Le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale richiedono il massimo esercizio dell’intelligenza umana per sfruttarne al meglio le opportunità e contenerne i rischi. Prevale, per ora, l’impatto “disruptive”, dirompente, di una rivoluzione tecnologica che produce algoritmi sempre più raffinati e che alimenta, con un enorme flusso di dati, i meccanismi del “machine learning”: le macchine che imparano in modo autonomo, senza bisogno di interventi umani. È una rivoluzione con i suoi vantaggi certi, in campo economico, medico, scientifico; ma che pone anche sfide indubbie, politiche e sociali. Per semplificare al massimo: gli ottimisti pensano ai possibili benefici della “singularity” – le macchine che arrivano ad avere una capacità di pensare analoga o superiore a quella dell’uomo; i pessimisti ne sottolineano i rischi per la democrazia contemporanea e la libertà individuale. Per Aspenia, è una rivoluzione che non va certo bloccata ma che deve essere regolamentata. Intelligenza artificiale guidata dall’intelligenza umana, senza cadere nella tecnofobia.
La peculiarità di molte delle nuove tecnologie è che hanno un impatto diretto
sia sugli equilibri globali (tra Stati e fra entità non statuali) che sulla
vita quotidiana dei cittadini. L’intelligenza artificiale ha anzitutto una forte
valenza geopolitica: è uno dei fattori centrali della nuova competizione
internazionale e in modo particolare della strisciante guerra fredda hi-tech
fra gli Stati Uniti e la potenza sfidante, la Cina. Per ora Washington è in
netto vantaggio, anche perché può disporre di maggiori talenti e della spinta
del business privato. Ma la Cina sta investendo risorse pubbliche molto
più rilevanti e dispone di una mole di dati – la benzina del machine learning
– decisamente superiore. L’esito finale del confronto fra “autoritarismo
digitale” e “democrazia liberale” non è predeterminato.
Al tempo stesso, l’intelligenza artificiale è destinata a esercitare un’influenza
primaria sul modo di consumare, lavorare e perfino pensare delle
persone. È una combinazione che si è verificata altre volte in passato,
con le grandi rivoluzioni tecnologiche e le maggiori scoperte scientifiche:
ma mai con la rapidità e la pervasività di quanto sta accadendo nel
XXI secolo.
Gli utenti/consumatori sono attirati da opportunità di connessione, conoscenza
rapida e socializzazione. Ma in effetti producono così loro stessi la
materia prima dei big data, senza curarsi granché delle conseguenze:
nell’era del “digito ergo sum” (espressione di Giulio Tremonti, nel suo ultimo
libro), la democrazia liberale appare fragile sia all’interno che sul
piano globale. Il rischio di nuove forme di autoritarismo digitale è crescente.
Come scrive Yuval Noah Harari (21 lezioni per il XXI secolo), le
rivoluzioni della tecnologia dell’informazione sono ancora in una fase iniziale
ed è quindi discutibile in che misura siano effettivamente all’origine
della crisi attuale del liberalismo. Ma il rischio è che il dominio degli algoritmi
pregiudichi l’idea stessa di libertà individuale.
Da parte loro, le imprese adottano le nuove tecnologie per fini competitivi
e in alcuni casi per lanciare servizi o prodotti che prima non esistevano
affatto. La presenza di reti digitali all’interno dei processi produttivi è uno
degli strumenti essenziali di rinnovamento industriale e di espansione dei
mercati.
Le istituzioni e la politica cercano di tenersi al passo coi tempi e incorporano
gli strumenti digitali nelle strategie di comunicazione, nei processi
decisionali e nella raccolta di informazioni – in tempo reale. I meccanismi
di funzionamento delle democrazie contemporanee ne vengono profondamente
toccati.
Dalla vita individuale al business, e fino ai sistemi politici, è praticamente
inevitabile interagire in modo continuo con massicci flussi di dati, il
“petrolio” della rivoluzione digitale. E si producono effetti a catena, ancora
difficili da valutare.
Facciamo un esempio. Il passo è breve – anzi brevissimo – tra l’adozione
pervasiva di uno strumento come lo smartphone e la sua “militarizzazione”
o comunque la sua mobilitazione per scopi che rientrano nella categoria
del cosiddetto “hard power”: come sempre nella storia, è inevitabile che le
conoscenze e le tecnologie più avanzate siano anche utilizzate a scopi coercitivi,
in modo più o meno trasparente.
La corsa agli armamenti digitali in cui sono impegnate le maggiori potenze
combina fattori tradizionali e vere novità: come spiegano Joseph Nye
e Michael Horowitz, l’intelligenza artificiale ha utilizzi molteplici e quasi illimitati e quindi si presta, nel campo della
sicurezza, a una diffusione rapida e non così controllabile. Ma, ricorda
opportunamente Nye, uno dei punti di forza delle società democratiche sta
proprio nella definizione di limiti alle strategie di sicurezza; in altre parole, nell’autolimitazione della sovranità (pur restando fermo il principio
dell’eccezionalità, in un equilibrio sempre delicato).
Va aggiunto che le barriere di accesso ad alcune tecnologie sono meno
proibitive rispetto alle difficoltà incontrate con le tecnologie strategiche
del passato anche recente: è in atto una sorta di democratizzazione degli
strumenti di potenza. Ciò avviene nel bene (i fenomeni del crowdsourcing
o delle start-up) ma avviene anche nel male (hacker, terroristi e così via).
Per la democrazia liberale di mercato come sistema politico, le dinamiche
in corso sono ambivalenti, perché le società aperte hanno un vantaggio
comparato nel settore della creatività ma sono fatalmente più esposte ai
rischi della iperconnessione. Le democrazie si fondano sulla discussione, il
confronto tra opinioni ugualmente legittime, la sperimentazione pragmatica;
è chiaro dunque che soffrano in modo acuto la manipolazione dei
dati e dell’informazione. Gli algoritmi, applicati ai social network e alle
grandi piattaforme, non esprimono soltanto correlazioni ma anche opinioni
– su cosa sia giusto diffondere, in che forma ed eventualmente con
quali limiti. I criteri adottati per fare queste scelte diventano essenziali per
la vita democratica.
I dibattiti in corso sul controllo etico degli algoritmi nascono da qui e
nascondono una sfida sottile: come gestire la spinta dei big data verso il
conformismo, salvaguardando la possibilità di dissenso, quale bene comune,
o ingrediente vitale, dei sistemi democratici. Se infatti gli algoritmi
identificano attraverso i grandi numeri le tendenze prevalenti, sfruttando
in vari modi la forza delle maggioranze e intervenendo sulle preferenze
individuali, diventa allora decisivo tutelare i diritti delle minoranze. Il
pericolo è di vedere le opinioni marginali o minoritarie sommerse da un
diluvio di opinioni “gaussiane” e concordanti.
Una sfida ulteriore – e anch’essa quanto mai delicata per la tenuta delle
società democratiche – è legata agli effetti dell’intelligenza artificiale sul
lavoro e sulle disuguaglianze. La rivoluzione tecnologica attuale potrebbe
ancora aumentare il divario tra società ricche e società meno ricche o povere.
Ma l’esito non è necessariamente scontato, visto che le tecnologie
sono anche una leva per “saltare” intere fasi dello sviluppo e dato che
l’adozione pratica di robot e algoritmi richiede una forte presenza locale e
una capacità di capire le diversità: è possibile, quindi, che l’impatto globale
di queste tecnologie non sia sperequativo.
Il vero rischio, come sottolinea l’imprenditore taiwanese di formazione
americana Kai-Fu Lee, è piuttosto un aumento trasversale delle disuguaglianze
tra chi è in grado di fare leva sull’intelligenza artificiale (grazie
alla cultura e alle conoscenze specialistiche) e chi invece compete – per
semplificare un quadro certamente più complesso di così – proprio con i
robot o gli algoritmi nel mercato del lavoro. I primi sono beneficiari di una
rivoluzione in atto, mentre i secondi ne sono potenziali vittime o comunque
soggetti passivi che possono al più adattarsi. Per usare ancora le parole di
Yuval Noah Harari, fasce crescenti della popolazione mondiale avranno
più difficoltà a lottare contro l’irrilevanza e la marginalità che non contro
lo sfruttamento, come è avvenuto nel secolo scorso.
A questa visione pessimista, si contrappongono – si diceva prima – letture
ottimistiche. Per esempio, la tesi di Domenico De Masi: se è indubbio che la rivoluzione tecnologica distruggerà più
occupazione di quanta ne creerà, sarà però possibile riorganizzare in modo
funzionale, grazie anche alla maggiore produttività, i tempi di lavoro. La
vita con i robot, sostiene De Masi, diventerà in fondo più umana.
Si inserisce in questo contesto anche la discussione sui modelli di business
dei “tecno-titani” (le megacompagnie dell’alta tecnologia che gestiscono
gli algoritmi più avanzati), con le loro implicazioni non solo economiche
(fiscalità, monopoli, ecc.) ma anche etiche (salvaguardia della privacy e
del consumatore/cittadino in senso più ampio). Il dilemma è ormai chiaro:
se appare molto costoso, quando non praticamente impossibile, tagliarsi
fuori dalle connessioni digitali, la iperconnessione genera d’altra parte
nuove forme di vulnerabilità. Come spiega Roberto Cingolani, l’approccio
“business oriented” degli americani fa leva sul primo aspetto; l’approccio
“regulation oriented” degli europei cerca di moderare il secondo. Entrambi
hanno punti di forza e di debolezza che verranno messi alla prova nei
prossimi anni.
Alcuni osservatori ritengono che l’approccio europeo consentirà in effetti
soluzioni più avanzate e sofisticate (a difesa dei diritti del cittadino-consumatore)
rispetto a politiche trainate soltanto dal business: il vecchio
continente starebbe aprendo una strada che altri potrebbero presto o tardi
seguire. Va in questo senso il nuovo regolamento europeo sulla protezione
dei dati (gdpr): secondo Niccolò Serri, si pongono così le basi di un “soft
power” tecnologico europeo, compensando la carenza di investimenti nel
digitale con un rafforzamento del quadro etico-normativo internazionale.
Vedremo fino a che punto le imprese europee potranno trarne un vantaggio:
per ora, il ritardo nel campo dell’intelligenza artificiale è molto netto,
sia quanto a tecnologie sviluppate sia quanto a risorse comuni per attutire
gli effetti sociali delle innovazioni digitali. L’Europa appare insomma in
una posizione marginale. L’esempio delle infrastrutture 5G indica che il
vecchio continente – in assenza di investimenti molto più consistenti nelle
nuove tecnologie – rischierà di restare schiacciata dalla competizione Stati
Uniti-Cina, giocata sul fragile confine fra economia e sicurezza.
Fra spinte di business e obiettivi regolatori, fra dilemmi etici e dilemmi
politici, fra competizione internazionale e sicurezza nazionale, risulta
chiaro che la gestione dell’intelligenza artificiale richiede anche un aumento di pensiero creativo: la capacità di immaginare soluzioni al di fuori
degli schemi consolidati. In che misura intelligenza umana e intelligenza
artificiale riusciranno davvero a combinarsi?
La sfida che riguarda l’Europa è davvero notevole, visto che alla carenza
di investimenti economici consistenti nelle nuove tecnologie digitali e ai
tradizionali problemi interni di coesione e metodo decisionale – problemi
tutti accentuati dai recenti risultati elettorali – si aggiunge ormai la pressione
esterna delle maggiori potenze. L’Europa è di nuovo contesa. Come
si è appena visto, la competizione bipolare Usa-Cina investe anche il vecchio
continente: nuove pulsioni imperiali (per dirla con Jean Pisani-
Ferry) investono le periferie meridionali d’Europa, mentre la variabile
russa complica il quadro geopolitico sul fronte orientale. L’intero edificio
di rapporti economici su cui si fonda il peso internazionale dell’Unione
Europea è minacciato dai mutamenti nei rapporti di sicurezza, ma anche
dalle stesse dinamiche tecnologiche che spingono i grandi aggregati continentali
in una corsa senza precedenti: chi controllerà i big data avrà un
vantaggio notevole.
È possibile immaginare, come risposta, una “Europa potenza”? Una potenza
sui generis, naturalmente, perché non fondata su uno Stato-nazione,
ma piuttosto su un’unione di Stati-nazionali capaci di esercitare un peso
globale aggregato: la condizione per tutelare, nel XXI secolo, i propri interessi
e valori. Fino a oggi, l’Europa non è stata capace di produrre questo
risultato. E il suo assetto attuale riflette altre priorità. Ma la sfida della
competizione globale è ormai ineludibile. L’America di Trump, sostiene
Charles Kupchan, non ha nessun vero interesse ad abbandonare la nato;
ma ritiene che gli europei, la Germania anzitutto, si comportino da “free
riders”. Per difendere i propri interessi economici, gli europei dovranno
anche aumentare le proprie capacità di sicurezza e difesa: le capacità tecnologiche
ne sono parte integrante.
La Cina cerca intanto – con il suo progetto (politico, non solo economico)
di Nuova Via della Seta – di trovare approdi europei: dalle periferie mediterranee
e balcaniche, Pechino sta risalendo verso il cuore europeo, grazie
anche all’Italia. Mentre la Russia, scrive Andrey Kortunov, flirta con la
scelta asiatica ma è consapevole di quanto resti essenziale – per la modernizzazione
di un’economia bloccata, con un pil inferiore a quello della
Spagna – la proiezione europea.
L’evoluzione verso una Europa potenza, insomma, è in qualche modo imposta
dalle circostanze esterne. Senza un passaggio del genere, l’Europa
dell’impotenza tenderà a disgregarsi. E sarà oggetto delle nuove sfere di
influenza, quelle del XXI secolo.
Proviamo allora a porci un quesito secco: la potenza europea di cui abbiamo
bisogno potrebbe cominciare a fondarsi proprio sui big data, ossia sulla
gestione condivisa delle informazioni digitali e sullo sviluppo dell’intelligenza
artificiale? In effetti, l’analogia con le origini dell’integrazione europea
è suggestiva: allora si puntò a mettere in comune le due grandi risorse
industriali del XX secolo – carbone e acciaio – e altrettanto si farebbe
oggi, adeguandosi ai tempi e vedendo nei flussi di dati, e nelle tecnologie
dell’intelligenza artificiale, la linfa vitale delle nostre economie e società.
Certo, le analogie si fermano qui, visto che le condizioni politico-strategiche
sono radicalmente diverse da allora. Rispetto ai tempi della Comunità
europea del Carbone e dell’Acciaio, l’Europa non può più fare leva sull’appoggio
incondizionato di Washington. Anzi, l’amministrazione Trump
vede nell’Ue, e nella Germania in particolare, un rivale commerciale. La
sfida cinese richiede poi risposte sofisticate, visto che la seconda economia
al mondo è già fortemente integrata con le economie europee: il caso
Huawei dimostra quanto sarà difficile conciliare, per l’Europa, sicurezza
ed economia nel triangolo instabile con il proprio alleato storico (gli Stati
Uniti) e con lo sfidante contemporaneo (la Cina). Se davvero si concretizzasse
uno schema di gioco bipolare e fortemente conflittuale (una sorta di
nuova guerra fredda hi-tech, appunto), l’Europa pagherebbe comunque
costi molto elevati.
Un problema ulteriore – rispetto all’ipotesi di una “Europa potenza digitale”
– è che per perseguirla in modo coerente l’Ue dovrebbe recuperare un
forte ritardo tecnologico con investimenti molto più massicci. E dovrebbe
almeno in parte cambiare l’approccio agli scambi economici, ossia proprio
nel settore in cui l’ue è già nei fatti un attore globale. Non avremmo più il
classico multilateralismo completato da accordi bilaterali, ma una linea
di azione decisamente rivolta a difendere i settori strategici interni, con
una modifica almeno parziale (e in ogni caso problematica) delle regole
della concorrenza.
In sostanza, la costruzione di una potenza europea imporrebbe fra l’altro
una difesa più attiva del mercato interno, assieme a un aumento degli
investimenti comuni in settori industriali e tecnologici strategici. Al tempo
stesso, richiederebbe una logica internazionale meno fondata sull’illusione
che l’Europa possa facilmente esportare all’esterno il proprio modello di
integrazione multilaterale; con la crisi del vecchio ordine internazionale
– di fronte alla spregiudicatezza con cui l’America di Trump difende i propri
interessi globali e rispetto al nazionalismo della Cina di Xi Jinping –
l’Europa non potrà che adottare, per riuscire a competere, una logica che
si potrebbe definire “Europe first”.
Dal sovranismo nazionale, che rischia di disgregare l’Europa dall’interno,
alla sovranità continentale, chi tenta di proteggerla all’esterno? Per ora,
questo passaggio rimane astratto, visti i gravi limiti dell’azione congiunta
dell’Unione Europea; ma le scelte post elettorali – con la fine del codominio
dei due partiti tradizionali e l’obbligato allargamento della maggioranza
parlamentare europea ai liberali ed eventualmente ai verdi – metteranno
alla prova la possibilità che l’Europa sia una potenza del futuro e
non solo del passato. E con lei gli Stati nazionali che ne faranno la forza,
o ne detteranno l’irrimediabile debolezza.
Roberto Menotti e Marta Dassù
www.aspeninstitute.it - 24 luglio 2019