deve essere una scienza. Pertanto “conoscere se stessi” si può tradurre come “scienza di se stessi”. Come la scienza medica produce la salute, e la scienza dell'architettura abitazioni, la saggezza in quanto scienza dovrebbe produrre qualcosa. Crizia, interrogato su cosa essa produca, rifiuta di rispondere. Secondo lui, la saggezza è un tipo di scienza diversa da quelle pratiche, e pertanto non può dare un prodotto definito, come la scienza del calcolo o della geometria non danno un prodotto simile a quello che è la casa per la scienza dell'architettura. Ma – incalza Socrate – della scienza del calcolo quantomeno sappiamo dire di cosa si occupi: essa si occupa del pari e del dispari, del loro valore numerico. La saggezza come scienza di che si occupa? Crizia rifugge la confutazione affermando che «la saggezza sia la sola scienza che si occupi di sé stessa e delle altre scienze», pertanto non sia paragonabile a nient'altro.
Poiché però la saggezza è conoscenza di sé stessi, oltre che delle altre scienze, dovrebbe essere anche conoscenza dell'ignoranza di sé stessi. Si viene perciò a creare un paradosso irrisolvibile secondo cui il saggio ha un sapere che gli consente di riconoscere di non aver sapere. Socrate porta l'esempio di una quantità: se essa è maggiore di un'altra, quest'altra sarà inevitabilmente minore; ma se le proprietà della prima quantità in questione potessero essere riflesse solo su di essa, se cioè fosse maggiore solo di sé stessa, dovrebbe essere anche minore di sé stessa, altrimenti non esisterebbe qualcosa di cui essa sia maggiore. E come per le quantità, così per altre doti, come la vista: se essa vedesse solo se stessa e le altre viste, e non il mondo, si dovrebbe assumere che la vista abbia delle proprietà visibili, come il colore. Crizia è invitato a dimostrare in che modo tutto questo sia possibile, e nel caso lo fosse, come possa essere vantaggioso, giacché s'è dato per scontato che la saggezza sia vantaggiosa.
Per amor di discussione, Socrate concede a Crizia l'esistenza di una scienza della scienza, in modo da farlo uscire dal silenzio in cui era sprofondato. Rimarrà però da spiegare come il possesso di una scienza simile possa far conoscere maggiormente se stessi: come scienza della scienza, infatti, potrà permettere di capire solo se qualcosa sia scienza o non lo sia, e non cosa si sappia. Per sapere cosa una persona sa, ad esempio se sa cosa è sano o cosa non lo è, avrà bisogno della scienza che si occupa di quell'oggetto, in questo caso la salute, e quindi della medicina. Con la scienza della scienza saprebbe solo se sa o se non sa, ma non cosa sa.
Se la saggezza fosse consapevolezza di cosa si sa e cosa non si sa, e consapevolezza di chi sa e chi non sa, sarebbe indubbiamente molto utile. Ma una volta concluso che riconoscere queste cose è possibile solo grazie alle altre scienze particolari, la saggezza così intesa si rivela nulla più di una scatola vuota, senza alcuna importanza. Socrate suggerisce che se proprio la saggezza deve essere definita come “scienza della scienza”, forse con questo termine si può semplicemente intendere “conoscenza dei processi conoscitivi”, ovvero capacità di apprendere più in fretta.
Socrate si lascia andare ora ad una propria riflessione, ispirata dalla terza definizione di saggezza di Carmide: ovvero quella secondo cui la saggezza (che procura la felicità, è bene ricordarlo) consiste nel fare ognuno il proprio compito, vivendo secondo la scienza che gli è propria. Crizia viene costretto ad ammettere che la produzione delle scarpe, ad esempio, è una scienza; eppure possederla non dà felicità, e così accade anche per altre. Quando gli viene chiesto quale scienza, in definitiva, procuri la felicità, Crizia arriva alla conclusione che la sola effettivamente in grado di farlo sia la scienza del bene e del male.
La scienza del bene e del male non migliora le altre scienze in sé, ma migliora le nostre capacità di operare bene in queste, procurandoci vantaggio. Stranamente Socrate non l'adotta come definizione di saggezza, ma continua a muovere dalla definizione di Crizia “scienza delle scienze”.
Il dialogo si chiude nello sconforto generale: la saggezza trovata non apporta nessun vantaggio alla vita, pertanto è ovvio che i tre siano ben lontani dalla soluzione. Crizia prescrive a Carmide di frequentare Socrate, per migliorare se stesso, e qui il dialogo si chiude con un'ironia tetra per chi legge col senno di poi: Socrate chiede a Carmide se gli farà violenza, intendendo se egli voglia diventare suo discepolo anche contro la volontà di Socrate. Carmide risponde che così sarà, poiché è Crizia ad ordinarlo. È facile cogliere l'ironia, se si pensa che durante il regime dei trenta tiranni proprio Crizia ordinerà a Socrate di uccidere un democratico, e che la morte di Socrate sarà originata proprio dal suo rapporto col futuro tiranno.

IL CARMIDE

Arrivammo (1 - Vedi note al termine del testo) il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea, (2) e poiché tornavo che era passato del
tempo, mi recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di Taurea,(3)
dirimpetto al santuario della Regina,(4) e qui incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la
maggior parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi, chi da una parte chi
dall'altra; Cherefonte (5) invece, da quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e
afferratami la mano: «O Socrate», diceva, «come ti sei salvato dalla battaglia?». Poco prima che noi arrivassimo c'era
stata una battaglia a Potidea, della quale lì si era avuta notizia da poco.
E io rispondendo: «Così come mi vedi », dissi.
«Eppure qui è arrivata la notizia che la battaglia è stata molto dura», disse lui, «e che vi sono morte molte persone
note».
«Le notizie riportate sono esatte», risposi io.
«Eri presente alla battaglia?» chiese lui.
«C'ero».
«Allora siediti qui», disse, «e raccontaci, perché non abbiamo saputo ogni cosa in maniera chiara». E intanto,
guidandomi, mi fa sedere accanto a Crizia figlio di Callescro.(6) Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e gli altri,
ed esponevo loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse chiesta: e mi chiedevano chi una cosa chi un'altra.
Quando però fummo sazi di questi discorsi, io allora, a mia volta, interrogai loro sulla situazione di qui, sulla
filosofia, come andassero le cose al momento, sui giovani, se ne fossero sorti tra loro che si distinguessero per saggezza,
per bellezza o per entrambe le cose. E Crizia, fissando lo sguardo verso la porta, perché aveva visto alcuni giovanetti
entrare che si insultavano tra loro e altra folla alle spalle che li seguiva, «dei belli», disse, «o Socrate, credo che tu
saprai subito: infatti eccoli che per caso stanno entrando e sono i preannunciatori e gli amanti di colui che ha fama di
essere il più bello in questo momento, e mi sembra che anche lui sia ormai prossimo ad entrare».
«E chi è», chiesi io, «e di chi è figlio?» «Forse lo conosci anche tu», mi rispose, «ma non era ancora adulto prima
che tu partissi; è Carmide figlio di nostro zio Glaucone, mio cugino».(7) «Lo conosco, per Zeus!», esclamai. «Neppure
allora, quando era ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo, dovrebbe ormai essere decisamente un
giovanetto».
«Presto saprai», rispose, «la sua età e che tipo egli sia diventato», e mentre stava dicendo queste cose entra Carmide.
Ebbene, per quello che riguarda me, amico mio, non si può misurare nulla: infatti io sono semplicemente una
cordicella bianca con i belli (8) - infatti li vedo in qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli anni -, tuttavia
indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la statura e la bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo
meno mi sembrava, erano innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare -, molti altri innamorati
invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io
feci caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il più piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma
tutti guardavano ammirati lui come se fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: «Che te ne pare del
ragazzetto, o Socrate?», disse. «Non ha un bel volto?» «Straordinariamente bello», risposi io.
«Ebbene», aggiunse, «egli, se volesse spogliarsi, ti sembrerà privo di volto, a tal punto è bellissimo di forme».
Furono dunque d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: «Per Eracle», dissi, «di quale imbattibile
persona voi parlate, se soltanto si trova ad essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta».
«Quale?», chiese Crizia.
«Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima», risposi, «e in qualche modo è scontato, o Crizia, che egli
sia tale, dal momento che è del vostro casato».
«Ma sì», rispose, «è bellissimo e virtuoso anche in questo».
«Perché dunque», esclamai, «non spogliare di lui proprio questa cosa ed ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento
che ha ormai questa età, desidera certamente dialogare».
«Senza alcun dubbio», rispose Crizia, «sia perché è appunto un filosofo sia, come pensano gli altri e lui stesso,
anche un poeta».
«Questa bellezza», dissi io, «caro Crizia, voi l'avete, è lungo tempo, dalla vostra consanguineità con Solone.(9) Ma
perché non hai chiamato qui il giovane e non me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora più
giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei insieme suo tutore e cugino».
«Certo tu hai ragione», disse, «chiamiamolo». E intanto al servo: «Ragazzo», disse, «chiama Carmide e digli che
voglio presentarlo a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi diceva di essere affetto».
Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: «Poco fa diceva dì sentire come un peso alla testa, quando si è alzato di buon
mattino; ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per la testa?» «Nulla», risposi, «purché venga».
«Certo, verrà», assicurò.
E la cosa in effetti andò così. Infatti venne e suscitò gran riso, perché ognuno di noi che eravamo seduti, nel far
posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui accanto a sé, finché di quelli seduti all'estremità uno lo facemmo
alzare, mentre l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese posto tra me e Crizia. A questo punto,
mio caro, io mi sentivo confuso e la mia precedente arditezza, che avevo perché pensavo che gli avrei parlato con molta
scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero colui che conosceva il rimedio, mi fissò con
occhi quali è impossibile descrivere e si muoveva a interrogarmi, e tutti quanti in palestra corsero intorno a noi in
cerchio da ogni parte, allora davvero, o nobile amico, vidi ciò che nascondeva il mantello e mi infiammai e non ero più
in me e pensai che il più sapiente in cose d'amore è Cidia, (10) il quale disse, parlando di un fanciullo bello,
consigliando qualcun altro, «di stare attento, cerbiatto, di fronte a un leone, a non prendere una parte della preda»; mi
sembrava infatti di essere stato catturato io stesso da un simile animale.
Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo.
«Qual è allora?» chiese.
E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre
si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di
nessuna utilità.
E quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te».
«Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?», dissi io.
Scoppiato a ridere dunque disse: «Se ti persuaderò, o Socrate».
«E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?» «Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco
parlare di te tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di
Crizia qui presente».
«Ben fatto», dissi io, «ti parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in
che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in
grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato
agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme
anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per se stessa senza
il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di
sanare con il tutto la parte; (11) o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose.
«E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose.
E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e
dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il caso di questa formula magica.
Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis,(12) dei quali si dice che sanno rendere
immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava,
il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo
stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici
greci, perché trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte stia
bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono
come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le
condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti:
questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza,(13) per la comparsa
e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo.
Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa
con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E
infatti ora", continuò, "è diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e
dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così
ricco né nobile né bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo
necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima
istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il rimedio per la testa; altrimenti non
sapremmo cosa fare per te, caro Carmide».
Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di
testa, se sarà costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama
di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di
possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io.
«Dunque sappi bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di quelli di adesso, e in tutto il
resto, per l'età che ha raggiunto, non è inferiore a nessuno».
«E infatti», dissi io, «è anche giusto, o Carmide, che tu emerga tra gli altri per tutte queste cose; perché credo che
nessun altro tra coloro che si trovano qui potrebbe con facilità esibire due famiglie, riunitesi in una stessa, tra quelle di
Atene, che abbiano generato da progenitori simili una discendenza più bella e più nobile rispetto a quelle dalle quali sei
nato tu.(14) Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide, (15) ci è stata tramandata come oggetto
di encomio da parte di Anacreonte,(16) di Solone (17) e di molti altri poeti, poiché eccelle per bellezza, per virtù e per
tutto ciò che è detto felicità; e allo stesso modo poi la famiglia per parte di madre: infatti rispetto a Pirilampe, (18) tuo
zio, nessuno tra gli uomini del continente si dice avesse la fama di essere più bello e più prestante, tutte le volte che si
recò come ambasciatore o presso il Gran Re o presso qualcun altro personaggio nel continente, ma tutta quanta questa
famiglia non fu mai inferiore all'altra. Nato dunque da siffatti antenati, è naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel
che concerne gli aspetti visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei inferiore in nulla a
nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se davvero tu sei dotato per natura di buone capacità sia per
assennatezza sia per tutto il resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua madre», conclusi. «La

cosa dunque sta così. Se davvero c'è già nel tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei
sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno né degli incantamenti di Zalmoxis né di Abari l'Iperboreo, (19) ma
a questo punto bisognerebbe darti proprio il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di queste
formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il rimedio. Dimmi tu dunque, sei d'accordo su
questo punto e affermi di partecipare in modo sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?».
Carmide dunque, essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora più bello - e difatti la modestia si addiceva
alla sua età - poi con animo non certo vile rispose: disse infatti che non sarebbe stato più facile, lì sul momento, né
approvare né negare ciò che gli veniva chiesto. «Se infatti», spiegò, «non dicessi che sono assennato, non solo sarebbe
strano che uno dica cose simili di se stesso, ma nel contempo farei passare per bugiardo Crizia qui presente e molti altri
ai quali sembro assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi che lo sono e lodassi me stesso, forse apparirei
insopportabile; sicché non so che cosa risponderti».
E io risposi: «Mi sembra che tu dica cose ragionevoli, Carmide. E penso», dissi, «che bisognerebbe cercare insieme
se tu possieda o non possieda la cosa che ti sto domandando, affinché tu non sia costretto a dire cio che non vuoi e
d'altro canto io non mi volga alla scienza medica in maniera sconsiderata. Se dunque ti è cosa gradita, voglio fare questa
ricerca con te, altrimenti lasciar perdere».
«Ma tra tutte è la cosa che mi fa più piacere», disse lui, «quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo che
tu ritieni il migliore».
«Ecco allora», dissi io, «quale mi sembra il miglior metodo di ricerca su questo argomento. è chiaro infatti che se tu
possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche giudizio.
è d'altra parte necessario, quando essa è presente, se davvero c'è, che se ne abbia una qualche sensazione, grazie alla
quale potresti avere su questa una qualche opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la pensi così?»
«Certo, lo penso», disse.
«Ebbene, questa cosa che pensi», dissi, «dal momento che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra
che sia?» «Forse», rispose.
«E allora affinché possiamo congetturare se tu l'hai in te oppure no, dimmi», continuai, «che cosa affermi che sia
l'assennatezza secondo la tua opinione?».
Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente rispondere, poi però disse che assennatezza a suo
parere è fare tutto con ordine e con calma, camminare per le strade e conversare, e tutte le altre azioni allo stesso modo.
«E penso», concluse, «in una parola che ciò che mi chiedi sia una certa calma».
«è forse giusto ciò che dici?», dissi. «Certo, Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c'è
del vero in quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non è tra le cose belle?» «Certo», rispose.
«E qual è la cosa più bella nelle lezioni del maestro: scrivere le lettere simili in fretta o con calma?» «In fretta».
«E nel leggere? Velocemente o lentamente?» «Velocemente».
«E suonare la cetra con velocità e lottare con ritmo serrato non è molto più da virtuosi che farlo con tranquillità e
lentamente?» «Sì».
«E allora? Nel pugilato e nel pancrazio (20) non avviene la stessa cosa?» «Certo».
«Nella corsa, nel salto e in tutti gli altri esercizi del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidità non si addicono
al virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con tranquillità?» «è evidente».
«Dunque ci pare evidente», dissi io, «per quel che concerne il corpo, che non è la calma, ma la massima rapidità e
prontezza ad essere la cosa migliore. Non è così?» «Certamente».
«Ma l'assennatezza era una cosa bella?» «Sì».
«Allora per il corpo non la calma, ma la rapidità sarebbe cosa più assennata, dal momento che l'assennatezza è una
cosa bella».
«Così sembra », rispose.
«E allora?» continuai io. «è più bella la facilità di apprendere o la difficoltà di apprendere?» «La facilità di
apprendere».
«Ma la facilità di apprendere», chiesi, «significa apprendere rapidamente?
E la difficoltà di apprendere significa farlo con calma e lentezza?» «Sì».
«Non è più bello insegnare a un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente?» «Sì» «E
poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente è più bello che farlo con decisione e rapidità?» «Con
decisione e rapidità», rispose.
«La perspicacia non è una certa acutezza dell'animo, e non la calma?» «è vero».
«Non è forse vero che se si tratta di comprendere ciò che viene detto, sia a scuola di scrittura sia di cetra e in
qualsiasi altro luogo, la cosa più bella non è farlo con la maggior calma possibile, bensì con la maggior rapidità?» «Sì».
«Ma certo, nelle ricerche dell'anima e quando essa prende delle decisioni, a sembrare degno di lode non è il più
lento nel prendere una decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa con la massima
facilità e rapidità».
«è così», disse.
«E in tutte le cose», aggiunsi io, «o Carmide, sia in quelle che riguardano l'anima sia in quelle che riguardano il
corpo, le azioni di velocità e prontezza non appaiono più belle rispetto a quelle di lentezza e di calma?» «è possibile»,
rispose.
«Dunque l'assennatezza non è una certa calma né la vita assennata è calma, in base a questo ragionamento, dal
momento che deve essere bella, se è assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra: o mai o assai raramente le azioni calme
ci apparvero nella vita più belle di quelle rapide e forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le più
insignificanti, capita che siano più belle di quelle decise e rapide, così neppure l'assennatezza potrebbe essere l'agire con
calma piuttosto che in modo forte e rapido, né nell'andatura né nell'eloquio né in nessun'altra situazione, né la vita calma
potrebbe essere più assennata di una vita non tranquilla, dal momento che nel discorso l'assennatezza è stata da noi
posta tra le cose belle, ma belle sono apparse quelle rapide non meno di quelle tranquille».
«Mi sembra ben detto, o Socrate», disse.
«E allora», ripresi io, «di nuovo, ponendo più attenzione, o Carmide, dopo aver guardato in te stesso e aver riflettuto
su quali effetti la presenza della assennatezza possa avere su di te, e quale debba essere la sua natura per produrre tale
effetto, dopo aver dunque riflettuto su tutte queste cose, dimmi con precisione e senza timore, cosa ti sembra che sia?».
Ed egli rimase in attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso con atteggiamento decisamente virile, «ebbene, mi
sembra», disse, «che l'assennatezza faccia vergognare e renda timido l'uomo, e che l'assennatezza sia ciò che di fatto è
pudore».
«E sia», dissi io, «ma poco fa non ammettevi che l'assennatezza è una cosa bella?» «Certamente», disse.
«E che gli assennati sono anche uomini buoni?» «Sì».
«Potrebbe allora essere buona una cosa che non rende buoni?» «No, certo».
«Non è solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa buona».
«Per lo meno mi sembra».
«E allora?» ripresi io. «Non pensi che Omero aveva ragione quando diceva: "Il pudore non è un buon compagno per
l'uomo bisognoso"?» (21) «Sì».
«Dunque, parrebbe, il pudore non è un bene ed è un bene».
«è evidente».
«L'assennatezza è un bene se davvero rende coloro nei quali sia presente buoni, ma non cattivi».
«Ma certo, le cose mi sembra che stiano come tu dici».
«Dunque assennatezza non potrebbe essere pudore, se davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore
non è un bene più di quanto sia un male».
«A me, o Socrate, sembra», disse, «che questo sia detto bene: ma prendi in esame questa definizione della
assennatezza, come ti sembra che sia. Poco fa infatti mi sono ricordato - è una cosa che sentii già dire da un tale - che
assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le proprie cose.(22) Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice
questa cosa».
E io: «Ah furfante», dissi, «tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o da qualche altro sapiente!».
«Probabilmente da un altro», disse Crizia, «non certo da me».
«Ma che differenza fa, o Socrate», disse l'altro, Carmide, «da chi l'ho sentito?» «Nessuna differenza», dissi io,
«perché in ogni caso bisogna indagare non chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no».
«Ora parli bene», disse.
«Per Zeus», dissi io, «ma se anche troveremo come sta la cosa, mi meraviglierei, perché somiglia a un enigma».
«E perché?» «Perché sicuramente», continuai, «le parole non erano espresse nel senso in cui andava il suo pensiero,
quando diceva che assennatezza è "fare le proprie cose". Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente
quando scrive o quando legge?» «Si, certo, lo penso», disse.
«Dunque tu pensi che il maestro di scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo insegnava a voi
ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno dei vostri e dei nomi degli amici?» «Per nulla meno».
«Forse che vi impicciavate degli affari altrui e non eravate assennati nel fare questo?» «Assolutamente no».
«E certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere sono fare qualcosa».
«Ma certo lo sono».
«E infatti il guarire, caro compagno, il costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con
qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa».
«Certo».
«E allora?» dissi io, «pensi forse che una città sarebbe ben governata da quella legge che impone di tessere e di
lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le scarpe, l'ampolla, lo strigile (23) e tutto il resto in base a questo
stesso discorso, senza toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le proprie?» «Non lo penso», disse lui.
«Tuttavia», replicai, «se è governata con assennatezza, dovrebbe essere ben governata».
«Come no?», disse.
«Dunque assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e fare le proprie cose in questo modo».
«Non sembra».
«Parlava dunque per enigmi, a quel che sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare le
proprie cose è assennatezza; altrimenti era un ingenuo. L'hai sentita dire da uno sciocco dunque questa cosa, o
Carmide?» «Minimamente», rispose, «perché anzi aveva fama di essere molto sapiente».
«Soprattutto, a quel che penso, proponeva un enigma perché è difficile capire che cosa mai significhi fare le proprie
cose».
«Forse», disse.
«E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le proprie cose? Puoi dirlo?» «Io non lo so, per Zeus», rispose lui, «ma
forse nulla impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ciò che pensava». E mentre diceva queste cose
sorrideva e guardava a Crizia.
Ed era evidente che già da tempo Crizia era agitato e desideroso di farsi valere agli occhi di Carmide e dei presenti:
fino a quel momento si era trattenuto, allora non ne fu più capace: mi sembra infatti più che vero, cosa che sospettai, che
Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo all'assennatezza. Carmide dunque, poiché non voleva render
conto lui della risposta, ma voleva lo facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era stato confutato. L'altro non lo
tollerò, ma mi sembrò adirato con lui come un poeta con un attore che recita male i suoi versi. Per cui lo guardò fisso e
poi disse: «Sicché, Carmide, pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui che disse che l'assennatezza è fare le
proprie cose, allora neppure lui lo sa?» «Ma, eccellente Crizia», dissi io, «non è affatto una cosa che desta meraviglia,
data la sua età, che ignori questa cosa; invece è naturale che tu la sappia, sia per via della tua età sia per i tuoi studi. Se
dunque ammetti che l'assennatezza è appunto ciò che costui dice e accogli questo ragionamento, tanto più volentieri io
indagherei insieme a te se la definizione è vera oppure no».
«Ebbene lo ammetto senz'altro», rispose, «e lo accetto».
«E fai bene», dissi io, «ammetti anche ciò che chiedevo poco fa: tutti gli artigiani fanno qualcosa?» «Sì».
«E ti sembra che facciano solo le loro cose o anche quelle degli altri?» «Anche quelle degli altri».
«Dunque sono assennati, pur non facendo solo le loro cose?» «Infatti, che cosa lo impedisce?» chiese.
«Niente, per me almeno», replicai io, «ma bada che l'impedimento non ci sia per colui che, avendo ipotizzato che
l'assennatezza è il fare le proprie cose, dice poi che nulla impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano
assennati».
«Io infatti, in un certo senso», disse, «questo l'ho ammesso, che sono assennati coloro che fanno le cose degli altri,
se ho ammesso che sono assennati coloro che realizzano le cose degli altri».(24) «Dimmi, tu non chiami con la stessa
parola il realizzare e il fare?» «No davvero», disse, «e neppure il lavorare e il realizzare. Ho imparato infatti da
Esiodo,(25) il quale diceva che il lavoro non è affatto vergogna. Pensi dunque che egli, se usava, per le occupazioni del
genere di cui parlavi poco fa, i termini "lavorare" e "fare", avrebbe detto che non è una vergogna per nessuno fare il
calzolaio o il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna crederlo, Socrate, ma anche lui, a mio parere,
pensava che altro è la realizzazione di un'azione, altro la realizzazione di un lavoro, e che mentre un'opera realizzata è a
volte motivo di vergogna, quando non è accompagnata dal bello, il lavoro invece non è mai motivo di vergogna: infatti
chiamava lavori le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di tal genere le chiamava lavori e azioni.
Bisogna dire che riteneva solo tali azioni proprie di ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose; quindi
bisogna pensare che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon senso, definisce assennato chi si occupa delle sue
cose».
«O Crizia», dissi io, «non appena cominciasti a parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che chiami buone le
cose proprie e personali e azioni le creazioni di tal genere: e infatti ho sentito infinite volte Prodico (26) fare delle
distinzioni riguardo ai nomi.
Ma io ti concedo di assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a cosa dài il nome che stai pronunciando.
Dunque, ora dài daccapo una definizione più chiara: l'azione o la realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose
buone, tu dici che questa è assennatezza?» «Sì», rispose.
«Dunque non è assennato colui che compie azioni cattive, bensì colui che compie azioni buone?» «E a te, nobile
Socrate», disse, «non sembra così?» «Lascia perdere», dissi, «non indaghiamo su ciò che penso io, ma su ciò che stai
dicendo ora tu».
«Ebbene», disse, «io affermo che colui che realizza cose non buone ma cattive non è assennato, mentre è assennato
colui che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose buone io te la definisco chiaramente
assennatezza».
«E certo nulla impedisce che tu abbia forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia», dissi io, «il fatto che a tuo parere gli
uomini che sono assennati ignorano di essere assennati».
«Ma non lo penso», replicò.
«Poco prima non è stato detto da te che nulla vieta che gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri, siano
assennati?» «è stato detto, certo», disse, «ma che vuol dire questo?» «Niente; ma dimmi se secondo te un medico,
quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se stesso sia per colui che guarisce».
«Sì».
«Colui che agisce così non fa forse il suo dovere?» «Sì».
«E colui che fa il suo dovere non è assennato?» «è assennato, certo».
«Non è allora necessario che il medico sappia quando guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano
sappia quando può trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no?» «Forse no».
«A volte», dissi io, «dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli stesso in che modo abbia agito;
eppure, se ha operato in modo utile, secondo il tuo discorso, ha agito in modo assennato. O non è così che dicevi?»
«Sì».
«Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo utile, agisce assennatamente ed è assennato, ma ignora di se
stesso che sia assennato?» «In realtà, o Socrate», ribatté, «questo non potrebbe mai avvenire.
Tuttavia se tu pensi, dalle mie precedenti ammissioni, che è inevitabile che ci si accordi su questo, io preferirei
ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non mi vergognerei di dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere
che un uomo ignori di se stesso che è assennato. Io, per me, infatti, più o meno affermo che assennatezza è proprio
questo, conoscere se stessi e sono d'accordo con colui che ha dedicato a Delfi tale iscrizione.

Penso infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un saluto del dio a chi entra, in luogo del
"Salve", perché questa forma di saluto non è giusta, augurare di star bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli uni
con gli altri, ma augurarsi dì essere assennati. In qu esto modo dunque il dio rivolge a coloro che entrano nel santuario
un saluto differente da quello che usano gli uomini: con questo pensiero fece la dedica colui che la offrì, a mio parere; e
dice, a colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro che "Sii saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto
enigmatica, come fa un indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii saggio" sono la stessa cosa, come indica l'iscrizione
(27) e come sostengo anch'io, ma forse qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a mio avviso, è
capitato a coloro che in seguito dedicarono le iscrizioni "Nulla di troppo" (28) e "Garanzia porta guai".(29) Costoro
infatti pensarono che "Conosci te stesso" fosse un consiglio, ma non un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano;
quindi anche loro, per offrire consigli non meno utili, scrissero e dedicarono queste parole. Il fine per cui io dico tutto
questo dunque, o Socrate, è il seguente: ti lascio cadere tutto ciò che ho detto prima - in effetti forse su quei punti avevi
più ragione tu in qualcosa, forse invece avevo più ragione io, ma nulla di ciò che dicevamo era chiaro -; ora voglio
renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza è conoscere se stessi».
«Ebbene, Crizia», dissi, «tu con me ti comporti come se io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo delle
domande e potessi essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma non è così, al contrario, infatti io indago assieme
con te di volta in volta il problema che si presenta, perché io stesso non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se
sono d'accordo o se non lo sono.
Suvvia, aspetta finché io non abbia fatto il mio esame».
«Fai dunque il tuo esame», disse.
«Difatti lo sto facendo», replicai io, «se infatti assennatezza fosse conoscere qualcosa, è chiaro che sarebbe una
scienza e una scienza di qualcosa o no?» «Lo è di se stessi», rispose.
«Dunque anche la medicina», chiesi, «è scienza della salute?» «Certamente».
«Se allora tu mi chiedessi», continuai «"Essendo la medicina scienza di ciò che è sano, in cosa è per noi utile e che
cosa procura?", risponderei che è di non poca utilità, perché ci procura un bel risultato, la salute, se accetti questa idea».
«Sono d'accordo».
«E se poi tu mi domandassi dell'architettura, che è la scienza del costruire, quale risultato a mio dire produca,
risponderei che produce le abitazioni; e allo stesso modo anche per le altre arti. Bisogna dunque che anche tu risponda a
proposito della assennatezza, dal momento che affermi che essa è conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia,
l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci procura, e degno del suo nome?".
Via, rispondi».
«Ma, Socrate», replicò, «la tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non è simile alle altre scienze né le altre
scienze si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo la tua ricerca come se esse fossero simili. Perché, dimmi»,
continuò, «quale risultato del calcolo o della geometria è simile alla casa dell'architettura o al mantello prodotto della
tessitura o ad altre opere di tal genere che in gran numero si potrebbero indicare come prodotti di molte arti? Ebbene,
puoi mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia di tal genere? Ma non potrai».
E io risposi: «Dici il vero; ma posso mostrarti questo, di cosa sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad
essere distinto dalla scienza stessa. Per esempio, il calcolo è la scienza del pari e del dispari, della quantità, come sia
rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari tra loro; (30) o no?» «Certamente», rispose.
«Il dispari e il pari, non sono diversi rispetto al calcolo stesso?» «Come no?» «E a sua volta la statica è arte del
pesare il peso più pesante e il peso più leggero; tuttavia il pesante e il leggero sono diversi dalla statica stessa. Sei
d'accordo?» «Sì».
«Di' allora, anche l'assennatezza, di cosa è scienza, che si trovi ad essere diverso dall'assennatezza stessa?» «Questo
è il punto», replicò, «o Socrate: tu arrivi allo stesso risultato, cercando in che cosa differisce da tutte le scienze
l'assennatezza; ma continui a cercare una certa qual somiglianza di questa con le altre. La cosa però non sta così, al
contrario, tutte le altre sono scienze di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola invece è scienza delle altre scienze e
anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma, penso, ciò che poco fa affermavi di non fare, lo stai
facendo, perché cerchi di confutare, dopo aver lasciato andare l'argomento su cui verte il discorso».
«Quale errore fai», dissi, «a pensare che se ti confuto quanto più è possibile, lo faccio per qualche altra ragione che
non sia appunto quella per cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza avvedermene, io pensi di
sapere, mentre non so.
E quindi io, per parte mia, dichiaro adesso di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel mio stesso
interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse non pensi che sia un bene comune per quasi tutti gli
uomini che ognuna delle cose che esistono diventi evidente nel suo modo di essere?» «è proprio ciò che penso anch'io,
o Socrate», rispose.
«Coraggio, dunque», ripresi, «carissimo, rispondendo alla domanda nel modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia
Crizia o Socrate colui che viene confutato; ponendo invece attenzione al ragionamento stesso esamina in che modo ne
verrà fuori, se viene confutato».
«Ebbene», concluse, «farò così: le tue parole mi sembrano misurate».
«Parla allora», ripresi io, «riguardo all'assennatezza cosa dici?» «Affermo allora», rispose, «che sola tra le altre
scienze essa è scienza di se stessa e delle altre scienze».
«Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza», chiesi io, «se lo è anche della scienza?» «Certamente», rispose.
«Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso e sarà in grado di esaminare che cosa egli si dà il caso che sappia e
che cosa non sa, e sarà capace allo stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di sapere, se
davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo può farlo, nessun altro.
Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza: conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa.
Non è questo ciò che vuoi dire?» «Sì», rispose.
«E ancora», ripresi, «con la terza coppa al salvatore, (31) come all'inizio esaminiamo in prima istanza se questa cosa
sia possibile oppure no - sapere che si sanno e che non si sanno le cose che si sanno e quelle che non si sanno -; in
seconda istanza, se è possibile nel modo più assoluto, quale utilità ne potremmo ricavare noi a saperlo».
«Certo, bisogna fare un'indagine», disse.
«Via, Crizia», incalzai, «esamina se riguardo a questi argomenti tu non possa apparire in qualcosa più pieno dì
risorse di me, perché io sono in difficoltà; ma devo dirti in cosa sono in difficoltà?» «Certo», rispose.
«Tutto questo», dissi io, «non sarebbe forse, se davvero è come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la quale non è
scienza di nient'altro se non di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della mancanza di scienza?»
«Certo».
«Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno, ci accingiamo a fare questo ragionamento: infatti se esamini
questo stesso punto in altri contesti, ti sembrerà, com'io credo, impossibile».
«Come e in quali contesti?» «In questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non sia la vista di quelle cose
delle quali ci sono altre viste, ma che sia la vista di se stessa e delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di vista,
e, pur essendo una vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le altre viste: ti sembra che possa esistere una vista
di tal genere?» «Per Zeus, no».
«E un udito che non oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli altri uditi e le assenze di udito?»
«Neppure questo».
«Insomma esamina tutte le percezioni, ti sembra che qualcuna sia percezione delle percezioni e di se stessa, ma che
delle cose delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non abbia nessuna percezione?» «Non lo penso».
«Ma ti sembra che esista un desiderio che non sia desiderio di nessun piacere, ma di se stesso e degli altri desideri?»
«No davvero».
«Neppure una volontà, com'io credo, che non voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volontà».
«No, certo».
«Potresti affermare che esista un amore tale che si trovi ad essere amore di nessuna bellezza, ma di se stesso e degli
altri amori?» «No», rispose.
«E hai già osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre paure, ma non tema neppure una sola delle cose
terribili?» «Non l'ho notata», rispose.
«Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle cose sulla quali opinano le altre opinioni non
opini?» «In nessun modo».
«Ma, a quel che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non è scienza di nessuna disciplina: non
è scienza di nulla, ma è scienza di se stessa e delle altre scienze?» «Lo affermiamo infatti».
«Non è assurdo, se davvero esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste, esaminiamo
piuttosto ancora se esiste».
«Dici bene».
«Vediamo dunque: questa scienza è scienza di qualcosa e ha un potere tale da esserlo di qualcosa, o no?»
«Certamente».
«E difatti noi affermiamo che ciò che è maggiore ha un potere tale da essere maggiore di qualcosa?» «Difatti lo ha».
«E di qualcosa che è minore, se davvero è maggiore?» «Necessariamente».
«Se dunque trovassimo qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se stesso, ma che non
fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali le altre sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se
davvero è maggiore di se stesso, di essere anche minore di se stesso; o no?» «Assolutamente inevitabile, o Socrate»,
rispose.
«Ancora, se qualcosa è doppio delle altre cose doppie e di se stesso, sarebbe dunque il doppio di una metà che è sia
se stesso sia gli altri doppi: (32) e difatti non c'è doppio di altro che della metà».
« è vero».
«Essendo dunque più di se stesso, non sarà anche meno? Ed essendo più pesante più leggero, ed essendo più anziano
più giovane e in tutto il resto allo stesso modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non avrà
anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio dire questo: per esempio l'udito, diciamo, non
era udito di altro se non del suono, o no?» «Sì».
«Se dunque sentirà se stesso, sentirà se stesso perché provvisto di suono, altrimenti non si udrebbe».
«Decisamente inevitabile».
«E la vista, nobile uomo, se davvero essa vedrà se stessa, deve necessariamente avere essa stessa un colore, perché
una vista non potrebbe mai vedere niente che sia incolore».
«No, certo».
«Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo esposto, alcune ci sono parse assolutamente impossibili, su altre ci
sono forti dubbi che possano avere su loro stesse il loro stesso potere?
Infatti per le grandezze, le quantità e altre cose di tal genere è assolutamente impossibile; o no?» «Certamente».
«L'udito poi e la vista e ancora lo stesso movimento che possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre

cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulità, in altri forse no. C'è bisogno, mio caro, di un grande uomo
che distinguerà adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per natura il suo potere essa su se
stessa, ma su altro alcune sì e altre no; e s e poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c'è la
scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace di fare queste distinzioni: perciò non
posso sostenere fermamente ne se sia possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, né, nel caso sia
precisamente così, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza, prima che io abbia esaminato se, essendo di tale
natura, possa esserci utile o no. Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E tu dunque, figlio
di Callescro - giacché stabilisci che l'assennatezza è questo, scienza di una scienza e quindi anche di una mancanza di
scienza - per prima cosa mostra che è possibile ciò che poco fa io dicevo, in secondo luogo che oltre ad essere possibile
è anche utile; e forse potresti anche soddisfare me, con l'idea che sia giusta la definizione che dài dell'assennatezza».
E Crizia, udite queste parole e avendomi visto in difficoltà, come accade a coloro che, nel vedere delle persone
sbadigliare, ne condividono il bisogno, anche lui mi sembrò costretto dal mio essere in difficoltà e preso egli stesso
dall'imbarazzo. Poiché dunque in ogni occasione si faceva onore, provava vergogna davanti ai presenti, e non voleva
concedermi di non essere capace di distinguere le cose sulle quali io lo avevo chiamato a fare distinzioni, e non diceva
nulla di preciso, cercando di nascondere l'imbarazzo.
E io, per far proseguire il nostro ragionamento, dissi: «Ma se è opportuno, o Crizia, ammettiamo pure ora questo
dato, che è possibile che esista una scienza della scienza; esamineremo di nuovo se è così o no.
Suvvia, posto che questo sia assolutamente possibile, in cosa allora è maggiormente possibile sapere quel che uno sa
o quale che non sa? Dicevamo (33) infatti che questo è appunto conoscere se stessi ed essere assennati; o no?» «Certo»,
rispose, «e in certo qual modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce se stessa, sarebbe
della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio quando uno ha la velocità, veloce, quando ha la bellezza,
è bello, e quando ha la conoscenza, è uno che conosce; quando però uno abbia una conoscenza che conosca se stessa, in
certo qual modo sarà allora egli stesso conoscitore di se stesso».
«Non discuto questo», ribattei io, «che quando un uomo possieda una cosa che conosce se stessa, non conoscerà egli
stesso se stesso, ma che necessità c'è che colui che abbia questa cosa sappia ciò che sa e ciò che non sa?» «Perché
queste due cose sono identiche, Socrate».
«Forse», ribattei, «ma ho paura di essere sempre allo stesso punto, perché non capisco come possa essere lo stesso il
sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa».(34) «Come dici?», chiese.
«Dico questo», risposi, «una scienza che in qualche modo è scienza di scienza sarà in grado di distinguere di più
rispetto al dire: di queste cose l'una è scienza, mentre l'altra non è scienza?» «No, ma solo questo».
«Dunque vale lo stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e per la scienza e l'ignoranza del giusto?» «In
nessun modo».
«Ma l'una, credo, è la medicina, l'altra la politica, mentre quest'altra non è nient'altro che scienza».
«Come no, infatti».
«Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto, ma conosce solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza
di questo, potrebbe ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri, che sa una cosa e possiede una
scienza, o no?» «Sì».
«Ciò che conosce grazie a questa scienza come lo saprà?
Infatti conosce ciò che è sano grazie alla medicina, ma non grazie all'assennatezza, ciò che è armonico grazie alla
musica, ma non grazie all'assennatezza, ciò che riguarda le costruzioni grazie all'architettura, ma non grazie
all'assennatezza, e così via, o no ?» «è evidente».
«Ma grazie all'assennatezza, se davvero è soltanto scienza delle scienze, come saprà che conosce ciò che è sano o
ciò che riguarda le costruzioni?» «In nessun modo».
«Dunque colui che ignora queste cose non saprà ciò che sa, ma saprà soltanto che sa».
«Sembra».
«Né l'essere assennati né l'assennatezza sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose che non si
sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa».
«è probabile».
«Né costui sarà capace di esaminare se un altro, che va dicendo di conoscere qualcosa, sa ciò che dice di sapere o
non lo sa; ma conoscerà questo soltanto, a quanto sembra, che possiede una scienza, di cosa però l'assennatezza non
glielo farà conoscere».
«Non pare».
«Non sarà in grado di distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo è e chi invece lo è realmente, né nessun
altro di coloro che sanno e non sanno. Esaminiamo dunque da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia riconoscere il
vero medico e colui che non lo è, non si comporterà dunque in questo modo. Non gli parlerà certo di medicina - perché
il medico, come dicevamo, non si intende di nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no?» «Sì, è così».
«Di scienza invece non sa nulla, questa la attribuimmo infatti all'assennatezza soltanto».
«Sì».
«Né di medicina sa nulla il medico, dal momento che la medicina si dà il caso che sia appunto una scienza».
«è vero».
«Che dunque il medico possiede una scienza, l'assennato lo comprenderà; poiché tuttavia bisogna sperimentare
quale sia, non esaminerà forse di quali cose sia scienza? O non è forse vero che, grazie a questo, di ogni scienza viene

stabilito non soltanto che sia scienza ma anche uale scienza sia, grazie cioè al fatto che è scienza di qualcosa?» «Grazie
a questo, certo».
«E la medicina viene definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che è scienza del sano e del malato».
«Sì».
«Dunque colui che voglia indagare sulla medicina non deve forse ricercare all'interno di quelle situazioni nelle quali
la medicina sia presente e certo non in quelle esterne alla medicina o nelle quali questa non sia contemplata?» «Certo
non in queste».
«In ciò che è sano e in ciò che è malato dunque colui che fa un'indagine corretta esaminerà il medico, in quanto
medico».
«è naturale».
«Indagando dunque nelle parole dette e nelle azioni compiute in questo modo: le parole, per vedere se sono ben
dette, le azioni, per vedere se sono ben fatte?» «Necessariamente».
«Senza la medicina potrebbe qualcuno prestare attenzione all'una o all'altra di queste due cose?» «No davvero».
«Nessun altro potrebbe farlo, com'è naturale, tranne un medico, neppure un assennato, perché dovrebbe essere un
medico in aggiunta all'assennatezza».
«è così».
«Soprattutto, se l'assennatezza è soltanto la scienza della scienza e dell'ignoranza, non sarà in grado di distinguere né
un medico che conosce i princìpi della sua arte o colui che non li conosce ma pretende di conoscerli o pensa di
conoscerli, né nessun altro di coloro che conoscono una scienza e qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di
una persona che condivida la sua arte, come gli altri artigiani».
«è evidente», disse.
«Quale vantaggio dunque», dissi, «Crizia, potremmo ancora ricavare da una assennatezza che sia di tal fatta? Se
infatti, ipotesi che facevamo all'inizio, l'assennato sapesse ciò che sa e ciò che non sa, e sapesse queste cose di saperle e
queste altre di non saperle, e fosse in grado di esaminare un altro che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di
grandissima utilità, diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi stessi che possediamo l'assennatezza e tutti
gli altri quanti fossero governati da noi.
E difatti non ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che sappiano, le affideremmo a
loro, né permetteremmo agli altri, sui quali esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ciò che potrebbero fare
bene: e questo sarebbe ciò di cui abbiano scienza; e così, una casa amministrata dall'assennatezza sarebbe ben
amministrata, una città ben governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza: rimosso l'errore, e
facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni azione è necessario che coloro che si trovano in queste condizioni
abbiano buona fortuna e d'altra parte, avendo buona fortuna, siano felici. Non è questo», dissi, «Crizia, che intendevamo
a proposito dell'assennatezza, dicendo quale grande bene sarebbe conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa?»
«Certamente», rispose: «è così».
«Ora», ripresi io, «vedi che non è apparsa in nessun luogo nessuna scienza di questo tipo».
«Lo vedo», disse.
«Non ha forse questo di buono», continuai, «la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il conoscere la
scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra cosa apprenda, la apprenderà più facilmente e tutto gli
apparirà più chiaro, dato che, in aggiunta a ogni cosa che apprenda, (35) avrà la visione della scienza, ed esaminerà
meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia appreso, mentre gli altri, conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno
in maniera più debole e mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza, mentre
noi miriamo a qualcosa di più grande e desideriamo che questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia?» «Forse è
così», rispose.
«Forse», dissi io, «forse però noi non cercammo niente di utile. Faccio questa congettura perché mi appaiono certi
strani fatti riguardo all'assennatezza, se è di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso che è possibile
conoscere la scienza e ciò che all'inizio ponevamo essere l'assennatezza, cioè conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa,
non neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste cose, esaminiamo ancora meglio se, essendo tale,
ci porterà anche qualche vantaggio. Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere ciò che
dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran bene, facendo da guida all'amministrazione sia della
casa sia della città».
«Come mai?» domandò.
«Perché», risposi, «ammettemmo con facilità che è un grande bene per gli uomini se ognuno di noi facesse le cose
che sa, mentre quelle che non sa le affidasse ad altri che le conoscano».
«Dunque non facemmo bene ad ammetterlo?» «No, non mi sembra», risposi io.
«Dici cose strane veramente, o Socrate», commentò.
«Per il cane!», (36) esclamai. «Anche a me sembra così, e avendo rivolto là lo sguardo anche poco fa, dicevo che mi
si mostravano davanti alcune cose strane e che temevo che la nostra ricerca non fosse esatta. Infatti veramente, se
l'assennatezza è esattamente tale, non mi sembra per nulla chiaro quale vantaggio essa ci arrechi».
«E come mai?», disse lui. «Parla, affinché sappiamo anche noi ciò che vuoi dire».
«Penso», dissi io, «di star sragionando; bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con
leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso».
«Parli bene», disse.

«Ascolta dunque», continuai, «il mio sogno, sia esso venuto attraverso la porta di corno o attraverso quella di
avorio.(37) Se infatti l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere, essendo quale ora la definiamo, forse tutto
verrebbe fatto in base alle scienze, e nessun nocchiero, che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe ingannarci, né
medico né stratego né nessun altro che finga di sapere qualcosa che non sa, potrebbe farla franca; dal momento che le
cose stanno così, potrebbe accaderci qualcos'altro se non che saremo fisicamente più sani di ora e ci salveremo nei
pericoli, sia in mare sia in guerra e avremo gli utensili, la veste, tutti i tipi di calzature e ogni oggetto fabbricato con arte
e molte altre cose, dal momento che ci serviamo di abili artigiani?
Se vuoi, ammettiamo che anche la mantica sia la scienza di ciò che deve avvenire e l'assennatezza, che è ad essa
preposta, tolga di mezzo i ciarlatani, e invece stabilisca i veri indovini quali profeti del futuro. Che così disposto il
genere umano potrebbe agire e vivere sapientemente, lo capisco - infatti l'assennatezza, stando di guardia, non
permetterebbe che l'ignoranza, sopravvenendo, fosse nostra collaboratrice -, ma che agendo sapientemente avremmo
fortuna e saremmo felici, questo invece non siamo ancora in grado di capirlo chiaramente, caro Crizia».
«Tuttavia», riprese, «non troverai facilmente un altro fine (38) dell'avere fortuna, se rifiuti l'agire secondo la
scienza».
«Insegnami allora ancora una piccola cosa», dissi io, «secondo la scienza di cosa intendi? Forse del taglio del
cuoio?» «Per Zeus, no».
«Allora della lavorazione del bronzo?» «Niente affatto».
«Allora della lana, del legno o di altro materiale del genere?» «No davvero».
«Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi vive secondo la scienza è felice. Infatti costoro,
nonostante che vivano secondo la scienza, tu non ammetti che siano felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo felice a
colui che vive secondo la scienza di determinate cose. E forse ti riferisci a colui che menzionavo poco fa, colui che
conosce tutto ciò che sta per avvenire, l'indovino.
Ti riferisci a lui o a qualcun altro?» «A lui», rispose, «e a un altro».
«Chi?», domandai. «Forse un uomo del genere, se oltre a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose passate e
quelle presenti e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo esista. Non potresti infatti, penso, dire che ci sia al
mondo qualcuno che vive con più scienza di lui».
«No, certo».
«Desidero inoltre sapere questo, quale tra le scienze lo rende felice?
O forse tutte nella stessa misura?» «Nient'affatto nella stessa misura», rispose.
«Ma quale più di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le cose presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella
grazie alla quale conosce il gioco degli scacchi?» (39) «Ma quale gioco degli scacchi?», esclamò.
«Allora quella grazie alla quale conosca il calcolo?» «Nient'affatto».
«Allora quella per cui conosce ciò che è sano?» «Piuttosto», rispose.
«Ma qual è quella scienza alla quale faccio particolare riferimento», continuai, «grazie alla quale, cosa può
conoscere?» «Quella per cui conosce il bene e il male».
«Ah furfante», esclamai, «da tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il vivere secondo scienza a fare la
fortuna e la felicità, né è prerogativa di tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che è soltanto quella che tocca il
bene e il male. Perché, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre scienze, forse la medicina farà guarire un po' meno,
l'arte del calzolaio farà calzare meno scarpe, la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero impedirà meno di morire in
mare e quella dello stratego in guerra?» «Non meno», rispose.
«Ma, caro Crizia, che ognuna di queste cose avvenga bene e in modo utile ci verrà a mancare, se questa scienza è
assente».
«Quel che dici è vero».
«Questa scienza dunque, a quel che sembra, non è l'assennatezza, ma quella la cui funzione è di esserci utile. Infatti
non è la scienza delle scienze e delle non scienze, ma del bene e del male: cosicché, se dunque la scienza utile è
quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe qualcosa di diverso».
«Perché», chiese, «non potrebbe esserci utile? Infatti se l'assennatezza è in modo particolare scienza delle scienze,
presiede anche le altre scienze, e, avendo potere anche su questa, cioè la scienza del bene, dovrebbe esserci utile».
«Quale fa guarire?», chiesi. «Questa? E non la scienza medica? E le altre opere delle arti le compie questa e non le
altre arti, ciascuna la propria? Non abbiamo invece stabilito da tempo che essa è unicamente scienza della scienza e
della mancanza di scienza e di nient'altro, non è così?» «Almeno pare».
«Non sarà dunque artefice di salute?» «No, certo».
«La salute era infatti opera di un'altra arte, o no?» «Si, di un'altra».
«Né dunque sarà artefice di utilità, caro compagno: perché poco fa attribuimmo a un'altra arte questo compito, è
vero?» «Certo».
«In che modo sarà dunque utile l'assennatezza, se non è artefice di nessuna utilità?» «In nessun modo, o Socrate,
almeno sembra».
«Vedi dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io temessi e a buon diritto mi rimproveravo di non aver condotto
un'indagine utile sull'assennatezza? (40) Infatti la cosa che per generale ammissione è tra tutte la più bella non ci
sarebbe apparsa priva di utilità, se io fossi stato di qualche utilità alla realizzazione di una buona ricerca. Ora siamo
invece battuti su tutti i fronti e non siamo in grado di scoprire per quale delle realtà esistenti il legislatore (41) pose
questo nome, l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte cose che non conseguivano al nostro ragionamento.
Platone Carmide
Infatti ammettemmo che è scienza della scienza, nonostante che il ragionamento non lo permettesse e affermasse
che non è così; concedemmo poi a questa scienza di conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che
neppure questo ammettesse il ragionamento, affinché l'assennato potesse diventare per noi uno che sa di sapere quello
che sa e di non sapere quello che non sa. E questo lo ammettemmo con grande generosità, senza riflettere sul fatto che è
impossibile che uno possa in qualsiasi modo sapere cose che non sa assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che
si sa ciò che non si sa. Eppure, com'io credo, non c'è nulla rispetto a cui questo non potrebbe apparire più assurdo.
Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati così disponibili e non inflessibili, n on è maggiormente in grado di trovare la
verità, anzi tanto l'ha derisa che ciò che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando insieme, stabilimmo essere
l'assennatezza ci appariva manifestamente, con grande insolenza, inutile. Dunque io, per parte mia, mi indigno meno;
ma per te», continuai, «o Carmide, sono molto indignato, se tu, che sei tale per aspetto e oltre a ciò molto assennato
nell'animo, non trarrai nessuna utilità da questa assennatezza, né ti sarà di alcuna utilità la sua presenza nella vita. Ma
ancora di più mi indigno per la formula magica che imparai dal Trace, (42) se, mentre è di nessun valore pratico, ci misi
tanto zelo ad impararla. Ebbene, non credo che le cose stiano così, ma che io sono un ricercatore mediocre; perché,
penso, l'assennatezza è un gran bene e se davvero la possiedi, sei un uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun
bisogno della formula magica, perché se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di ritenere me un chiacchierone,
incapace di ricercare col ragionamento alcunché, te invece quanto più assennato tanto più felice».
E Carmide, «Ma per Zeus», disse, «io non so né se la possiedo né se non la possiedo: come potrei sapere ciò che
neppure voi siete capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io non sono tuttavia molto persuaso da te, e per parte
mia, o Socrate, credo di avere molto bisogno della formula magica e per quel che concerne me nulla impedisce che
venga incantato da te tanti giorni finché tu dica che è sufficiente».
«E sia: tuttavia, o Carmide», disse Crizia, «se lo farai, questa sarà per me la prova che sei assennato, nel caso tu ti
sottoponga all'incantamento di Socrate e non ti allontani da lui né molto né poco».
«Stai sicuro che lo seguirò e non lo lascerò», rispose, «perché mi comporterei in modo terribile, se non obbedissi a
te, il tutore, e non facessi ciò che mi ordini».
«Ebbene», ribatté l'altro, «io te lo ordino».
«Lo farò», rispose, «a partire da questo stesso giorno».
«Voi due», intervenni io, «che cosa state decidendo di fare?» «Nulla», rispose Carmide, «abbiamo già deciso».
«Allora mi costringerai», esclamai, «e non mi concederai la possibilità di un'inchiesta?» (43) «Stai sicuro che ti
costringerò, dal momento che costui me lo ordina; in considerazione di ciò decidi tu cosa farai».
«Ma non resta nessuna decisione», dissi io, «infatti se tu ti metti a fare qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo
sarà capace di contrastarti».
«No, certo», ribatté: «non opporti neppure tu».
«Allora non mi opporrò», dissi io.

NOTE
1) è la lezione "ecomen" adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al singolare, "econ men").
2) Colonia corinzia, entrata nella Lega navale delio-attica. Atene le impose di rinunciare ai suoi legami con la
madrepatria Corinto, la quale annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo), incaricato di partecipare al
governo della città. Il rifiuto di Potidea alle richieste ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio
della guerra del Peloponneso.
L'assedio di Potidea, da parte del contingente ateniese guidato da Callia, durò dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide, 1,
56-66). Nell'Apologia (28e) Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedeltà, da lui dimostrata sul campo a Potidea, appunto,
ad Anfipoli e a Delio.
3) Si tratta evidentemente di un istruttore, di cui non sappiamo altro.
4) Antica divinità ateniese, nel cui santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario si trovava
probabilmente a sud dell'Acropoli.
5) Cherefonte, del demo attico di Sfetto, è ricordato come amico di Socrate già da Aristofane (Nubes 104) e da
Senofonte (Memorabilia primo 2, 48).
Compare come interlocutore anche nel Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene esiliato dai Trenta
Tiranni nel 404 a.C., rientra ad Atene nel 403, con Trasibulo. Nel 399, anno dei processo e della morte di Socrate,
Cherefonte era già morto (cfr. Apologia Socratis 21a).
A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate il più saggio degli uomini. La Suida accenna a
presunte opere di Cherefonte, perdute tuttavia già nell'antichità.
6) Callescro era fratello di Glaucone, nonno materno di Platone.
7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua volta fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente).
Figlia di Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto nipote di Carmide, e figlio della cugina di
Crizia.
8) Cfr. Sofocle, frammento 330 Radt: «su pietra bianca cordicella bianca».
I carpentieri che normalmente usano per le misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca
strumento non funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate si definisce dunque "cordicella bianca",
giudice non funzionale, per questa sua tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni. Ma Carmide,
come dimostreranno già le prime battute sul suo arrivo, smantellerà completamente questa convinzione del maestro.
9) La discendenza di Carmide e di Crizia da Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era
nonno di Carmide e del nostro Crizia (cfr. 157e; Timaeus 20e). Secondo Diogene Laerzio, Volume 3, 1, e Proclo, In
Platonis Timaeum 26b, Dropide era fratello di Solone.
Solone fu arconte ad Atene nel 594/593 a.C. (Diogene Laerzio, Volume 1, 62) o nel 592/591 a.C. (Aristotele,
Respublica Atheniensium 14, 1). Abolì i debiti e liberò dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libertà a coloro
che, insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona.
Riformò il sistema dei pesi e delle misure e introdusse una moneta più leggera, con una svalutazione che favoriva in
modo particolare i debitori.
Nella vecchia ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei pentacosiomedimni. Fu scrittore di
elegie (5.000 versi, secondo Diogene Laerzio, Volume 1, 61), poesie giambiche ed epodi.
10) Poeta lirico forse da identificare col Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e Archiloco (De facie
in orbe lunae 19, 931e).
11) Il principio qui esposto, della corrispondenza della parte e delle parti col tutto nell'organismo umano, è alla base
della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus Hippocraticum è compreso un trattato (Sul regime di vita).
12) Divinità dei Traci, identificato da Mnasea (in Fozio, s.v. "Zalmoxis") con il dio greco Crono. Erodoto (quarto,
94-96) racconta che prima di essere dio fu uomo, schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libertà, tornò in Tracia,
dove annunciò ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti sarebbero vissuti in eterno e avrebbero avuto ogni bene.
Queste notizie, che Erodoto ha raccolto tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare le analogie tra
sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico e ristabilisce la giusta cronologia, dichiarando che
Zalmoxis è in realtà vissuto prima di Pitagora. Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1959, pagine 159-209.
13) Per il senso più ampio da attribuire al termine greco "sophrosúne" cfr. quanto osservato nella premessa al
dialogo.
14) Cfr. le note 7 e 8.
15) Cfr. la nota 9.
16) Anacreonte nacque a Teo, in Asia Minore, intorno al 570 a.C., e morì nel 485 a.C. Visse alla corte di Policrate dì
Samo (tiranno dal 533 al 522 circa) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia e ad Atene. Fu autore di componimenti in
metro elegiaco, giambico e in metri lirici quali l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo.
17) Del Crizia antenato del Crizia del quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone (frammento 22 Gentili-
Prato).
18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di Pericle (Plutarco, Pericles 13). Era famoso per i suoi allevamenti di
pavoni che probabilmente aveva portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle fonti come secondo marito di
Perictione, madre di Platone.
19) Abari è sciamano e taumaturgo, che Erodoto (4, 36) definisce sacerdote di Apollo. Pindaro (frammento 283
Bowra) lo assegna all'età di Creso (560-546 a.C.). Di lui si raccontava che viaggiasse senza mai mangiare e che portasse
con sé una freccia donatagli da Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione ufficiale dal paese degli
Platone Carmide
14
Iperborei ad Atene al tempo della terza Olimpiade. Abari, come Zalmoxis e Pitagora, è un altro esempio di ponte
gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente.
20) Combattimento combinato di lotta ("pále"), e pugilato ("pugme").
Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed
accecare l'avversario.
Cfr. Platone, Euthydemus 271c-272a.
21) Cfr. Odyssea libro 17, verso 347.
22. Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che la definizione sia di Crizia è confermato dalla reazione indispettita
che Platone gii attribuisce in 162c.
Si tratta di una formula che Platone considerava evidentemente momento essenziale del percorso di ricerca della
definizione ultima di "sophrosúne".
In Crizia la definizione doveva avere una valenza specificamente politica e riflettere il «settarismo esclusivista di
una concezione di vita che sprofondava le sue radici nell'antica etica aristocratica» (A. Battegazzore, in Sofisti.
Testimonianze e frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, Firenze 1962, pagina 339).
23) Lo strigile era uno strumento impiegato nella palestra per raschiare dal corpo l'olio e la sabbia. Probabilmente c'è
qui un riferimento polemico a Ippia di Elide (cfr. Hippias minor 368b-d), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e
ad Olimpia esibì un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un mantello, e perfino una tunica e una cintura di
foggia persiana, interamente realizzati da lui.
24) Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il diverso significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non
necessariamente collegato con una realizzazione di oggetti che è invece implicita nel verbo "poieo", come anche nel
verbo "érgazestai" 'lavorare', che Platone impiega qualche riga più in basso (A. Braun, I verbi del «fare» nel greco, in
«Studi italiani di filologia classica» 15, 1939, pagine 260-261).
25) Esiodo, Opera et dies 311. La formulazione anticipa uno dei princìpi del l'etica attivistica periclea , nel
"manifesto" della democrazia ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età
micenea all'età romana, Bari-Roma 1994, pagina 208; Idem Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma 1995, pagine
104-105.
26) Prodico dì Ceo, sofista contemporaneo di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel 400 a.C., scrisse le
"Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla natura". Viaggiò in molte città greche come ambasciatore e spesso ad Atene,
dove offriva ai giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilità di optare tra lezioni da una dracma e lezioni da
cinquanta dracme. Le sue ricerche, tra le altre cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr. Platone, Hippias
maior 282c.
27) L'iscrizione sull'architrave del santuario di Apollo a Delfi aveva probabilmente un significato religioso, di
ammonimento al visitatore affinché ricordasse la sua condizione mortale.
28) Cfr. Teognide, 335 e 401.
29) Proverbio cui fa riferimento in un frammento anche il commediografo Cratino.
30) Cfr. Platone, Gorgias 451b-c.
31) Espressione proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi (a Zeus Salvatore), il decisivo,
perché decisivo ci si augura che sia il terzo tentativo di definizione della "sophrosúne".
32) Passo di difficile interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: «se qualcosa è doppio di altri doppi e di se stesso,
sarebbe doppio essendo quindi metà sia di se stesso sia degli altri doppi», oppure come proposto nel testo.
33) Cfr. 167a. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso...».
34) Non è a mio parere necessario aggiungere al testo «con il conoscere se stessi», coma propone Diano, né
espungere, come fanno vari filologi, la parte finale della frase «il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa».
35) Cfr. Platone, Laches 182b-c.
36) Esclamazione che Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis 22a).
37) Cfr. Omero, Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno passano i sogni veritieri inviati agli uomini
dagli dèi, attraverso la porta di avorio passano invece i sogni falsi.
38) "Telos" significa 'compimento', 'realizzazione', 'fine'.
39. I "pessoi" erano 'pedine' usate in un gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges 739a). I "pessoi"
sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati "cuboi".
40) Cfr. 172c. (I tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza...).
41) L'idea che i nomi siano stabiliti da un legislatore o da una legge divina è ampiamente sviluppata nel Cratilo.
42) Cfr. 156d. (E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio...).
43. Il termine "anácrisis" appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria preliminare.

 

Eugenio Caruso - 12-07-2019

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