Inferno, Canto XX. Maghi e indovini.

COMMENTO
Il canto ventesimo dell'Inferno si svolge nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti gli indovini e i maghi. Dante, dopo una descrizione generale, indica tra i peccatori, attraverso le parole di Virgilio, cinque indovini antichi (quattro dei quali mitologici) e tre moderni.
«Canto XX, dove si tratta de l’indovini e sortilegi e de l’incantatori, e de l’origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto incantatrice; e di loro pene e miseria e de la condizione loro misera, ne la quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di più altri.»
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

Dante inizia col dire che deve dare forma ai versi per queste nuove pene dei dannati che sono la materia del ventesimo canto della prima canzone: sappiamo così che l'Alighieri stesso usava questi termini "musicali" per indicare rispettivamente i capitoli e i libri della sua "Comedìa". Dante e Virgilio stanno percorrendo le Malebolge, ovvero quei 10 fossati, simili a quelli dei castelli medievali, nei quali sono punite le varie categorie dei fraudolenti, cioè coloro che tradirono il prossimo che sarebbe stato portato a non fidarsi (a differenza dei traditori veri e propri che ingannarono chi di loro si fidava per parentela, amicizia o altri legami sociali). Il poeta si affaccia quindi alla nuova bolgia dal ponticello che sta attraversando, e la vede bagnata del pianto dei dannati. Nota la gente che silenziosa e piangente va al passo delle processioni.
Dopo aver guardato meglio si accorge che ognuno ha il collo e il viso girati dalla parte delle spalle. Essi devono quindi camminare all'indietro perché non possono guardare avanti: Dante dice che forse alcuni casi di paralisi possono provocare tali danni, ma lui non ha mai assistito a casi simili e non crede che sia possibile. Rivolgendosi direttamente al lettore, ci dice come una tale visione del nostro corpo umano tanto mostruosa fosse tale da non permettergli di tenere gli occhi asciutti, così piange per pietà verso questi esseri sfregiati, il cui pianto gocciola giù nella fessura tra le natiche, immagine grottesca e umiliante, trovandosi davanti una figura dell'uomo totalmente stravolta.
Virgilio riprende severamente Dante che sta lacrimando appoggiato a una roccia e gli dà dello sciocco. La pietà qui all'Inferno è morta, non serve disperarsi per i dannati. Il senso dei due versi successivi è ambiguo, in particolare sul significato da dare a "passion".
«Chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?»
Le due possibili letture sono:
1.Chi è più scellerato di colui che ha pietà per coloro che sono condannati dal giudizio divino?
2.Chi è più scellerato di colui che cerca di piegare (portare passione) il giudizio divino(sottinteso con magie e artifici)?
Virgilio invita dunque il suo discepolo a drizzare la testa (ripetuto due volte) per guardare chi sono quei dannati.
Il primo che viene indicato è Anfiarao, uno dei sette re di Tebe narrati da Stazio nella Thebais, che prevedendo la propria morte si nascose prima dell'assedio di Tebe. Egli però venne scovato e convinto a partire in battaglia, dove fu sconfitto e costretto alla fuga. Per impedire che venisse ucciso dai Tebani, Giove gli aprì la terra sotto i piedi, facendolo precipitare col suo carro direttamente al cospetto di Minosse: "s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; / per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, / Anfïarao? perché lasci la guerra?" / E non restò di ruinare a valle / fino a Minòs che ciascheduno afferra.". Quindi Dante ne fa una descrizione fisica dove viene anche spiegato esplicitamente il contrappasso degli indovini: egli ha le spalle al posto del petto "perché volse veder troppo davante" e per questo ora è condannato a guardare solo indietro.
Passando al successivo, Virgilio indica Tiresia, il mago che "di maschio femmina divenne, / cangiandosi le membra tutte quante" per aver separato due serpenti in accoppiamento e poté riprendere le sembianze maschili solo ripercuotendoli con la stessa verga. Non è chiaro perché Dante nella lunga leggenda di Tiresia citi solo la parte dei serpentelli nell'episodio di transessualità, senza per esempio alludere alla diatriba tra Giove e Giunone che Tiresia seppe dirimere dando ragione a Giove (la questione era su quale dei due sessi godesse di più nel coito) e venendo accecato per vendetta da Giunone. Da questo episodio il Re degli Dei gli concesse allora l'occhio interno che gli permetteva di vedere nel futuro. Forse a Dante interessava solo citare il manipolamento delle cose naturale di questi "maghi".
Segue quindi la descrizione di Arunte, leggendario indovino etrusco attinto dalla Pharsalia di Lucano, dove egli predice la vittoria di Cesare. Virgilio lo descrive come quello che ha il ventre come terga e che ebbe la sua dimora in una spelonca nei monti di Luni tra i marmi bianchi, sopra i carraresi che usano la ronca o roncola e lì vivono; ivi poteva guardare pienamente sia le stelle che il mare. In realtà in Lucano Arunte è citato come di Lucca (Lucae) per cui Dante si è forse confuso oppure possedeva un codice inesatto.
La prossima indovina è una delle rare peccatrici collocate nell'Inferno, oltre alle morte d'amore nel girone dei lussuriosi e a Taide. Si tratta di Manto e, anche in questo caso, Virgilio inizia a descriverla dall'aspetto fisico: è quella che ha le mammelle di dietro (per questo Dante non può vederle) coperte dalle trecce, dove ha anche il pube "piloso". Manto è la figlia di Tiresia ed è ricordata da Virgilio, Orazio e Stazio. Si dice che vagò per molte terre, infatti la sua leggenda nella Thebais di Stazio racconta come ella dopo la morte del padre a Tebe ("la città di Bacco") per sfuggire alla tirannia di Creonte, abbia vagato lungamente, prima di fermarsi presso il lago del Mincio, dove sorse Mantova che proprio da lei prenderebbe il proprio nome.
Virgilio coglie l'occasione a questo punto per parlare un po' di "là dove nacqu'io", e lo fa con una lunga digressione di quattordici terzine. Inizia una precisa descrizione geografica: In Italia c'è un lago chiamato Benaco (il Lago di Garda nel suo nome più antico) ai piedi delle Alpi che chiudono la Germania ("Lamania") con il Tirolo ("Tiralli"); da mille fonti arriva l'acqua che vi stagna tra Garda, la Val Camonica e le Alpi Pennine; al centro di esso c'è un punto che se potessero arrivarci il vescovo di Trento, quello di Brescia e quello di Verona essi avrebbero pari autorità (in effetti esiste un'isola sulla quale le tre diocesi hanno pari autorità, l'Isola di Garda, anche se qui la presenza del verbo condizionale indica forse un punto ideale, per dire quali città hanno giurisdizione sui tre lati). Vi si affaccia Peschiera, bel fortilizio pronto a fronteggiare i bresciani e i bergamaschi (sottinteso da parte dei veronesi) nel punto dove le acque traboccano e si fanno fiume emissario, il Mincio, che sfocia nel Po presso Governolo. Il Mincio, quindi, non scorre molto prima di incontrare una "lama", una depressione, dove si impaluda e solo d'estate si inaridisce. Qui Manto, la vergine "cruda", cioè restia alle nozze (tale termine era stato usato anche per la maga Erichto in Inferno IX,23, ma nel senso di crudele), trovò la terra nel mezzo del pantano disabitata e incolta e vi si stabilì con i suoi servi praticandovi le sue arti finché visse, dopo di che vi lasciò il proprio corpo vuoto. Solo più tardi si raccolsero uomini in quel luogo per il pantano che proteggeva da tutte le parti costruendo una città sopra quelle ossa sepolte e chiamandola Mantova in onore della maga, ma senza altri sortilegi (come in altre città si narra succedesse per trovare un nome e una data di fondazione propizi). Da allora la popolazione crebbe fino a quando Alberto da Casalodi, di parte guelfa, fu ingannato da Pinamonte dei Bonacolsi, ghibellino, che approfittando della sua stoltezza, lo convinse ad esiliare molte famiglie nobili, privandolo così di chi avrebbe potuto sostenerlo contro i popolani. Messosi poi a capo di questi, Pinamonte cacciò da Mantova Alberto e le restanti famiglie nobili, molte delle quali furono sterminate, causando lo spopolamento duecentesco della città. Virgilio termina la parentesi attestando che questa è la verità, e che se Dante venisse a conoscenza di altre versioni, esse sono menzogne che frodano la realtà. È curioso come Dante voglia ribadire fermamente le origini non-magiche di Mantova, smentendo varie versioni leggendarie, tra le quali una di Virgilio stesso (che in Eneide X 198 la riferiva fondata dal figlio di Manto, Ocno, quindi si smentisce da solo e certo i rapporti tra pellegrino e maestro non avrebbero permesso una lezione da parte di Dante-personaggio), oltre a quelle di Servio o di Isidoro da Siviglia che la volevano fondata da Manto stessa o da altri personaggi mitologici. Inoltre così Dante fa rivendicare a Virgilio la purezza del suo sangue lombardo e alleggerisce la sua figura da quella del "Virgilio-mago" tanto popolare nel Medioevo. Si noti che Manto è citata anche in Purgatorio (Purgatorio XXII,113) quando Virgilio, parlando con Stazio, nomina altre anime del Limbo oltre quelle elencate nel quarto Canto indicando anche la "figlia di Tiresia". O Dante si è confuso (e forse aveva scritto il canto del Purgatorio prima di questo dell'Inferno, scordandosi il veloce accenno, essendo piuttosto improbabile che al contrario scrivendo il Purgatorio si scordasse di questo lungo passo su Manto) oppure egli si riferisce a qualche altro personaggio citando magari una fonte a noi sconosciuta. Francesco Torraca, pensando a un errore dei copisti, suppone che Dante scrivesse: "la figlia di Nereo, Teti," e che quindi in Purgatorio XXII,113 si parlasse della sola Teti, madre di Achille.
Dante chiede allora di presentare altri dannati, e Virgilio ricomincia la carrellata da dove l'ha interrotta. Un dannato la cui barba ricade sulle spalle è l'augure che quando tutti gli uomini lasciarono la Grecia, lasciando solo i maschietti nelle culle (l'allusione è alla Guerra di Troia) egli indicò il momento propizio con Calcante per quando salpare dall'Aulide: si chiama Euripilo e Dante dovrebbe ben conoscerlo, lui che conosce a menadito l'"alta tragedia" virgiliana dell'Eneide ("Così 'l canta / l'alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta."). In realtà anche qui Dante commette un errore, e siamo al terzo in questo canto, oltre a quello di Luni/Lucca e quello della doppia citazione di Manto. Nell'Eneide Euripilo infatti non è affatto un augure, un indovino, ma egli è solo colui che riporta ai Greci il responso dell'Oracolo di Apollo.
Infine Virgilio nomina tre maghi contemporanei: Michele Scotto (cioè "scozzese"), italianizzazione di Michael Scotus, astrologo di Federico II qui accusato di "magiche frodi" e descritto come colui che "nei fianchi è così poco", Guido Bonatti e il calzolaio Asdente, che nell'Inferno si pente di non essere rimasto sullo spago e sul cuoio (invece di dedicarsi alla magia).
Chiude la carrellata un accenno alle fattucchiere, le donne che "lasciaron l'ago, / la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; / fecer malie con erbe e con imago". Ai tempi di Dante la stregoneria era già perseguitata e risale al 1298 il primo processo a una strega a Firenze, addirittura al 1250 il primo assoluto in Toscana. Il canto termina con un accenno temporale: la Luna (indicata come Caino con il fascio di spine, secondo la fantasiosa interpretazione delle macchie lunari medievale) è all'orizzonte ("tiene 'l confine d'amendue li esmisperi") e sta per tramontare sotto Siviglia (Sobilia). In pratica sono circa le sei e mezza del mattino e Virgilio ricorda anche come la luna fosse piena il giorno prima, ma ciò non giovò a Dante nella selva oscura.
E mentre parlavano andavano "introcque", termine dialettale già dispregiato nel De Vulgari Eloquentia dal latino inter hoc (nel frattempo), che suggella con un linguaggio da repertorio comico il canto, forse volendo presagire il tono del prossimo episodio con i diavoli.
In questo canto il contrappasso è tagliato sulla figura degli indovini, coloro che, come spiega lo stesso Dante, "vollero veder troppo avante" e ora sono costretti a guardare solo indietro. Essi sono tra i fraudolenti per aver messo in atto delle mistificazioni oggetto di colpa in due sensi. La prima è quella di aver adulterato l'ordine divino tramite il loro operato, sconvolgendo e influenzando cose concepite in natura come inintelligibili: tale colpa si applica ai "veri" indovini, almeno quelli dell'antichità mitologica. La seconda colpa è quella dei "falsi" indovini, che giustificarono con la menzogna le azioni dei potenti, proclamandole come prescritte dal volere divino. Per quanto riguarda i "maghi", coloro che artigianalmente esercitavano poteri occulti, la sua unica menzione in questo canto è quella breve e generica nei confronti delle fattucchiere, che non sembrano turbarlo troppo, a differenza di Tommaso d'Aquino e degli scolastici che collegavano direttamente e inequivocabilmente la pratica magica alla concupiscenza con il demonio (teoria che, attraverso la Santa Inquisizione, è giunta fino a oggi). Per quanto riguarda l'astrologia poi Dante parrebbe proprio che vi credesse. Egli stesso cita spesso le costellazioni, conosce il suo segno zodiacale, Gemelli, e loda apertamente questa "arte liberale" nel Convivio), sebbene ne avesse una percezione sicuramente diversa da quella attuale. Egli la indicava come la più alta e ardua delle attività liberali umane sia per la "nobilitade del suo subietto" che per "la sua certezza". Egli credeva che gli astri influenzassero l'uomo (e le varie sfere celesti avranno vari significati ben specifici nel Paradiso), come anche le stagioni e il tempo, per questo lo studio astronomico-astrologico era considerato importante e utile. In effetti l'unico astrologo dell'Inferno, Michele Scotto incontrato in questo canto, viene accusato non per le sue pratiche, ma per il loro utilizzo fraudolento ("veramente de le magiche frode seppe il gioco"). L'utilizzo dell'astrologia per prevedere il futuro inoltre andrebbe anche contro il valore del libero arbitrio umano.

TESTO

Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon ch’è d’i sommersi. 3

Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto; 6

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo. 9

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso; 12

ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto. 15

Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia. 18

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’io potea tener lo viso asciutto, 21

quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso. 24

Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi? 27

Qui vive la pietà quand’è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta? 30

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: "Dove rui, 33

Anfiarao? perché lasci la guerra?".
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra. 36

Mira c’ha fatto petto de le spalle:
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle. 39

Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne
cangiandosi le membra tutte quante; 42

e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che riavesse le maschili penne. 45

Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga, 48

ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar no li era la veduta tronca. 51

E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle, 54

Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte. 57

Poscia che ’l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gìo. 60

Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco. 63

Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna. 66

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino. 69

Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese. 72

Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi. 75

Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po. 78

Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor essere grama. 81

Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda. 84

Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano. 87

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti. 90

Fer la città sovra quell’ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantua l’appellar sanz’altra sorte. 93

Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse. 96

Però t’assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi». 99

E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti. 102

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede». 105

Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu - quando Grecia fu di maschi vòta, 108

sì ch’a pena rimaser per le cune -
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune. 111

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta. 114

Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco. 117

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente. 120

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago. 123

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine; 126

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».

Sì mi parlava, e andavamo introcque. 130

PARAFRASI

Sono obbligato a comporre versi su una nuova pena e dare così materia al ventesimo Canto della prima Cantica, che è dedicata ai dannati. Io ero già totalmente pronto a guardare nel fondo della Bolgia, che era bagnato di pianto angoscioso;
e vidi dei dannati che procedevano nel fossato tondo, che tacevano e piangevano, con passo lento simile a quello delle processioni.
Non appena li guardai più in basso, mi sembrò che ognuno avesse il collo incredibilmente travolto tra il mento e l'inizio del petto;
infatti il volto era girato dalla parte della schiena e loro erano costretti ad andare all'indietro, perché non potevano guardare in avanti.
Forse qualcuno è stato sfigurato in tal modo da una paralisi, ma io non l'ho mai visto e non credo sia mai successo.
Possa Dio, o lettore, lasciare che tu colga il frutto di questa lezione: pensa da te stesso come io potevo evitare di piangere, quando vidi da vicino la figura umana così stravolta, mentre i dannati bagnavano di lacrime le natiche lungo la fessura.
Certo io piangevo, appoggiato a una delle sporgenze della roccia, finché la mia guida mi disse: «Anche tu fai parte degli altri schiocchi?
Qui la pietà ha valore solo quando è morta del tutto; chi è più scellerato di colui che cerca di forzare il giudizio divino, prevedendo il futuro?
Alza la testa, alzala, e guarda colui sotto il quale si aprì la terra davanti agli occhi dei Tebani, al quale tutti gridavano: "Dove precipiti, Anfiarao? perché lasci la guerra?" E non cessò di precipitare finché giunse a Minosse che afferra ogni anima dannata.
Guarda come ora le spalle sono diventate per lui il petto: volle vedere troppo avanti, quindi ora guarda indietro e cammina a ritroso.
Vedi Tiresia, che si tramutò da maschio a femmina cambiando tutte le membra;
e per riavere gli attributi maschili dovette ribattere con la stessa verga i due serpenti avvolti.
Quello che ha la schiena vicina al suo ventre è Arunte, che ebbe una spelonca come sua dimora tra le bianche rocce nei monti di Luni, dove disboscano i Carraresi che abitano nella pianura sottostante; e da lì poteva vedere ampiamente le stelle e il mare.
E quella che copre con le trecce sciolte le mammelle, che tu non vedi, e ha ogni parte pelosa dall'altra parte, è Manto, che vagò per molte terre; poi si stabilì là dove io nacqui (a Mantova); e adesso voglio che tu mi ascolti per qualche momento.
Dopo che morì suo padre (Tiresia) e che la sua città (Tebe) divenne sacra a Bacco, costei vagò molto tempo per il mondo.
Nell'Italia del nord sorge un lago (di Garda) ai piedi delle Alpi che dividono dalla Germania presso il Tirolo, chiamato Benaco.
Il territorio tra Garda, la Valcamonica e le alpi Pennine è bagnato da mille e più fonti, credo, di quell'acqua che stagna in questo lago.
Al centro di esso c'è un luogo dove potrebbero benedire il vescovo di Trento, di Brescia e di Verona, se facessero quel cammino.
Dove la riva è più bassa sorge Peschiera, bella e solida fortezza con cui fronteggiare i Bresciani e i Bergamaschi.
Qui è inevitabile che si riversi tutta l'acqua che non può stare nel bacino del lago, che si fa fiume lungo verdi pascoli.
Non appena l'acqua inizia a scorrere, prende il nome di Mincio e lo conserva fino a Govèrnolo, dove si getta nel Po.
Nel suo alto corso trova un avvallamento, nel quale forma una palude; d'estate talvolta è in secca.
La crudele vergine (Manto), passando di qui, vide una terra in mezzo all'acquitrino, incolta e disabitata.
Si stabilì in quel luogo per sfuggire ogni contatto umano e per dedicarsi alle sue arti magiche coi suoi servi; visse lì e vi fu sepolta dopo la sua morte.
In seguito, gli uomini che vivevano sparsi tutt'intorno si raccolsero in quel luogo, che era ben difeso dal pantano che lo circondava.
Edificarono una città sopra il suo sepolcro; la chiamarono Mantova dal nome di colei che scelse per prima il luogo, senza ricorrere ad altri sortilegi.
Un tempo la città fu più popolata, prima che la follia del conte di Casalodi fosse ingannata da Pinamonte.
Perciò ti metto in guardia, se mai tu sentissi altre versioni sull'origine della mia terra, affinché nessuna menzogna offuschi la verità».
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti sono così sicuri e conquistano la mia fiducia al punto che gli altri sarebbero per me carboni spenti.
Ma dimmi se vedi qualcun altro degno di nota tra i dannati che procedono; infatti la mia mente si indirizza solo a questo».
Allora mi disse: «Quello che dalle guance fa scendere la barba sulle spalle scure, quando la Grecia fu spopolata di maschi (per la guerra di Troia) al punto che a malapena ne restavano nelle culle, fu augure e indicò insieme a Calcante il momento propizio in Aulide per far salpare la flotta greca.
Si chiamò Euripilo, e così lo nomina il mio alto poema (l'Eneide) in qualche punto: tu lo sai bene, visto che l'hai letta tutta.
Quell'altro che è così esile nei fianchi fu Michele Scotto, che conobbe pienamente il gioco delle frodi magiche.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, che ora vorrebbe essersi dedicato al cuoio e allo spago (al mestiere di calzolaio) ma si pente troppo tardi.
Vedi le tristi donne che lasciarono l'ago, la spola e il fuso, per diventare indovine; fecero sortilegi con erbe magiche e immagini.
Ma ormai vieni via, poiché la luna tocca il confine di entrambi gli emisferi (l'orizzonte) e sta per tramontare sotto il mare di Siviglia;
e già ieri notte c'era plenilunio: te ne dovresti ricordare, poiché ti giovò talvolta nella selva oscura». Così mi parlava, e intanto non cessavamo di camminare.

Video HD https://www.youtube.com/watch?v=x2DZ613dWFM

Gassman https://www.youtube.com/watch?v=ZQH9cQDVeIc

PERSONAGGI:

ANFIARAO

Anfiarao aveva avuto in dono da Apollo la preveggenza e diventò l'indovino della città di Argo e dove aveva sposato Erifile (la sorella del re Adrasto), che gli diede due figli, Anfiloco e Alcmeone. Grazie alle sue doti, Anfiarao previde il fallimento della spedizione dei Sette contro Tebe e rifiutò di accompagnarli ma la presenza di Anfiarao era però necessaria, poiché serviva un'ultima persona fidata che presidiasse la settima porta di Tebe. Anfiarao si nascose in un luogo noto solo a sua moglie ma essa si fece corrompere da Polinice che in cambio della rivelazione del nascondiglio le promise la collana dell'eterna giovinezza, appartenuta ad Armonia. Anfiarao fu costretto a partire, ma prima di iniziare il fatale viaggio chiese a suo figlio Alcmeone di vendicare la propria morte uccidendo la madre. Una volta a Tebe, Anfiarao ebbe l'incarico di attaccare la porta di Omoloide, ma fu sconfitto e le sue truppe disperse. Anfiarao fu costretto alla fuga e solo l'intervento di Zeus impedì che venisse ucciso dai soldati tebani. Il dio decise di farlo precipitare in una fossa aperta con uno dei suoi fulmini, e fece sì che quel luogo diventasse sacro, con un oracolo. Anfiarao cadde nelle viscere della terra e precipitò direttamente nell'Oltretomba al cospetto di Minosse, che se lo vide arrivare con l'armatura e il carro da guerra. La sua storia è raccontata da vari poeti, la versione più celebre è forse quella nella Tebaide di Stazio.

TIRESIA

Tiresia è cieco, e sull'origine della sua cecità esistono tre tradizioni riportate dallo Pseudo-Apollodoro: secondo la prima fu reso così dagli dèi perché non volevano che profetizzasse argomenti "segreti"; nella seconda tradizione è figlio di una ninfa ed è reso tale da Atena per punizione perché la vide nuda farsi il bagno, ma poi, su supplica della madre, fu reso indovino dalla stessa dea; nella terza tradizione Tiresia passeggiando sul monte Cillene (o secondo un'altra versione Citerone), incontrò due serpenti che si stavano accoppiando e ne uccise la femmina perché quella scena lo infastidì. Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo a donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo. Un giorno Zeus ed Era si trovarono divisi da una controversia: se in amore provasse più piacere l'uomo o la donna. Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l'uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l'unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo sia donna. Interpellato dagli dei, rispose che il piacere si compone di dieci parti: l'uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché Tiresia aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per ricompensarlo del danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni: gli dei greci, infatti, non possono cancellare ciò che hanno fatto o deciso altri dei. «Ma la cecità di Tiresia è in realtà la condizione perché egli possa assolvere al suo ruolo di indovino. [...] Le tre ragioni presentate nella Biblioteca, [...], appaiono in realtà connesse da un denominatore comune rappresentato dal codice ottico su cui è costruita la vicenda. [...] la vista entra direttamente in causa configurandosi come una trasgressione di un codice di comportamento enunciato da Callimaco [...] (le leggi di Crono stabiliscono così chi vede un immortale contro la sua volontà, pagherà un grande prezzo per questa vista). Nel corso dell'attacco degli Epigoni contro Tebe, Tiresia fuggì dalla città insieme ai tebani; sfiancato si riposò nei pressi della fonte Telfusa dalla quale bevve dell'acqua gelata e morì. In un'altra versione l'indovino, rimasto a Tebe con la figlia Manto, venne fatto prigioniero e mandato a Delfi con la figlia, dove sarebbero stati consacrati al dio Apollo. Tiresia morì per la fatica durante il cammino. Odisseo consulta l'indovino per eccellenza, Tiresia. Nell'Odissea il suo spettro è consultato da Odisseo affinché gli indichi la strada del ritorno. Benché morto e residente nell'Ade, Tiresia conserva, a differenza degli altri spettri, una propria identità e le proprie capacità mentali. La storia di Tiresia è narrata tra gli altri da Ovidio nelle Metamorfosi e da Stazio nella Tebaide.

ARUNTE

E' un aruspice etrusco, personaggio della Pharsalia di Lucano. Per Lucano egli era un potente indovino specializzato nella divinazione tramite le viscere di animali, il volo degli uccelli ed altri fenomeni naturali. Viveva probabilmente a Carrara e venne convocato a Roma poco prima della guerra civile tra Cesare e Pompeo per interpretare alcuni portentosi accadimenti: egli vaticinò sia la guerra che la gloriosa vittoria di Cesare. Dante riprese la sua figura per collocarlo nell'Inferno tra gli indovini nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio dei fraudolenti. Il poeta fiorentino attinse probabilmente ad un codice portante una citazione errata del testo di Lucano, ove l'aruspice veniva indicato come abitante di una città di Luni (in latino Lunae invece di Lucae) stranamente deserta: «Arruns incoluit desertae moenia Lunae». Dato invece che all'epoca di Arunte (I secolo a.C.) o in quella di Lucano (I secolo d.C.) la gloriosa città romana doveva senz'altro apparire nel suo massimo splendore, l'Alighieri sceglie di collocare l'indovino in una spelonca tra i bianchi marmi sopra Carrara, da dove poteva guardare sia il mare che le stelle.

PHARSALIA (Poema epico)

Lucano iniziò la stesura dell'opera attorno al 61 d.C., e vari libri erano in circolazione prima del deteriorarsi dei rapporti con Nerone. Il poeta continuò il suo lavoro - nonostante l'Imperatore avesse posto il veto alla pubblicazione di qualsivoglia libro di Lucano - che però rimase incompleto quando, a causa del suo coinvolgimento nella Congiura di Pisone, il poeta dovette suicidarsi (65 d.C.). Tutti i dieci libri ci sono pervenuti; l'ultimo termina bruscamente con la permanenza di Cesare e delle sue truppe ad Alessandria d'Egitto. E' una delle più importanti opere lasciateci dagli scrittori latini. Giova ricordare che nella guerra tra Cesare e Pompeo, Lucano patteggiava per Pompeo.
Libro I: Il poema si apre con la canonica esposizione della materia trattata. Con una breve introduzione, il poeta lamenta l'orrore dell'idea stessa di guerra civile; è presente inoltre una lunga dedica adulatoria nei confronti di Nerone. Si ricapitolano poi gli eventi che hanno portato alla guerra. Si introduce quindi la figura di Cesare, fermo in Gallia Cisalpina, al di sopra del limite invalicabile del pomerium. Nonostante lo Spirito di Roma lo implori accoratamente di deporre le armi, il condottiero attraversa il Rubicone, raduna le truppe e marcia sull'Urbe. Lungo la marcia è raggiunto da Curione. Il libro termina con scene di panico nella città, terribili prodigi e visioni di disastri futuri.
Libro II: In questo clima di disperazione, alcuni veterani rievocano la precedente guerra civile tra Mario e Silla, presagendo che lo scontro imminente sarà ben più terribile. Il poeta presenta quindi Catone, uomo di eroici principi; benché aborrisca la guerra civile, egli convince Bruto che è meglio combattere che rimanere a guardare. Si allea quindi con Pompeo, risposa l'ex-moglie Marzia e si dirige al fronte. Cesare procede nella marcia ma è rallentato dall'azione coraggiosa di Domizio. Tenta dunque di bloccare Pompeo a Brindisi, ma quest'ultimo riesce a scappare in Grecia.
Libro III: Mentre sta salpando, a Pompeo appare in sogno la defunta moglie Giulia, figlia di Cesare, che come una Furia gli predice con odio terribili sventure. Cesare fa ritorno a Roma e ne spoglia l'Aerarium, mentre Pompeo passa in rassegna gli alleati orientali. Cesare si dirige quindi verso la Spagna, ma è trattenuto dal lungo assedio di Massilia. Alla fine la città capitola grazie ad un sanguinoso scontro navale.
Libro IV: La prima metà del libro è occupata dalla campagna di Spagna in cui Cesare sconfigge Afranio e Petreio. Intanto, Pompeo intercetta una zattera su cui viaggiano cesariani alla deriva, che preferiscono tutti uccidersi piuttosto che cadere prigionieri. Il libro si chiude con la campagna in Africa di Curione, che però è sconfitto e ucciso da Giuba di Numidia.
Libro V: Il senato, esule in Epiro, conferma il proprio supporto per Pompeo. Appio consulta l'oracolo di Delfi per apprendere la propria sorte nella guerra, ma ottiene una profezia incomprensibile. In Italia Cesare, dopo aver sedato una rivolta dei soldati, marcia su Brindisi per attraversare l'Adriatico e scontrarsi con Pompeo. Prima che l'intero esercito possa compiere la traversata, però, scoppia una tempesta che rende il passaggio impossibile per le truppe rimaste in Italia sotto Antonio. Cesare prova a recapitare di persona un messaggio al suo luogotenente ma scampa di poco all'annegamento. Alla fine la tempesta si placa e i due eserciti riuniti si fronteggiano. Pompeo mette l'amata moglie Cornelia al sicuro sull'isola di Lesbo.
Libro VI: Pompeo è costretto ad asserragliarsi a Durazzo; ma dopo uno scontro favorevole ai pompeiani i cesariani sono costretti a riparare in Tessaglia, di cui si descrive diffusamente il selvaggio scenario. Il resto del libro segue Sesto, figlio degenere di Pompeo, che si reca da Erìttone, la più potente strega della regione, per conoscere il futuro. La maga rianima il cadavere di un soldato con una spaventosa cerimonia; il morto predice la sconfitta di Pompeo, la rovina di Roma e l'assassinio di Cesare.
Libro VII: I soldati desiderano scontrarsi, ma Pompeo è riluttante ad attaccare, finché non è convinto dai suoi, tra cui Cicerone. Segue lo scontro decisivo, la battaglia di Farsalo: i cesariani hanno la meglio, e Lucano interviene direttamente lamentando la perdita della libertà. Cesare è assetato di sangue e si distingue per la sua crudeltà:: si fa beffe di Domizio morente e nega gli onori funebri ai pompeiani. Bestie selvatiche si nutrono dei cadaveri mentre il poeta leva ancora il suo lamento.
Libro VIII: Pompeo fugge a Lesbo e si ricongiunge alla moglie, quindi si reca in Cilicia e considera le opzioni che gli rimangono. Decide di cercare rifugio ed aiuto in Egitto, ma il Faraone teme la vendetta di Cesare e progetta di assassinare Pompeo mentre sbarca. Quest'ultimo sospetta il tradimento; consola quindi la moglie, e rema da solo fino alla spiaggia, dove viene ucciso e decapitato accettando il suo fato alla maniera stoica. Il corpo è gettato in mare, ma è spazzato a riva dalle onde ed un certo Cordo gli dà umile sepoltura.
Libro IX: La moglie di Pompeo piange il fato del marito, mentre Catone prende le redini della causa del senato. Eroicamente conduce le truppe attraverso la tremenda calura e i serpenti velenosi del deserto africano per ricongiungersi a Giuba; lungo il percorso, si imbatte nell'oracolo di Zeus, Ammone, ma rifiuta di consultarlo, in accordo ai dettami stoici. Cesare visita Troia e onora gli spiriti dei suoi antenati. Poco dopo arriva in Egitto; quando gli emissari del Faraone gli presentano il capo di Pompeo, Cesare nasconde la sua gioia e si finge addolorato e sdegnato ricordando la parentela che lo legava al defunto.
Libro X: Cesare è sedotto da Cleopatra, sorella di Tolomeo; visita poi la tomba di Alessandro Magno, che considera un suo predecessore. Si tiene un fastoso banchetto; segue una lunga discussione sulle sorgenti del Nilo con il sacerdote Acoro. Il cinico Potino, principale tutore del giovane re, intende far assassinare Cesare ma è ucciso mentre i romani attaccano il palazzo. Un altro notabile egiziano, Ganimede, compie un ulteriore tentativo e il poema si chiude bruscamente mentre Cesare combatte per salvarsi.

MANTO

Figlia dell'indovino tebano Tiresia dal quale aveva ereditato le capacità magiche e divinatorie, è ricordata da Virgilio (Eneide X, 198-200), da Servio nel suo commento a Virgilio, da Ovidio (Metamorfosi VI, 157 e seguenti) e da Stazio (Thebais, IV 463-466 e VII 578 e seguenti). A seconda degli autori essa ha diversi connotati. Fu consacrata sacerdotessa di Apollo a Delfi. Per Virgilio fu moglie di Tosco (il mago personificazione del fiume Tevere) e madre di Ocno, leggendario fondatore di Mantova che prese il nome proprio da Manto. Secondo altri autori greci generò Mopso. In Stazio, dopo la morte del padre durante l'assedio di Tebe, essa iniziò a vagare per molti paesi, prima di fermarsi lungo le rive del Mincio dove creò un lago con le sue lacrime, il lago che circonda Mantova appunto. Queste acque avevano il magico dono di conferire capacità profetiche a chi le beveva. Dante Alighieri la riprese per includerla tra altri indovini mitologici. La sua presenza dà l'occasione al poeta di scrivere una lunga parentesi sulle origini di Mantova, che viene fatta pronunciare da Virgilio stesso. Smentendo se stesso, Dante immagina che egli rettifichi la sua versione dei fatti, circoscrivendo la fondazione a fatti scevri da riti magici: Manto sarebbe morta nel sito dove poi altri uomini, «sanz'altra sorte» cioè senza sortilegi, fondarono la città, scegliendo il nome in onore della donna lì sepolta. In realtà l'Alighieri la cita anche in Pg. XXII 113 come figlia di Tiresia ospitata invece nel Limbo, commettendo quindi una probabile svista.

EURIPILO

Euripilo è un personaggio dell'Eneide di Virgilio. La sua figura è secondaria. Nell'"Eneide", Euripilo è colui che gli Achei, desiderosi di tornare in patria dopo la Guerra di Troia, inviarono a consultare l'Oracolo di Delfi per chiedere se il momento era propizio per salpare. Egli riportò che come all'andata era stato necessario sacrificare Ifigenia, per il ritorno si sarebbe dovuto sacrificare un altro greco, Sinone. Almeno questa storia è quanto racconta Sinone stesso chiedendo asilo ai Troiani, in verità dicendo una bugia. Dante riprese Euripilo collocandolo tra gli indovini nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio dei fraudolenti nell'Inferno. Nonostante egli faccia dire a Virgilio come il suo discepolo conosca bene tutta la sua Eneide, Dante fa un errore, credendo Euripilo un indovino, mentre egli fece solo da messaggero.

SINONE: ""Spesso i Danai desiderarono tentare la fuga, lasciata Troia,
e stanchi ritirarsi dalla lunga guerra;
magari l'avessero fatto. Spesso li ostacolò l'aspra burrasca
del mare ed Austro atterrì i partenti.
Soprattutto quando questo cavallo composto di travi d'acero
s'ergeva, per tutto l'etere i nembi risuonarono.
Perplessi inviamo Euripilo ad interrogare gli oracoli
di Febo, ed egli riporta dai luoghi segreti queste tristi parole:
"Col sangue placaste i venti e con una ragazza sacrificata,
quando all'inizio,o Danai, giungeste alle spiagge iliache;
occorre cercare i ritorni col sangue e sacrificare con una vita
argolica." Come quella frase venne alle orecchie del volgo,
i cuori stupirono ed un gelido tremore corse nel fondo
delle ossa, a chi accennino i fati, chi richieda Apollo.
Allora l'Itaco trascina in mezzo il vate Calcante
con grande tumulto; richiede quali siano quelle volontà
degli dei. E molti ormai mi predicevan il crudele misfatto
del furfante, e taciti prevedevan i fatti venturi.
Egli tace per ben dieci giorni e nascosto rifiuta
di tradire qualcuno con la sua voce o esporlo alla morte.
Finalmente a stento, spinto dalle grandi grida dell'Itaco,
secondo l'accordo, tronca gli indugi e mi destina all'altare.
Concordarono tutti e quel che ciascuno temeva,
ridotto alla morte di uno solo, lo sopportarono.
Ed ormai si presentava il giorno esecrando; mi si preparavano
i riti sacri ed i frutti salati e le bende attorno alle tempia.
Mi sottrassi, confeso, alla morte e ruppi le catene,
e nascosto nel limaggioso stagno tra l'erba
m'appiattai, finchè partissero, se mai fossero partiti.
Nè per me più alcuna speranza di veder l'antica patria
nè i dolci figli ed il bramato padre,
ad essi forse essi chiederanno vendette per le nostre fughe
ed espieranno questa colpa colla morte dei miseri.
Perciò ti prego per i celesti e le divinità conoscitori del vero,
per se mai esiste, che resista ancora per i mortali,
la intemerata fede, abbi pietà di sì grandi affanni,
abbi pietà d'un cuore che sopporta cose non degne.""

Per queste lacrime concediamo la vita ed inoltre commiseriamo.
Lo stesso Priamo per primo ordina che si levino le manette (a SINONE)
e le strette catene e così parla con parole amiche:
"Chiunque sia, dimentica ormai da ora i Grai perduti,
sarai nostro ed a me che chiedo questo, racconta il vero:
perchè costruirono questa mole di immenso cavallo? chi l'autore?
o cosa chiedono? quale voto? o quale macchina di guerra?
Aveva detto. Lui, istruito dalle frodi e dall'arte pelasga
alzò al cielo le palme liberate dalle catene:
"Voi, fuochi eterni, e la vostra non violabile maestà chiamo
a testimonio,disse, voi altari e spade nefande,
che rifuggii, e bende degli dei, che portai come vittima:
mi è lecito sciogliere i sacri giuramenti dei Grai,
lecito odiare gli uomini e portare tutto alla luce,
se copron qualcosa, non son tenuto da alcuna legge di patria.
Tu però mantienti alle promesse e tu, Troia salvata, salvami
la lealtà, se riferisco il vero, se ricompenso alla grande.
Ogni speranza dei Danai e la fiducia della guerra intrapresa
stette sempre negli aiuti di Pallade. Ma da quando l'empio
Tidide infatti e l'inventore di delitti Ulisse, avvicinatisi,
osarono strappare dal tempio consacrato il fatale Palladio,
uccise le guardie dell'altissima rocca,
rubarono la sacra effigie e con mani cruente (osaron)
toccare le bende virginee della dea,
da allora svaniva e scaduta si ritirava indietro
la speranza dei Danai, spezzate le forze, distolta la mente della dea. .....

ENEIDE LIBRO II

CALCANTE

Calcante, figlio di Testore, e per ciò detto Testoride, e fratello di Leucippe, nella mitologia greca era un grande veggente originario di Argo. Aveva ricevuto da Apollo il dono della profezia: "Come augure Calcante non teme alcun rivale". Nominato gran sacerdote e indovino dell'esercito greco da Agamennone. Calcante aveva rinunciato ad appoggiare il ratto di Elena in quanto Priamo, dopo aver rifiutato la proposta di Agamennone di restituire la donna, lo aveva incaricato per la sua posizione di sacerdote di Apollo di andare a Delfi perché consultasse la Pizia. Dopo aver annunciato la disfatta di Troia e la totale devastazione del casato di Priamo, la Pizia consigliò a Calcante di stringere amicizia con i Greci per impedire loro di rinunciare all'assedio prima di procurarsi la vittoria. Calcante predisse che, per avere venti favorevoli e adatti a spingere verso Troia la flotta greca che si era radunata in Aulide, Agamennone avrebbe dovuto sacrificare sua figlia Ifigenia in modo da placare l'ira di Artemide che da Agamennone stesso era stata offesa. Nell'Iliade, Calcante annunciò agli Achei che Criseide, schiava e concubina di Agamennone doveva essere restituita a suo padre Crise per spingere Apollo a fermare la pestilenza che aveva mandato loro come punizione: questa profezia fu la causa scatenante della lite tra Achille e Agamennone che è l'argomento principale del poema omerico. Calcante morì di vergogna a Colofone in Asia Minore, poco dopo la fine della guerra di Troia, per essere stato sconfitto dal profeta Mopso in una gara di divinazione e compiendo così la profezia che voleva che non fosse morto fintanto non avesse incontrato qualcuno superiore a lui nell’arte d’indovinare. Strabone e lo Pseudo-Apollodoro narrano la sfida nei dettagli e rivelano appunto che Calcante morì di crepacuore, venendo sepolto a Nozio. Una seconda versione dice che Calcante sia invece morto per il troppo ridere quando, una volta giunto il giorno per il quale aveva previsto la propria morte, la sua profezia non sembrava realizzarsi. Una terza versione narra che Calcante fu ucciso, con un colpo alla testa, nei pressi di Leutarnia (città magno-greca sita, probabilmente, nei pressi dell'attuale Albidona), perché non riuscì ad indovinare, su richiesta di Sisifo, il numero di fichi che si trovavano su un albero.

Michele SCOTTO

Michele Scoto, in inglese Michael Scot (Scozia, 1175 circa – 1232 circa o 1236), è stato un filosofo scolastico, astrologo e alchimista scozzese, attivo presso la corte siciliana di Federico II di Svevia. È considerato il più importante averroista medievale, anche se non fu un seguace delle tesi averroistiche, il primo a far conoscere i commenti di Averroè alle opere aristoteliche in Occidente, contribuendo al recupero del retaggio filosofico aristotelico nell'Europa latina. Scozzese d'origine, si formò forse a Oxford e Parigi, mentre a Toledo, allora centro della cultura ispanico-moresca apprese probabilmente l'arabo e tradusse molte opere, con un importante contributo alla diffusione delle teorie di Aristotele in Europa, tramite la traduzione delle opere di Averroè e Avicenna. Si attribuiscono a Michele Scoto, non senza qualche riserva, la traduzione latina del De animalibus di Aristotele, che probabilmente attrasse l'interesse dell'imperatore Federico II già nel 1220 (anno in cui rientrava in Italia dalla Germania), nonché di altri scritti aristotelici quali il De anima, il De physica, il De metaphysica, il De substantia orbis, il De generatione et corruptione e i Parva naturalia. Quale esperto di matematica, filosofia e astrologia entrò alla corte dell'Imperatore Federico II di Hohenstaufen a Palermo, per il quale fu filosofo e astronomo e avrebbe fatto molte predizioni, alcune delle quali riguardanti varie città italiane. All'imperatore è dedicata fra l'altro la sua traduzione dell'Abbreviatio Avicenne de animalibus, ancora con il commento di Avicenna. Il suo nome viene citato da Dante Alighieri nel canto XX dell'Inferno come Michele Scotto; egli era noto ai tempi di Dante per essere stato una sorta di mago alla corte del re di Sicilia e imperatore Federico (secondo la leggenda avrebbe predetto a Federico II il luogo della sua morte in una località dal nome di un fiore, che fu poi Castel Fiorentino nei pressi di Torremaggiore). «Quell'altro che ne' fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco.». Sulla fama di Michele come personaggio dotato di capacità di indovino e profeta si soffermò Giovanni Villani il quale scrisse: «E bene difinì il grande filosofo maestro Michele Scotto quando fu domandato anticamente della disposizione di Firenze, che ssi confa alla presente matera; disse in brieve motto in latino: "Non diu stabit stolida Florenzia florum; decidet in fetidum, disimulando vivet". Ciò è in volgare: "Non lungo tempo la sciocca Firenze fiorirà; cadrà in luogo brutto, e disimulando vive". Ben disse questa profezia alquanto dinanzi la sconfitta di Monte Aperti.» (Citato in Piero Morpurgo, Michele Scoto, in Federiciana (2005)) Viene citato come Michele Scotto anche da Giovanni Boccaccio (che ne tramandò anch'egli la fama di maestro di negromanzia) nel Decameron, e più precisamente nella nona novella dell'ottava giornata. «Dovete adunque, - disse Bruno - maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de' quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanzia de' prieghi loro ci lasciò due suoi sofficienti discepoli, a' quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l'aveano, fossero sempre presti.» (Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata VIII, novella 9) Tutte queste notizie, frutto di vociferazioni del tempo, sono segno del fatto che si intendesse diffondere la leggenda del carattere diabolico della corte di Federico II in un'epoca di forti contrasti politici con la curia papale. Michele fu in realtà uno dei tanti studiosi (tra i quali Leonardo Fibonacci, Guglielmo di Saliceto, Rolando da Cremona, Jacob Anatoli) certo tra i più preclari, che frequentarono il cenacolo federiciano, nel quale l'imperatore cercava frequenti consulti con molti scienziati e nel cui contesto si sviluppavano anche aspre contese scientifiche e dottrinali. La seconda versione del famoso libro di Leonardo Fibonacci sulla Matematica, Liber abaci, fu dedicata a Michele Scoto nel 1228 ed è stato suggerito che lo stesso Michael Scot abbia anche giocato un ruolo nella presentazione della Successione di Fibonacci. Uno studio recente di un passo scritto da Michael Scot sugli arcobaleno multipli, un fenomeno che è stato compreso solo dalla fisica moderna e da recenti osservazioni, suggerisce che Michael Scot poteva perfino avere avuto contatti con il popolo Tuareg nel deserto del Sahara. La sua opera maggiore è il Liber introductorius, che rivela spiccati interessi magici, astrologici e alchemici, è composta in realtà di tre libri: il Liber quattuor distinctionum, di interesse astronomico e astrologico; il Liber Phisionomiae, opera di filosofia della natura; il Liber particularis, concepito per rendere più comprensibile l'astrologia agli studenti. Nell'Ars Alchemiae, Michele Scoto offre un trattato di alchimia in cui l'enfasi cade sulle operazioni pratiche, presentando un quadro documentato della diffusione dell'alchimia nel mondo mediterraneo contemporaneo. L'opera offre interessanti paralleli con il De aluminibus et salibus di Razi e la Schedula diversarum artium di Teofilo da Stavelot.

Guido BONATTI

Guido Bonatti (Forlì, 1210 circa – 1296 o 1300) fu uno dei più famosi astronomi e astrologi italiani del XIII secolo, nonché "il più autorevole trattatista di astrologia del Medioevo italiano". Non sono note con esattezza né la data di nascita, avvenuta agli inizi del XIII secolo (secondo alcune fonti la nascita sarebbe da collocare nel 1210), né quella di morte, collocabile probabilmente fra il 1296 ed il 1300. Nel 1233 affrontò con successo, a Bologna, una disputa col frate Giovanni Schio da Vicenza, che sosteneva la non scientificità dell'astrologia. In una seconda disputa, a Forlì, quella col francescano Ugo da Reggio, detto Ugo Paucapalea, Bonatti ebbe invece la peggio, tanto che le fonti dicono che non osò più farsi vedere in pubblico finché Ugo rimase in città. Fu consigliere, come astrologo, di Guido Novello da Polenta e Guido da Montefeltro. Fu al servizio anche dei comuni di Firenze, Siena e Forlì. È stato anche ipotizzato che fosse al servizio o intimo dell'imperatore Federico II di Svevia, e di Ezzelino da Romano, dal momento che la tradizione gli attribuisce, dall'alto della sua torre di Forlì, l'osservazione di una serie di eventi straordinari , astronomici e meteorologici, a partire dai quali, nel 1246, fu in grado di formulare una previsione astrologica e di confermare le voci di una congiura con cui il Papa Innocenzo IV mirava ad assassinare la persona di Federico e del suo alleato, in quella sedizione che sarebbe poi sfociata nell'epilogo di Capaccio. Nel 1260 Bonatti figurò come testimone di una lega tra Firenze e Siena. In quell'occasione predisse la vittoria dei ghibellini alla Battaglia di Montaperti, guadagnando molta fama dopo che questa previsione si avverò. Nel 1282, il Papa Martino IV inviò un agguerrito esercito di francesi contro la città di Forlì, rimasta forse l'ultima roccaforte ghibellina in Italia. I Francesi, dopo aver a lungo assediato la città, furono infine pesantemente sconfitti, anche grazie all'abilità strategica di Guido da Montefeltro, allora a capo delle milizie forlivesi, e del suo consigliere Guido Bonatti: l'episodio della battaglia di Forlì è ricordato da Dante Alighieri, che di Forlì dice: "la terra che fe' già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio" (Inferno, XXVII, 43-44). Bonatti aveva il proprio laboratorio nella cella campanaria dell'Abbazia di San Mercuriale e, secondo la memoria storica della città, sembra che dall'alto del campanile abbia guidato la resistenza forlivese contro i francesi. Secondo alcune fonti, pare aver predetto anche il proprio ferimento durante l'assedio, che puntualmente si avverò. Intorno all'anno 1277, scrisse un grande trattato di astronomia e astrologia dal titolo Liber decem continens tractatus astronomiae, di cui esistono vari esemplari e di cui vennero pubblicate diverse edizioni a stampa: come nel 1491, nel 1506, nel 1550. Il che dimostra la credibilità e l'interesse che il testo ottenne nei secoli successivi. Sorvolando sulle implicazioni matematiche, vi esponeva gli elementi basilari dell'astronomia tolemaica, aggiungendovi i risultati delle proprie ricerche ed osservazioni: come riferisce il Tabanelli (a p. 38), Bonatti si attribuiva il merito di aver "individuato 700 stelle, delle quali, fino ad allora, non si aveva avuta ancora conoscenza". Del resto, sembra che un suo pregio indiscusso fosse quello della chiarezza (non facile da trovare in trattati astronomici ed astrologici): il cronista Giovanni Villani riferisce che l'esposizione era così piana da farsi intendere perfino a delle "fanciulle".

ASDENTE

Era originario di Reggio Emilia (o forse di Parma) e di professione ciabattino, ma nella seconda metà del Duecento divenne famoso per le sue predizioni. A lui si affidavano per esempio il vescovo di Parma e anche altri politici e religiosi del suo tempo. Salimbene, suo concittadino, lo ricorda nella sua Cronaca con stima e devozione. Fu anche un discreto biblista. Dante Alighieri lo citò prima nel Convivio come esempio di fama che non corrisponde alla nobiltà. Successivamente lo collocò nell'Inferno (XX, vv. 18-20) tra gli indovini, nella quarta bolgia del cerchio ottavo dei fraudolenti, punito come altri "colleghi" dal dover camminare con la testa rigirata sulle spalle "perché volse veder troppo davante".

Eugenio Caruso - 12-09-2019

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