Dante, Inferno Canto XVII. Gli usurai
Nel XVII canto siamo ancora nel III girone del VII Cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio (tra cui gli usurai).
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300. «Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l’ottavo cerchio de l’inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra ’l quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.» (Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo) Virgilio presenta a Dante Gerione come una belva dalla coda appuntita, che è in grado di arrivare ovunque e ovunque porta il suo fetore. Il maestro fa cenno al mostro di avvicinarsi all'orlo del baratro, presso l'argine roccioso dove sono i due poeti; Gerione obbedisce appoggiando testa e busto sulla roccia e tenendo la coda nel vuoto. Ha il volto di un uomo giusto, il corpo di serpente, due zampe pelose e artigliate che arrivano alle ascelle; il dorso e il petto sono dipinti con nodi e rotelle multicolori, simili ai tessuti di Tartari e Turchi. Dante paragona l'animale a un burchiello, la barca che approda tenendo una parte in acqua, e al castoro che nei paesi germanici attende la preda emergendo in parte dal fiume. Gerione leva in alto la coda che ha in punta una specie di pinza velenosa che ricorda quella di uno scorpione e Virgilio invita il discepolo ad avvicinarsi al punto dove il mostro è giunto, cosa che i due fanno scendendo dall'argine roccioso e procedendo sull'orlo del Cerchio, che li protegge dalla sabbia e dalla pioggia di fiamme. Quando i due raggiungono Gerione, Dante nota, poco lontano, dei dannati (gli usurai) seduti nel sabbione infuocato, vicini all'orlo estremo del Cerchio. Virgilio invita Dante ad andare da solo a osservare questi peccatori, raccomandandogli di essere rapido mentre lui cercherà di convincere Gerione a portarli sulla sua groppa in fondo al burrone. Dante procede quindi da solo sull'orlo del Cerchio fino agli usurai, che piangono per il dolore e usano le mani per ripararsi dalle fiamme e dalla sabbia, proprio come fanno d'estate i cani col muso e le zampe per difendersi da mosche e altri insetti molesti. Dante osserva i dannati senza riconoscerne alcuno, tuttavia vede che ognuno di loro porta al collo una borsa con sopra lo stemma della loro famiglia, che ogni spirito non smette di guardare; i dannati sono costretti a guardare la borsa che serve per conservare il denaro. Il poeta vede un peccatore la cui borsa reca lo stemma di un leone azzurro su fondo giallo (i Gianfigliazzi), mentre un altro ha una borsa che reca un'oca bianca in campo rosso (gli Obriachi). Dante vede inoltre un altro usuraio, la cui borsa ha una scrofa azzurra in campo bianco (Reginaldo Scrovegni), il quale lo apostrofa chiedendogli cosa fa all'Inferno da vivo e invitandolo ad andarsene. Il dannato predice inoltre la futura dannazione del padovano Vitaliano del Dente e del fiorentino Giovanni di Buiamonte, come del resto fanno gli altri dannati fiorentini che stanno insieme a lui. Alla fine del discorso egli tira fuori la lingua, come un bue che si lecca il naso. Dante teme che se si tratterrà oltre irriterà Virgilio, quindi torna indietro e trova il maestro già salito in groppa a Gerione, intento a raccomandargli di essere coraggioso. Virgilio lo invita a salire davanti, perché lui si frapponga tra il discepolo e la coda velenosa del mostro. Dante è colto da paura e trema come chi è colpito dal ribrezzo della febbre quartana, tuttavia l'ammonimento di Virgilio lo spinge ad eseguire l'ordine e si siede sulle spalle di Gerione. Dante vorrebbe chiedere al maestro di tenerlo forte, ma questi interpreta il suo desiderio e lo abbraccia; poi Virgilio invita Gerione a muoversi e gli raccomanda di scendere in fretta, compiendo larghi giri nell'aria. Il mostro obbedisce e si allontana dalla parete rocciosa come una navicella che lascia la proda, quindi allunga la coda al petto come un'anguilla e inizia a nuotare nell'aria con le zampe pelose. Dante non vede altro che il buio intorno a sé e capisce di trovarsi nel vuoto, quindi è terrorizzato come quando Fetonte guidò il carro del Sole incendiando il cielo e come quando Icaro volò troppo vicino al Sole nonostante i richiami del padre Dedalo. Gerione scende lentamente e Dante non se ne accorge se non per l'aria che lo colpisce al viso e alle gambe; sente da destra lo scroscio del Flegetonte, si sporge e vede che si avvicina un luogo dove ci sono fuochi e pianti, per cui capisce che la discesa è quasi terminata. Infatti Gerione si posa sul fondo del burrone, come un falcone richiamato dal falconiere scende lentamente a terra compiendo larghi giri nell'aria; il mostro depone i due poeti a terra, quindi si dilegua come una freccia scoccata dalla corda di un arco. Il Canto chiude idealmente la prima parte della Cantica, in cui Dante ha mostrato i peccati di eccesso, di eresia e di violenza, e introduce la seconda parte dedicata principalmente ai peccati di frode, che occuperanno in tutto tredici Canti (XVIII-XXX, quindi più di un terzo dell'Inferno: ciò si spiega con l'importanza che tali peccati avevano, per Dante, nella decadenza morale del suo tempo). L'episodio è quindi una sorta di pausa narrativa che precede la discesa dal VII Cerchio alle Malebolge in groppa a Gerione, il mostro mitologico che è il protagonista del Canto e il cui apparire era stato evocato in modo enigmatico alla fine del XVI, creando un'atmosfera di attesa simile a quella del messo celeste fra i Canti VIII-IX. Con la differenza che Gerione non è un inviato di Dio ma un orrendo animale che simboleggia la frode, il peccato che si sconta nell'VIII Cerchio: ha il volto ingannevole di un uomo giusto, il corpo di serpente e una coda biforcuta e velenosa simile a quella di uno scorpione, quindi un essere che è infido e pericoloso nonostante un'apparenza rassicurante. Questo aspetto del peccato di frode era già stato anticipato alla fine del Canto precedente, quando Dante aveva messo in guardia gli uomini dai saggi che sono in grado di giudicare non solo gli atti esteriori ma anche l'interiorità, oltre che con la reticenza a descrivere Gerione in quanto certe verità hanno faccia di menzogna. Gerione è inoltre una figura demoniaca che non si oppone al passaggio dei due poeti, collabora anzi con loro sia pur dopo l'opera di persuasione di Virgilio (in modo simile ai centauri e, come vedremo, ai giganti). Ignoriamo cosa dica il maestro al mostro per convincerlo a portare lui e Dante sulle spalle, ma Virgilio riesce nel suo intento e alla fine del Canto Gerione è una sorta di docile strumento nelle sue mani, simile a un falcone che volteggia nell'aria richiamato dal suo padrone. Più che un volo, la sua discesa è simile a quella di un animale che nuota nell'aria spessa, come del resto l'aveva già descritto Dante alla fine del Canto XVI: di lui non sono descritte ali, anche se la coda potrebbe far pensare che abbia corpo di drago, bestia dal significato demoniaco che nel Medioevo era spesso rappresentata alata e dotata di una coda maligna. È difficile dire da dove Dante abbia tratto questo aspetto che attribuisce al personaggio mitologico, che era in realtà un malefico gigante dai tre busti, tuttavia una leggenda medievale ripresa da Boccaccio descriveva Gerione come un re che uccideva i suoi ospiti, mentre le locuste dell'Apocalisse avevano faccia umana e coda di scorpione. Non si può escludere che Dante abbia fuso insieme tutti questi elementi per creare questa sozza imagine di froda che custodisce le Malebolge, usando al contempo gli elementi propri della sua fantasia poetica. Incastonato per così dire nell'episodio di Gerione c'è poi quello minore degli usurai, i peccatori che Dante va a visitare da solo mentre Virgilio è impegnato a convincere il mostro. Il tema dell'usura si ricollega al lamento sulla triste condizione politica e morale di Firenze che era al centro del colloquio coi tre sodomiti, in cui Dante aveva puntato il dito contro la sete di denaro e i guadagni facili della gente nova, i contadini inurbati che praticavano cambio e mercatura. Anche qui sono citati indirettamente usurai appartenenti a famiglie fiorentine, mentre Reginaldo Scrovegni profetizza la dannazione di Giovanni di Buiamonte dei Becchi, di famiglia nobile e recentemente insignito del titolo di cavaliere. L'accusa all'avarizia degli usurai che sfruttano il denaro per arricchirsi è la necessaria premessa alla discesa nel Cerchio dove è punita la frode, che spesso ha come fine proprio l'arricchimento personale: la ricchezza non è certo garanzia di salvezza spirituale, come dimostra il caso di Reginaldo che appartenne a una potente famiglia padovana e il cui figlio, Arrico, fece costruire la celebre cappella affrescata da Giotto a espiazione dei peccati del padre. Come spesso accade nel poema, Dante individua nel denaro la fonte della corruzione morale e del disordine politico del suo tempo, accusando la sua città di esserne il centro malefico: Folchetto di Marsiglia tuonerà contro il maladetto fiore, il fiorino che ha diffuso l'avarizia tra i prelati, e discorso analogo farà Cacciaguida nei Canti centrali del Paradiso. Molto efficace, infine, l'idea di appendere al collo degli usurai una borsa con lo stemma di famiglia, che tra l'altro preannuncia in parte il tema della zona successiva dell'Inferno (le Bolge, dal momento che la parola bolgia in volgare fiorentino significava proprio «borsa»). Testo«Ecco la fiera con la coda aguzza,che passa i monti, e rompe i muri e l’armi! Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!». 3 Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda vicino al fin d’i passeggiati marmi. 6 E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e ’l busto, ma ’n su la riva non trasse la coda. 9 La faccia sua era faccia d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d’un serpente tutto l’altro fusto; 12 due branche avea pilose insin l’ascelle; lo dosso e ’l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. 15 Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte. 18 Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi 21 lo bivero s’assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 24 Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch’a guisa di scorpion la punta armava. 27 Lo duca disse: «Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca». 30 Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella. 33 E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo. 36 Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena esperienza d’esto giron porti», mi disse, «va, e vedi la lor mena. 39 Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti». 42 Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta. 45 Per li occhi fora scoppiava lor duolo; e di qua, di là soccorrien con le mani quando a’ vapori, e quando al caldo suolo: 48 non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani. 51 Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne’ quali ’l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi 54 che dal collo a ciascun pendea una tasca ch’avea certo colore e certo segno, e quindi par che ’l loro occhio si pasca. 57 E com’io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d’un leone avea faccia e contegno. 60 Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un’altra come sangue rossa, mostrando un’oca bianca più che burro. 63 E un che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: «Che fai tu in questa fossa? 66 Or te ne va; e perché se’ vivo anco, sappi che ’l mio vicin Vitaliano sederà qui dal mio sinistro fianco. 69 Con questi Fiorentin son padoano: spesse fiate mi ’ntronan li orecchi gridando: "Vegna ’l cavalier sovrano, 72 che recherà la tasca con tre becchi!"». Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ’l naso lecchi. 75 E io, temendo no ’l più star crucciasse lui che di poco star m’avea ’mmonito, torna’ mi in dietro da l’anime lasse. 78 Trova’ il duca mio ch’era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: «Or sie forte e ardito. 81 Omai si scende per sì fatte scale: monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male». 84 Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo de la quartana, c’ha già l’unghie smorte, e triema tutto pur guardando ’l rezzo, 87 tal divenn’io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte. 90 I’ m’assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’. 93 Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch’i’ montai con le braccia m’avvinse e mi sostenne; 96 e disse: «Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai». 99 Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch’al tutto si sentì a gioco, 102 là ’v’era ’l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l’aere a sé raccolse. 105 Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse; 108 né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui «Mala via tieni!», 111 che fu la mia, quando vidi ch’i’ era ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera. 114 Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n’accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. 117 Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 120 Allor fu’ io più timido a lo stoscio, però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti; ond’io tremando tutto mi raccoscio. 123 E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e ’l girar per li gran mali che s’appressavan da diversi canti. 126 Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», 129 discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; 132 così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. 136 ParafrasiEcco la belva con la coda appuntita, che passa le montagne e spezza muri e difese! Ecco colei che ammorba tutto il mondo col suo fetore!»
GERIONE Gerione (in greco antico: Ghery?n) è un personaggio della mitologia greca figlio di Crisaore e di Calliroe e fratello di Echidna. Era un fortissimo gigante con tre teste, tre busti e sei braccia ma con un solo bacino e di conseguenza due sole gambe. Era il Re dell'Isola dell'Eritea, situata nell'Oceano occidentale e che si estendeva fino ai confini di Tartesso e possedeva una mandria di vacche rosse consacrate ad Apollo che erano sorvegliate dal pastore Euritione (figlio di Ares e dell'esperide Eritea) e dal cane a due teste Ortro. La cattura dei buoi e l'uccisione di Gerione, Ortro ed Euritione costituirono la decima fatica di Eracle, infatti Euristeo ordinò a Eracle di catturare quei buoi ed Eracle partì usando la barca dorata di Helios che si fece dare in prestito. Giunto sull'isola di Gerione lo uccise e si prese i buoi. Era furiosa mandò uno sciame di mosche a uccidere i buoi ma Eracle sconfisse anche loro. Il primo, che le genti a questa guerra
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