GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. Gli imperatori romani figurano in un'altra sezione.
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Federico II di Svevia
Stupor mundi, così lo chiamarono i contemporanei. Per iniziare a descrivere la vita di Federico Hohenstaufen occorre rifarsi alle vicende del regno di Sicilia, che il padre, l’imperatore Enrico VI di Svevia, figlio di Federico I Barbarossa, aveva acquisito in virtù del suo matrimonio con Costanza d’Altavilla, discendente dell’ultimo esponente della monarchia normanna, Ruggero II.
Costanza proveniente dalla Germania, stava raggiungendo il marito impegnato nell’isola a soffocare una ribellione della nobiltà locale, quando il 26 dicembre del 1196, esattamente il giorno dopo in cui Enrico veniva proclamato re di Sicilia nella cattedrale di Palermo, dava alla luce il suo unico figlio in quel di Jesi.
Sin dall'inizio si prospettava per il fanciullo un destino eccezionale: non solo successore del padre alla dignità imperiale, ma anche unico erede della stirpe normanna dei re di Sicilia, e quindi legittimo titolare della monarchia meridionale. E dunque non fu un caso se la nascita di Federico sembrò a molti il suggello definitivo della politica di Enrico VI, che infatti si precipitò ad assistere alla cerimonia battesimale tenutasi nella cattedrale di San Rufino ad Assisi: l’erede avrebbe infatti riunito i territori dell’impero con il meridione d’Italia.
Il 28 settembre del 1197, quando Federico aveva solo tre anni, Enrico VI moriva, mentre a Messina era impegnato a sedare una delle numerose sommosse della nobiltà locale. Quella dipartita rimescolò le carte: sebbene l’imperatore avesse avuto premura di indicare già l’anno precedente il piccolo Federico Ruggero come suo erede sul trono tedesco, non aveva avuto il tempo di presentarlo ai principi elettori germanici; inoltre, la minore età di Federico rendeva la candidatura al trono imperiale assai incerta, in quanto i grandi feudatari tedeschi ne avrebbero certamente tratto profitto per erodere il suo potere, o peggio, avrebbero scelto un altro pretendente, magari più anziano e di maggior peso.
Rispondeva a questo identikit il fratello di Enrico, Filippo di Svevia, il quale non solo vantava credenziali eccellenti, ma aveva dimostrato quale fosse il suo orientamento in merito alla vicenda quando, appena raggiunto dalla notizia della morte del fratello, invece di proseguire nella missione che gli era stata commissionata proprio da Enrico, che prevedeva di prelevare il bambino e farlo incoronare in Germania, fece dietrofront all’altezza del lago di Bolsena prendendo da solo la via di casa.
Per Federico, affidato alle cure della duchessa di Urslingen e del marito Corrado, duca di Spoleto e fedelissimo del defunto imperatore, si spalancava un futuro incerto. Per sua fortuna la madre Costanza dimostrò tutta la tempra e il valore della gloriosa stirpe normanna. Alla regina premeva rimettere insieme, per il figlio, i cocci di quel regno normanno che, stando alle parole del futuro papa Innocenzo III, la «bufera del furor nordico» aveva sconquassato. Né si poteva dare torto a Costanza nel suo tentativo di rivendicazione dell’opera che gli avi erano riusciti a compiere in terra di Sicilia. Chiamato nel 1061 da un emiro del luogo, il primo ad affacciarsi dalle parti dello stretto era stato Ruggero d’Altavilla, il fratello minore di Roberto il Guiscardo; le sue abilità guerriere erano indiscutibili, tanto che in capo a una trentina d’anni Ruggero era riuscito a strappare la Sicilia ai musulmani e a trasmetterne il dominio prima al figlio Simone, nel 1101, e infine al suo secondogenito Ruggero II, subentrato alla morte del fratello nel 1105. Poco più di vent’anni erano bastati a quest’ultimo per riunire nelle sue mani i territori pugliesi e siciliani degli Altavilla, consacrati con la corona reale che otteneva nel 1127, all’indomani della conquista di Napoli.
Da allora il regno di Sicilia era diventato uno straordinario laboratorio all’interno del quale le istituzioni feudali non soffocarono le preesistenti basi economiche e sociali impiantate dai musulmani e anzi, sulla scorta di quell’esempio, i normanni si sforzarono di mantenere intatta l’intelligente larghezza di vedute che aveva ispirato i loro predecessori. Così, in uno spirito di tolleranza inaudito per quei tempi, il meglio del passato e del presente si fusero e fiorirono a formare le fortune del regno, di cui la nuova capitale Palermo esprimeva l’essenza.
Fu lì che Costanza volle presso di sé il piccolo Federico, fortemente intenzionata a ricomporre e trasmettergli quella straordinaria eredità. Seguendo la consuetudine normanna, l’imperatrice assunse la reggenza circondandosi di una schiera di consiglieri, nel tentativo di contenere le rivendicazioni della feudalità e di allontanare i baroni maggiormente avversi all’insediamento di un erede al trono, discendente, per parte di padre, dalla dinastia tedesca.
L’impresa però era improba: quei baroni erano infidi, particolamente Marcovaldo di Annweiler, che dopo aver ricoperto il ruolo di braccio destro di Enrico VI per le questioni siciliane, s’avanzava ora come candidato alla vicereggenza.
Costanza si oppose strenuamente alle pressioni di Marcovaldo ma sapeva di non poter resistere a lungo. Allora compì quel passo che rappresentò un vero e proprio capolavoro politico. Per mettere a riparo l’eredità che stava difendendo con le unghie e con i denti si alleò con l’unica autorità capace in quel momento di ergersi a tutela di lei e del figlio, ovvero il papato. A capo della Chiesa, si era eretto a partire dal 1198 un giovanotto appartenente alla schiatta dei conti di Segni, Lotario, destinato a diventare, una volta assunto il nome pontificale di Innocenzo III, uno dei giganti della Chiesa. Coltissimo e austero, costui aveva studiato a Parigi e Bologna, aveva già scritto un trattato teologico-ascetico come il De contemptu mundi, in cui deplorava la caducità del mondo, glorificando l’aspirazione alla salvifica via celeste che ovviamente, da pontefice, tramutò in un’umanissima propensione alla concentrazione del potere assoluto.
Dilatando alle estreme conseguenze gli insegnamenti gregoriani, Innocenzo III allargò a dismisura le prerogative del pontefice, inteso non più soltanto come vescovo di Roma e capo della Chiesa romana, ma trasformandolo esplicitamente nel vicario di Cristo operante sul mondo intero. Così, divenendo interprete di una rigorosa forma morale e disciplinare dell’intera Ecclesia, egli si fece promotore di un’estenuante difesa della fede dalle eresie, che si concretizzò con l’infame crociata albigese e la non meno riprovevole colonizzazione cristiana delle terre baltiche, oltre ovviamente all'ossessiva rincorsa della riconquista dei luoghi santi che naufragò nell’allucinata peregrinatio del 1204, conclusasi con il sacco di Costantinopoli avvenuto per mano crociata.
Questo dunque era il potente alleato cui si rivolgeva Costanza. Da lui ottenne via libera affinché, il giorno della Pentecoste del 1198, nel duomo di Palermo fosse imposta con rito bizantino la corona del regno di Sicilia sul capo del piccolo Federico, mentre risuonava il grido Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat! che sarà poi il motto del sigillo imperiale. Va da sé che, per ottenere il suo aiuto, Costanza fu costretta a riconsegnare al potere pontificio la signoria feudale sulla Sicilia, tradendo in parte la politica di Ruggero II e dello stesso Enrico VI, che mirava a consolidare l’autonomia del regno nei confronti della Chiesa. Poiché uno dei maggiori timori del papato era proprio l’unione dei territori del Meridione con quelli dell’impero – un’unione che, di fatto, avrebbe accerchiato i possedimenti pontifici, isolando Roma fra i due poli della dominazione sveva – Costanza, al momento dell’incoronazione del piccolo Federico, evitò qualunque riferimento al problema delle due corone, tedesca e siciliana, che Federico avrebbe riunito nella sua persona.
Compiuto il suo dovere di madre, Costanza morì; la Regina aveva di che essere soddisfatta: l’intervento della Santa Sede nelle faccende siciliane contribuiva a contenere il potere dei vari baroni, mentre la scelta del papa come tutore di Federico garantiva al figlio una discreta sicurezza finché non avesse raggiunto la maggiore età.
Per i successivi quattordici anni, Federico non si allontanò dall’isola, e visse in quella terra così particolare che era la Sicilia normanna. Una fortunata quanto fantasiosa tradizione storiografica colloca in questo periodo le romanzesche incursioni del piccolo sovrano tra le vie di una Palermo multietnica.
Federico sicuramente poté godere degli influssi scaturiti da una città vivace come la capitale normanna diede prova di essere, ma lo fece di riflesso, ben protetto all’interno delle mura del palazzo reale e affidato alla custodia di Gualtiero di Palearia, vescovo di Troia e cancelliere del regno, al quale Innocenzo aveva girato la prebenda di 30.000 talleri d’oro lasciati a suo tempo da Costanza proprio per l’educazione del figlio.
Federico entrò in contatto con i classici arabi, da cui apprese la sapienza e la profondità dell’Islam. L’ambiente influì sull’indole di Federico e l’atmosfera cosmopolita che lo circondava forgiò in lui tendenze intellettuali e politiche difformi dal suo tutore Innocenzo III: così, senza lasciarsi imbrigliare negli schemi spirituali dell’epoca, il ragazzo assunse atteggiamenti rivolti a nuove forme di convivenza civile. Da uno scritto anonimo risalta nella figura di Federico un eccezionale intuito e una ostinata volontà insofferente verso ogni subordinazione, che ostentava già, nelle sue deliberazioni, un costante predominio della ragione.
Aveva letto l’opera del geografo prediletto da suo nonno Ruggero II, Ibn’Idris, e sicuramente rimase influenzato da quello scritto che affermava: «Diciamo dunque che la Sicilia è la perla del secolo per abbondanza e bellezza; primo Paese al mondo per bontà di natura e antichità d’incivilimento. Vi vengono da tutte le parti i viaggiatori e i trafficanti delle città e delle metropoli, i quali tutti a una voce la esaltano, lodano la sua splendida bellezza, parlano delle sue felici condizioni […] E veramente i re di Sicilia vanno messi innanzi di gran lunga a tutti gli altri re, per possanza, per la gloria e per l’altezza dei propositi».
È indubbio tuttavia che la giovinezza di Federico non fu tutta rose e fiori. Quella meravigliosa città, che il geografo arabo Ibn Gubayr definiva «antica ed elegante, splendida e aggraziata […] superba tra le sue piazze e i suoi dintorni che sono tutti un giardino», quasi fosse uscita dalle Mille e una notte, fu nei fatti una severa e amara scuola di vita per il ragazzo: la realtà rimaneva quella di un bambino che a solo quattro anni si ritrovava orfano di madre e padre, in balìa di feudatari che scatenarono sanguinose lotte di fazione per guadagnare maggiore autonomia all’interno dei loro domini.
Fino al 1208 Federico fu più che altro considerato come una pedina utile a giochi diversi: Innocenzo III aveva tutto l’interesse a servirsi di lui per temperare le rivalità fra i baroni e riaffermare definitivamente i diritti del Patrimonio di San Pietro sull’isola e sull’Italia centrale; soprattutto in contrapposizione a Marcovaldo di Annweiler.
Per quel che riguardava la Germania invece, suo zio Filippo di Svevia, incoronato nel frattempo re dei romani, intendeva sfruttare la parentela che lo legava al giovinetto confinato a Palermo per imporre la propria sovranità a Sud delle Alpi e tenere sotto pressione il papato. Preoccupato da tale prospettiva, toccò proprio a Innocenzo III prendere l’iniziativa ed entrare di forza nelle questioni tedesche, decidendo tra il 1200 e il 1201 di appoggiare la candidatura imperiale di Ottone di Brunswick in funzione antisveva.
Il pretendente guelfo, che agli occhi del pontefice appariva poco più che un soldato ignorante e dunque perfetto a ricoprire il ruolo di “spada della Chiesa”, corroborò la scelta di campo del papa con la promessa di concedere alla Santa Sede il patrimonio e i territori appartenuti a Matilde di Canossa, il riconoscimento delle “recuperazioni” attuali e di quelle future, la rinuncia all’esarcato di Ravenna, la Pentapoli, la marca di Ancona e il ducato di Spoleto, nonché l’impegno a tutelare gli interessi papali in Sicilia, in Toscana, in Lombardia o dovunque Dio avesse comandato.
Sulla scorta di tali prospettive, Innocenzo si produsse in un’offensiva imponente, mirata a fare terra bruciata intorno al rivale Filippo di Hohenstaufen: non si contano le missive con le quali si congratulò, rimproverò, promise vantaggi, fece sperare feudi, cariche, proprietà; non prima di essersi spianato la strada con una sonora scomunica rivolta a tutti i partigiani di Filippo, cosa che comportò un discreto numero di defezioni e un ingrossamento della fazione guelfa.
Insomma, intorno al 1203 Innocenzo pregustava la vittoria. A quel punto però il Signore, nel cui nome Innocenzo spergiurava di agire, decise altrimenti. Già nel 1204, l’oro dell’Hohenstaufen risultò più persuasivo di qualsiasi anatema papale: la nobiltà tedesca si riscoprì di nuovo ghibellina. Filippo guadagnava sempre più terreno, Ottone appariva sempre meno baldanzoso. Finché il 6 gennaio del 1205, colui che rappresentava il deau ex machina della potenza guelfa in Germania, l’arcivescovo Adolfo di Colonia, incoronava Filippo ad Aquisgrana secondo tutti i crismi.
Innocenzo comprese finalmente di aver puntato sul cavallo sbagliato, ma doveva salvare la faccia: la scomunica scagliata contro Filippo fu di prammatica. Passarono ancora due anni, nei quali il papa assistete angosciato all’avanzata del nemico, mentre il potere costruito intorno a Ottone di Brunswick, si dissolveva: era l’agosto del 1207 quando il pontefice, ricordandosi di essere un politico sopraffino, liberava Filippo della scomunica, inviandogli qualche mese dopo una lettera nella quale si congratulava del suo rientro in grembo alla Chiesa e auspicandosi una proficua collaborazione.
Fu una dichiarazione di resa pressoché totale, ma al contempo una dimostrazione di sfacciato equilibrismo. A giudicare da ciò che successe subito dopo, davvero sembrerebbe che le vie del Signore siano insondabili. Filippo, che si accingeva a sferrare il colpo definitivo ai danni di Ottone, pregustando il momento in cui si sarebbe presentato al mondo come l’unico e vero imperatore, venne colpito dalla collera divina, tramutata nell’occasione nell’ignobile mano che gli tagliò la gola. Il vile attentato, avvenuto in quel di Bamberga il 21 giugno del 1208, portava la firma del conte Otto von Wittelsbach e sebbene fosse animata da un movente passionale, più di uno pensò chi potesse essere il mandante.
Ottone di Brunswick infatti, non poteva che giovarsi di questa dipartita, come d’altronde Innocenzo, che pur deplorando in pubblico il regicidio, doveva aver molto esultato in privato. Forse troppo, a giudicare dal comportamento tenuto da Ottone quando, nell’agosto del 1209, si incontrava finalmente col papa a Viterbo, per ricevere quell’incoronazione tanto sofferta. Fu in tale frangente che Innocenzo scoprì che forse Ottone non era tanto ottuso quanto sperava, dal momento che questi, non appena sentì il rassicurante peso della corona, si affrettò a rimangiarsi tutte le promesse con le quali aveva blandito il papa. Rinnegati i diritti pontifici nell’Italia centrale, Ottone si improvvisava addirittura paladino dei comuni italiani del Nord, che cercavano di proteggere la propria autonomia dagli interessi esterni di papato e impero.
Era chiaro che il Guelfo aveva fatto propria la tesi, già di Federico I Barbarossa, che la Sicilia fosse parte dell’impero (una posizione su cui Enrico VI si era mantenuto cauto, accettando la separazione delle due corone), e che, essendosi guadagnato il consenso di molti signori e della popolazione musulmana dell’isola, si stava preparando alla sua conquista. Cosa che avvenne evidente quando, già l’anno successivo, Ottone occupava Puglia e Calabria, e sconfinava nel Patrimonium Petri, rendendo quanto mai prossimo il peggior incubo che Innocenzo avesse paventato. Al pontefice, cui si sommava il rammarico di essere stato l’artefice della sua imminente disfatta, non restava che giocarsi la carta che mai si sarebbe sognato di estrarre dal mazzo: quel giovinetto che languiva in Sicilia e per il quale si era profilato un destino di relegazione e abbandono.
Innocenzo aveva già dimostrato un certo interesse per Federico già nel 1208, quando aveva convocato a San Germano una grande assemblea di nobili, ai quali, delegandoli pur formalmente dell’amministrazione della giustizia nel regno del Sud, ribadiva l’obbedienza e la fedeltà che dovevano al giovane sovrano. Inoltre, si era preoccupato di organizzare il matrimonio tra Federico e Costanza d’Aragona, matura figlia di Pietro II, giocando d’anticipo sull’eventualità che Filippo di Svevia, ancora vivo, vegeto e potente, trovasse per il nipote una sposa tedesca che rinsaldasse i legami del giovane con le terre dell’impero. Poi i fatti erano precipitati rovinosamente, costringendo il pontefice a fare di necessità virtù, affidando le sorti della sua sopravvivenza a quel giovinetto che, in buona sostanza, rappresentava un’incognita tutta da scoprire.
Nel frattempo Federico dimostrava di essersi fatto le ossa, cavalcando con perspicacia e determinazione il dono della sorte che, in quello stesso 1208, lo privava dell’assillo di due dei suoi più temibili avversari in terra siciliana: Marcovaldo di Annweiler e Gualtieri di Brienne, morti a distanza di pochi mesi tra loro. Sebbene fosse poco più che quattordicenne il ragazzo, autoproclamatosi maggiorenne, manifestò la ferma intenzione di recuperare i beni usurpati dai baroni durante la sua minore età, astenendosi tuttavia dal punire chiunque aveva dubitato della sua autorità, come pure avrebbe potuto secondo il diritto normanno.
Compreso finalmente il ruolo che il destino gli aveva affidato, e stimolato dal pontefice, sempre convinto di esercitare su di lui un’influenza determinata dalla tutela che si era sobbarcato sino a quel momento, Federico si apprestava a contrastare la minaccia rappresentata da Ottone.
Fortunatamente, due potenti alleati si affacciarono all’orizzonte a dargli man forte. Da un lato, il re di Francia Filippo Augusto, preoccupato per l’espansione tedesca in Italia e nelle Fiandre, decise infatti di aiutare gli Svevi soprattutto alla luce del fatto che gli inglesi, prima con Riccardo Cuor di Leone e ora, dopo la morte di quello attraverso Giovanni Senza Terra, appoggiavano Ottone affacciandosi minacciosi sulle coste della Normandia. Dall’altro, i comuni dell’Italia settentrionale che, timorosi di perdere le loro prerogative, si coalizzarono contro Ottone.
Così, mentre il sovrano francese riusciva a convincere i sostenitori degli Hohenstaufen a offrire a Federico la corona di re di Germania, gli abitanti della Padania costringevano Ottone a rimandare la sua marcia sulla Sicilia, per ripristinare l’ordine nel Nord della penisola italiana. Se la scelta di Ottone apparve a posteriori discutibile, in quanto la conquista del regno e la cattura di Federico gli avrebbero conferito un potere difficilmente scalfibile, di contro risultò favorevole a Federico, che poté nel frattempo consolidare la sua posizione in Sicilia e organizzarsi a dovere per compiere le mosse future.
Passarono così tre anni durante i quali Federico poté raggiungere quasi senza affanni il diciottesimo anno di età, provare l’ebbrezza della paternità con la nascita del suo primogenito Enzo e dunque, corroborato dalla certezza di una discendenza, lanciarsi senza esitazioni nelle faccende dell’impero.
Nel 1212 Federico lasciava la Sicilia con l’intenzione di raggiungere Roma. Lì lo attendeva Innocenzo III che, durante la cerimonia pasquale, si rivelò sollecito nel conferire a Federico la corona del regno siciliano, ricevendone in cambio un giuramento di vassallaggio. Quindi, senza porre tempo in mezzo, il sovrano partiva alla volta della Germania, fermamente deciso a concretizzare l’autorità imperiale conferitagli dai principi tedeschi, attraverso la sconfitta di Ottone.
Arrivato a Costanza, alle soglie della Germania, dove giunse con poche ore d’anticipo rispetto a Ottone che si era mosso per intercettarlo, faticò non poco a convincere il vescovo ad aprirgli le porte: tuttavia, seppe guadagnarsi le simpatie della popolazione che si schierò dalla sua parte, consentendogli infine un ingresso trionfale in città. Da quel momento in poi, il problema dell’eliminazione del rivale fu per Federico solo una questione di tempo e di pazienza.
A ottobre Federico indisse la sua prima dieta da re di Germania e a novembre stipulò gli accordi col futuro re di Francia Luigi VIII in chiave antiottoniana. Finalmente, il 9 dicembre 1212 veniva incoronato imperatore nel duomo di Magonza dal vescovo Sigfrido III di Eppstein, anche se la sua effettiva sovranità doveva ancora essere sancita. Fu anche per questo motivo che il 12 luglio 1213, con la cosiddetta Bolla d’Oro, nota anche come “promessa di Eger”, Federico si impegnava a mantenere la separazione fra impero e regno di Sicilia e a rinunciare ai diritti germanici in Italia; inoltre giurava di intraprendere presto una crociata in Terrasanta.
A ogni modo, Federico poté essere riconosciuto unico pretendente alla corona imperiale solo dopo il 27 luglio 1214 quando, nella battaglia di Bouvines, Filippo Augusto re di Francia sbaragliò Ottone IV e i suoi alleati inglesi e fiamminghi, scongiurando di fatto uno scontro diretto fra i due contendenti. A quel punto, resistevano al dominio di Federico solo Colonia, la città più ricca e popolosa della Germania del tempo, i cui mercanti vantavano particolari diritti commerciali e di traffico con l’Inghilterra di Enrico ii Plantageneto sin dal 1157; e Aquisgrana, dove erano conservate le spoglie di Carlo Magno. Quando questa cadde nel 1215, Federico, che ormai contava sull’appoggio pressoché totale dei feudatari e delle città tedesche, decise che proprio lì, nell’antica capitale carolingia, si dovesse tenere una seconda e splendida incoronazione, che completasse quella di Magonza.
Così, il 25 luglio del 1215 il giovane sovrano diventava definitivamente imperatore con tutta la solennità del rito, mentre Ottone, definitivamente scaricato dal papa, che lo destituiva formalmente, si ritirava mestamente nei suoi domini sassoni, dove nel maggio del 1218 si spegneva quasi in sordina.
Con la scomparsa definitiva del rivale, Federico coronava l’antico sogno degli Hohenstaufen, riunendo nella sua persona gli scettri del Sacro Romano Impero e del regno di Sicilia. Già ad Aquisgrana, il sovrano aveva palesato la sua ammirazione per Carlo Magno e, ribadendo la restaurazione dei valori cari al re carolingio, sottolineava la sua intenzione di farsi crociato, affiancandosi così al re francese, che aveva “ereditato” il ruolo di difensore del papato nell’organizzazione della peregrinatio. D’altra parte, l’assunzione di tale impegno, oltre a conferire maggiore solennità alla guerra santa, che a quel punto si sarebbe ammantata della dignità imperiale, avrebbe dimostrato la buona volontà di Federico nel mantenere la concordia fra le due massime autorità della terra.
Con lo stesso spirito, l’11 novembre del 1215 partecipava al quarto concilio lateranense in cui Innocenzo III emise il suo canto del cigno: Federico non solo ribadiva gli impegni presi, ma assecondava il pontefice nel suo allucinato delirio di potenza, che lo portava a consacrare definitivamente la Santa Inquisizione fornendo a questa l’ausilio incontrastato delle autorità civili, che da quel momento erano tenute a fornire il braccio secolare attraverso il quale l’Ecclesia avrebbe potuto colpire chiunque e dovunque.
Non sappiamo se lo zelo espresso nell’occasione da Federico fosse il frutto del riconoscimento tributato a chi si era preso la briga di proteggerlo in tempi non sospetti, o non fosse piuttosto determinato dalla scaltra lucidità con cui l’imperatore, dotandosi di uno strumento implacabile, intendeva colpire di riflesso le città italiane, da sempre rigurgito di pericolose eresie e luoghi di sedizione antimperiale: di fatto, quando il pontefice scomparve l’anno successivo, Federico non sembrava così smanioso di ottemperare alle promesse fatte soprattutto in materia di pellegrinaggio in Terrasanta, apparendo piuttosto assorbito dalle incombenze dell’amministrazione del proprio potere.
Nei due anni successivi l’attenzione di Federico fu completamente rivolta alla Germania, dove peraltro non fu in grado di lasciare quell’impronta così incisiva che avrebbe invece saputo imprimere in Italia. All’epoca, le lande teutoniche si configuravano né più né meno come ai tempi del nonno Federico I Barbarossa, ovvero come un mosaico di signorie territoriali su cui spiccavano i grandi principi, titolari del diritto di eleggere l’imperatore. L’impero dunque risultava essere ancora una sorta di monarchia elettiva, nella quale una moltitudine di signori esercitava un potere sovrano nei propri domini, pur riconoscendo un’autorità superiore la cui capacità di intervento restava tuttavia, nei fatti, limitata.
Federico non tenterà mai di imporre alla Germania il suo modello di Stato, caratterizzato dall’assolutismo del sovrano e dal centralismo amministrativo, che invece sperimenterà con successo in Italia. La Confederatio cum principibus ecclesiasticis, un decreto del 1220 con il quale egli rinunciava a qualsiasi forma di intervento nelle terre amministrate dai vescovi in Germania, viene considerata l’espressione più compiuta della politica federiciana apparentemente disinteressata nei confronti dell’impero. E tuttavia, riconoscendo una sovranità incontestabile ai vescovi tedeschi, Federico intendeva confermare al papato le sue intenzioni di concordia e di pace, proponendosi come riconciliatore fra la Chiesa e il governo laico, nell’obiettivo primario di riacquistare, con la crociata, una vittoria a lungo sospirata da tutta la cristianità.
Un progetto, questo, che interessava molto al nuovo papa Onorio III, da subito incline alla cooperazione con l’imperatore.
Sistemate così le cose al nord delle Alpi, nel 1220 Federico lasciava la Germania dopo averne affidato il governo al figlio Enrico e a un consiglio di reggenza. Le mete erano Roma, per l’incoronazione papale, e poi Gerusalemme: un’impresa che, a giudicare dalla situazione profilatasi tra il 1219 e il 1220, non si presentava affatto facile.
Nel raggiungere l’Urbe, la maggiore preoccupazione del giovane imperatore fu quella di non irritare i comuni italiani, che tanti dispiaceri avevano procurato al nonno Barbnarossa, e questo non solo perché era impaziente di ricevere la corona dalle mani del papa, ma anche perché era ansioso di tornare in Sicilia, la terra nella quale era cresciuto. In questa fase, Federico dovette concentrare la sua attenzione nell'evitare le pressanti richieste papali di assicurazioni riguardo alla sua reale volontà di tenere disgiunto l’impero dal regno di Sicilia. Anche se, in merito alla questione, è probabile che la posizione adottata dallo Svevo nel 1220 fosse ancora vaga, era chiaro che mentre il papa accarezzava l’idea di un divorzio totale delle due corone, l’imperatore contemplava l’ipotesi di un’unione personale, derivante dalla sua autorità universale, e dunque estesa anche al Sud.
Comunque al momento, appena entrato a Roma Federico diede ampie assicurazioni a Onorio, ottenendo così il 22 novembre 1220 l’agognata incoronazione. La cerimonia fu anche occasione per rinnovare il suo giuramento di crociato, in un momento in cui l’esercito cristiano, partito orfano dell’apporto imperiale nel 1217, se la stava vedendo brutta dalle parti del Nilo, nonostante l’apporto volenteroso quanto ingenuo di Francesco d’Assisi, che era partito convinto di riuscire a convertire il sultano al-Kamil.
Le buone intenzioni di Federico, che avrebbe dovuto muoversi entro l’anno seguente, apparvero confermate dalla promulgazione della Constitutio in Basilica Beati Petri, un decreto con il quale, nel garantire le libertà della Chiesa, lanciava ufficialmente il messaggio della concordia fra papato e impero.
Giunto finalmente nel regno meridionale, Federico riunì la nobiltà locale in un’assemblea a Capua, nella quale furono emanate delle ordinanze intese a restaurare l’autorità regia con rapidità ed efficienza: le assise di Capua furono una mescolanza di legislazione normanna e conservatorismo pragmatico rivisti alla luce del diritto giustinianeo, già rispolverato dalla sagace mente di suo nonno Federico I; l’imperatore mirava a disciplinare il sistema feudale sottomettendolo a un’autorità regia, le cui prerogative si richiamavano all’assolutismo dell’altro nonno Ruggero II.
Questa svolta autoritaria non piacque troppo ai baroni meridionali che infatti, riuniti attorno al conte di Bojano, al secolo Tommaso da Celano, animarono una fronda che agiterà i successivi anni di governo federiciano. Altra questione calda riguardava i musulmani di Sicilia, le cui frequenti insurrezioni stavano producendo conseguenze drammatiche, non ultima la distruzione di molte chiese. Sin dal 1222, Federico si rese conto che contro costoro fosse necessario ricorrere alle armi. Ebbe tuttavia l’intelligenza di non indurre mai il papa a proclamare “crociata” quella guerra insidiosa che solo lui si incaricò di combattere su più fronti, e alla quale pose termine con un epilogo geniale: la deportazione di tutti i saraceni nella colonia pugliese di Lucera.
Sebbene il provvedimento garantisse la soluzione del problema attraverso il suo “isolamento”, non mancò di sollevare le recriminazioni del papato, che mal sopportava la presenza di un’enclave musulmana sul territorio italiano. Federico, dimostrando una volta di più la sua totale indipendenza dalle direttive pontificie anzi, prese molto a cuore la sua colonia saracena, al punto da eleggerla vivaio del corpo delle sue guardie scelte, nonché degli arcieri e della cavalleria leggera, che rappresentarono il fiore all’occhiello dell’esercito imperiale.
Queste vicende interne distolsero l’imperatore dalla situazione in Oriente, resa particolarmente grave dopo la caduta di Damietta avvenuta nel 1221. Nonostante Federico non potesse essere assolutamente considerato responsabile dei disastri della quinta crociata, su di lui ricadde il biasimo generale, che la Curia papale sfruttò ad arte con l’intento di costringere l’imperatore a prendere iniziative concrete in vista di una nuova spedizione in Terrasanta. L’Europa fu invasa da una nuova ondata di predicatori, mentre lo stesso re di Gerusalemme, Giovanni di Brienne, visitò le corti europee in cerca di aiuti. Nei suoi piani rientrava anche la necessità di maritare la figlia Iolanda, sua unica erede, per ristabilire una dinastia sul trono della città teatro del martirio di Cristo.
Il papa fu abile a sfruttare l’occasione, combinando a Ferentino il matrimonio tra Iolanda e Federico, rimasto due anni prima vedovo della prima moglie Costanza. Insediando l’imperatore sul trono della città santa, il papa si proponeva di offrire all’imperatore una ragione di più per affrettare i preparativi della crociata, cui in realtà Federico già stava ottemperando con la costruzione di una flotta: inoltre, Gerusalemme avrebbe finalmente avuto un protettore capace, in prospettiva, di assicurare alla cristianità il possesso di quei luoghi a lungo termine.
D’altra parte, il successo di Federico in Occidente era stato talmente fulmineo che i contemporanei erano indotti a ritenere che potesse applicare il suo tocco magico anche alla travagliata terra d’Outremer. Le nozze furono quindi celebrate in grande pompa il 9 novembre 1225 a Brindisi, mentre le galee costruite dall’imperatore già sostavano nel porto della città, pronte a proiettarsi nell’impresa.
Sebbene Federico apparisse fiero di essere l’artefice della rinascita di un impero esteso da una sponda all’altra del Mediterraneo, egli dovette constatare la veridicità dell’antico adagio secondo il quale tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Nell’occasione questo, oltre alla sua estensione fisica, si manifestò attraverso le difficoltà patite nell’organizzare la spedizione, moltiplicate dal vuoto in cui erano caduti gli accorati appelli di Giovanni di Brienne. Così, nel 1226 Federico si trovò costretto a convocare una dieta a Cremona, con la quale intendeva richiamare l’attenzione dei comuni italiani e dei feudatari tedeschi, principalmente sulla necessità di allestire al più presto il pellegrinaggio in Terrasanta, ma che si risolse con un’assise nella quale egli rinvigoriva l’intenzione di sopprimere l’eresia nei suoi domini e ribadiva i diritti imperiali nell’Italia settentrionale.
Nonostante la legittimità delle richieste imperiali, i comuni lombardi videro in Federico II pericolose assonanze riconducibili al nonno.
Se Onorio III aveva intuito che la pace in Europa dipendeva fondamentalmente dalla concordia fra papato e impero, con l’avvento del suo successore Gregorio IX le cose cambiarono radicalmente. Questi, salito al soglio il 18 marzo del 1227, si dimostrò subito un energico papa, assai renitente a rinunciare all’idea dell’assoluta superiorità del proprio ufficio su quello imperiale. Non erano passati che pochi giorni dalla sua elezione, che già si preoccupava di stilare una lettera a Federico II, ricordandogli in tono pacato, ma che non lasciava adito a interpretazioni, gli impegni assunti col papato in merito alla crociata.
A prima vista può sembrare un episodio di prammatica, ma era la miccia con la quale Gregorio IX si apprestava a dar fuoco alle polveri. All’antico monaco camaldolese probabilmente non importava molto del destino della Terrasanta se non in termini propagandistici e di facciata. Gli interessava molto più minare il potere di Federico che costituiva in quel momento più che mai una minaccia pressante all’auctoritas temporale dei papi, essendosi rivelato un personaggio di caratura eccezionale, uno dei massimi interpreti della carica imperiale, il cui prestigio godeva di un seguito vastissimo. Dal momento della sua elezione Gregorio IX mostrerà sempre di anteporre le sue brame di potere ai dettami della cristianità.
D'altra parte, l’imperatore, già nell’agosto del 1227 si era attestato al comando di un nutrito contingente di forze tedesche, francesi, inglesi e spagnole dalle parti di Brindisi, con la ferma intenzione di muovere per la Terrasanta. Inoltre, senza lasciare nulla al caso, aveva già iniziato da un paio d’anni a tessere una fitta trattativa col sultano del Cairo al-Kamil, cui una soluzione diplomatica di una possibile crociata non sarebbe affatto risultata sgradita, soprattutto se gli consentiva di dedicarsi senza distrazioni al debellamento dei nemici che covava nella sua stessa famiglia, in special modo suo fratello al-Mu'azzam governatore di Damasco, che all’epoca dimostrava preoccupanti mire espansionistiche.
Insomma, tutto era pronto per la partenza, quando il destino giocò la sua parte: una calura che sembrava sciogliere la terra, unita a cattive condizioni sanitarie e nutrizionali furono alla base di una violenta epidemia che si abbatté sui crociati, falcidiandoli come mosche. Non era certo il caso di imbarcarsi per una spedizione in quelle condizioni, tanto più che lo stesso Federico fu costretto a ripiegare verso i bagni di Pozzuoli, per debellare l’acuirsi del morbo che aveva colpito anche lui. Naturalmente si affrettò a mandare ambasciatori a Gregorio per informarlo dell’increscioso accaduto ma questi non era disposto a tollerare scuse: appena due settimane dopo, il 20 settembre, sul capo dell’imperatore si abbatté implacabile la mannaia della scomunica.
Si è molto discusso a proposito della reazione spropositata di Gregorio in merito a una rinuncia che, viste le premesse, apparve sacrosanta. In realtà essa celava motivazioni di ordine politico. Il pontefice, al momento della sua elezione, dovette scegliere che percorso intraprendere: la politica accondiscendente del suo predecessore Onorio III, oppure individuare nella crociata il pretesto per inchiodare l’imperatore. Fedele alla sua natura impetuosa, Gregorio propese per quest’ultima soluzione, rivelando il fine occulto della sua presa di posizione. Invocare il mancato adempimento della promessa di intraprendere la crociata poteva ben rappresentare un diversivo di rivalsa di fronte al sostanziale successo della politica imperiale, che privilegiava il mantenimento del collegamento territoriale tra l’Italia settentrionale e il regno di Sicilia: quella Unio Regni ad Imperium che, insieme alla minaccia gravante sui comuni centrosettentrionali, costituiva il nocciolo della disputa tra papato e impero.
Su questo impianto, il pontefice rivelò l’essenza del proprio temperamento, in cui l’ispirazione divina cedeva il passo a un’acrimonia alimentata da una grande bramosia. Da questo veleno egli trasse l’inchiostro con cui vergò le missive che comunicarono al mondo la ferale decisione, riuscendo addirittura a mistificare la realtà. Il papa attribuiva a Federico l’insorgere della pestilenza, causata dalla sua improvvida decisione di riunire l’esercito al culmine della stagione estiva; inoltre, visto che c’era, gli addossava, in un crescendo teatrale di sospetti, rimproveri e calunnie, la colpa della tragedia di Damietta, adducendo l’esito infausto della Quinta crociata alla mancata partecipazione dell’imperatore.
Contrariamente a quanto immaginato dal “lungimirante” pontefice, l’effetto della scomunica fu solo quello di privare Federico dell’apporto degli Ordini guerrieri, una mancanza della quale l’imperatore non si dovette dolere molto, conscio della rapacità con cui Ospitalieri e Templari erano soliti accompagnare le proprie gesta. Federico infatti, nonostante l’interdizione, aveva deciso di perseverare nel suo progetto di crociata, non fosse altro che per mettere Gregorio IX in una condizione di grave imbarazzo. Qualora avesse avuto successo, infatti, il prestigio del pontefice, come promotore di guerre sante e come mediatore fra Dio e l’uomo per la remissione totale dei peccati, ne sarebbe riuscito fortemente indebolito. Naturalmente, poi, le motivazioni travalicarono un orizzonte così ristretto e abbracciarono una serie di implicazioni tra cui la ricerca di un prestigio considerevole non deve essere scartata: Federico era pur sempre il nipote del Barbarossa, del quale seppe cogliere le suggestioni più profonde fino a renderlo, come e più dell’avo, sublime interprete dell’imperialismo medievale. Partito dunque da Brindisi il 28 giugno del 1228, con un contingente risibile di quaranta navi e mille cavalieri, l’imperatore sfiorò Cipro e a settembre si attestò ad Acri. Tutto nella più totale indifferenza, per non dire glaciale accoglienza, che gli riservarono i cristiani d’Oriente, che Gregorio, schiumante di rabbia, aveva debitamente catechizzato con l’invio di due mastini francescani, con il compito di ricordare a tutti quanto fosse inammissibile agevolare le manovre di un imperatore colpito da anatema.
Di ben altro tenore furono gli abboccamenti con gli infedeli, che seppur non ammaliati dall’aspetto esteriore dell’imperatore, di certo furono incuriositi da un sovrano che parlava correntemente l’arabo e che disquisiva con disinvoltura di medicina, dialettica e geometria, tutte discipline in cui, guarda caso, essi erano campioni. E poi si era giunti nel cuore dell’inverno, faceva freddo e nessuno dei due contendenti sembrava disposto a gelarsi le membra in uno scontro.
Di qui il capolavoro. Con un semplice colpo di penna, Federico ottenne ciò era stato precluso a qualsiasi armata latina sin dai tempi della prima crociata. Il 18 marzo del 1229, egli poté varcare la chiesa del Santo Sepolcro: Gerusalemme era ai suoi piedi, senza versare una stilla di sangue.
Certo al-Kamil, per salvare la faccia, gli aveva imposto l’interdizione della Piazza del Tempio, dove si affacciavano la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa, riservandone l’appannaggio ai musulmani: ma Gerusalemme valeva bene una messa, soprattutto se nel corso di questa Federico, in spregio a tutte le velleità teocratiche di generazioni di pontefici, si era potuto incoronare imperatore ponendosi da solo la corona sul capo, ribadendo il concetto che l’autorità imperiale emanava soltanto da Dio.
Fu l’apoteosi, il papa dovette vacillare nella sua fede nell’Onnipotente, soprattutto quando la reiterazione della scomunica, avvenuta il 23 marzo del 1228, ebbe l’effetto di compattare le frange filoimperiali fomentate dai Frangipane. Di qui la deflagrazione di una bella sommossa, che aveva costretto la sua santa persona ad abbandonare l’aria insalubre di Roma e trovare ristoro presso Viterbo e Perugia, dove finalmente, tanto per cambiare, poté sfogare la sua frustrazione comminando una scomunica ai sudditi ribelli.
Ma certo non bastava; bisognava colmare la distanza che Federico aveva saputo infliggere al prestigio papale: ci voleva una santa e onesta guerra.
Non che Gregorio non ci avesse già pensato, addirittura quando le vele del sovrano con la prua rivolta a oriente erano ancora visibili all’orizzonte. Sin da allora Gregorio aveva sobillato cruente sommosse locali nei territori imperiali al confine dello Stato della Chiesa, approfittando della scomunica che scioglieva i sudditi di Federico dal loro obbligo di obbedienza.
Ma ora era il momento di fare le cose sul serio, e Gregorio apparecchiò l’offensiva in grande stile.
Per prima cosa Gregorio si alleò con i comuni della Lega lombarda; seminò zizzania in Germania sponsorizzando l’elezione del guelfo Ottone di Lüneburg; infine egli stesso si pose a capo della Militia Sancti Petri, una vera e propria forza papale.
Quest’atto, oltre che odioso, fu particolarmente grave. Tralasciando gli impedimenti morali che dovrebbero costituire un insormontabile baluardo ai pruriti belligeranti di chiunque si professi come capo della cristianità, Gregorio compì un gesto che non aveva precedenti: attaccare le terre di un sovrano cattolico impegnato in una crociata, terre che in quella particolare condizione erano considerate sacre e inviolabili secondo il diritto canonico e le leggi dei popoli. Sarà che il papa conosceva la giurisprudenza meglio di chiunque altro, forte dei suoi studi bolognesi, sarà che diventando pontefice si ascende a un livello di conoscenza imperscrutabile a chi non può e non sa discernere gli sfavillanti disegni divini, egli poté scrivere una nuova e gloriosa pagina nella storia della redenzione umana.
Per questi stessi motivi, dunque, Gregorio non trovò il minimo imbarazzo nell’utilizzare i fondi raccolti per la crociata né arrossì nel vessare l’intera Europa con una vergognosa tassazione che lambì persino l’Inghilterra e la Scandinavia, pur di armare una banda di mercenari cui le pietose insegne della chiave di san Pietro a stento celavano la loro natura sanguinaria. I clavisignati, posti sotto il comando di Giovanni di Brienne, che aveva mal digerito la sottrazione del regno di Gerusalemme da parte dell’intraprendente genero, si avventarono contro il Meridione «appiccando il fuoco a villaggi e città, rubando il bestiame, saccheggiando fortezze, prendendo prigionieri e condannandoli alle torture più atroci senza rispetto né per l’età né per il sesso», secondo il macabro resoconto che il conte Tommaso di Acerra inviò a Federico nella primavera del 1229, impetrandone il ritorno.
E Federico venne. Il 10 giugno dello stesso anno il suo esercito sbarcò a Brindisi e nel giro di un paio di mesi ebbe ragione della soldataglia papale, data in pasto con somma soddisfazione al suo corpo di élite costituito dai saraceni di Lucera: il loro impiego sotto la bandiera di un re cristiano aggiungeva un sapore particolare alla sconfitta subita da chi aveva osato fregiarsi dell’insegna dell’apostolo per eccellenza.
A Gregorio non rimaneva che ricorrere a più miti consigli, soprattutto perché i fondi raccolti con le precedenti “rapine” iniziavano a scarseggiare, e difficilmente avrebbe saldato le diarie di quella marmaglia con le preghiere. Quanto a Federico, era necessario liberarsi dalla scomunica, fardello ingombrante per un imperatore che si definiva cristiano e ombra gravissima al suo prestigio, tanto più quanto invogliava i propri sudditi a farsi beffe del sacro vincolo di obbedienza.
Bisognava dunque giungere a una soluzione che, senza gettar discredito sul papato, salvaguardasse i diritti imperiali; in altre parole, Federico auspicava un recupero del modus vivendi che aveva caratterizzato i rapporti fra papato e impero al tempo di Onorio III.
Il 23 luglio del 1230 i due nemici firmavano a Ceprano quella che passerà alla storia come pace di San Germano, che in verità assunse più che altro i caratteri di un armistizio. Con essa Federico si impegnava a restituire tutti i beni sottratti a coloro che avevano preso le parti del pontefice e in particolare a reintegrare i Templari e gli Ospitalieri nel possesso dei beni confiscati loro dopo la crociata; a garantire l’impunità ai partigiani del papa nel regno di Sicilia, in Germania, in Lombardia e in Toscana; a rinunciare infine esplicitamente a tutti i suoi diritti sul ducato e sulla marca e a non invadere le altre terre della Chiesa. In cambio, ottenne il perdono del papa e la revoca della scomunica.
Chi crede che le condizioni fossero sfavorevoli a Federico si sbaglia di grosso: oltre ad aver ottenuto l’annullamento della scomunica, era riuscito di fatto a conseguire anche il riconoscimento pontificio del suo dominio sulla Germania e sul regno meridionale. Egli inoltre aveva guadagnato il tempo e la tranquillità necessari per rivolgersi di nuovo al suo regno, per rimettervi ordine e riunire quindi tutte le sue forze contro i comuni lombardi, potendo contare, se non sull’appoggio, quantomeno sulla neutralità del papato. Non un infortunio, dunque, ma il frutto della sagacia politica di Federico, il quale in questa circostanza seppe dare prova di una non comune abilità diplomatica, come rilevato dallo storico Abulafia nella sua famosa monografia sull’imperatore.
Risolta, almeno temporaneamente, la questione dei rapporti col papato, Federico tornò in Sicilia, dove poté finalmente dedicarsi alla sua impresa più grande, ovvero la riorganizzazione del regno. Federico aveva compreso che una restaurazione dell’ordine affidata alla voce delle armi avrebbe comportato una soluzione di breve respiro e quanto mai scivolosa. Meglio affidarsi alle granitiche certezze del diritto realizzate attraverso la stesura di ciò che risulterà essere il capolavoro federiciano, ovvero il nuovo codice legislativo che l’imperatore presentò orgogliosamente nell’estate del 1231 ai suoi vassalli riuniti in assise a Melfi.
Per redigere quelle Costituzioni che passeranno alla storia come Liber Augustalis, Federico aveva messo al lavoro i migliori giuristi dell’epoca, formatisi alla scuola di Bologna. Ne risultò un’opera che rivelava l’intenzione di rendere il Meridione italico uno stato modello, ove le esigenze pratiche della ricostruzione si saldassero a un concetto altamente sviluppato di monarchia assolutistica. In realtà, quel modello non fu interamente creazione e invenzione di Federico: già suo nonno Ruggero II era riuscito a edificare uno Stato moderno, di gran lunga il più avanzato di tutti gli altri Stati medievali europei, in cui un’efficiente amministrazione, agile se pur centralizzata, riusciva a garantire la pace interna ed esterna al suo popolo attraverso l’esercizio di una giustizia equa, attenta alle persone e ai loro beni. Per la prima volta nel Medioevo, gli attributi del buon sovrano non erano più quelli dell’eroismo e della forza, ma l’intelligenza, la ricchezza e la potenza che, scaturiti da Dio, dovevano servire a sottomettere tutti i nemici, per offrire così pace e giustizia al popolo.
Pienamente consapevole della bontà delle istituzioni create dai normanni, l’imperatore non perse occasione di riallacciarsi all’opera e alle concezioni dell’avo, integrandole con le ideazioni personali che aveva sedimentato rielaborando elementi del diritto romano, canonico e feudale.
Così, sebbene in molti punti le riforme federiciane integrassero o perfezionassero istituzioni o strutture già esistenti, fu opera del sovrano e dei suoi stretti collaboratori riuscire a sintetizzare le formule appartenenti al passato elaborando una nuova filosofia del potere, rivoluzionaria per l’epoca, che giustificasse dal punto di vista teorico il modello di Stato a cui l’imperatore tendeva.
Richiamandosi al passato imperiale di Roma, infatti, le Costituzioni enunciarono la concezione del monarca come legislatore: non a caso Federico si presentava come “Augusto” (da cui il nome della raccolta), “Signore dei Regni d’Italia, Sicilia e Gerusalemme”, pur legiferando per un regno soltanto apparentato all’impero, per giunta vassallo del papato. Alla stessa stregua dei cesari, Federico rivendicava la facoltà di creare le leggi e, ricalcando una formula codificata nel diritto romano, diveniva lex animata in terris ovvero l’unico garante del mantenimento dell’ordine sociale creato da Dio.
Così, recuperando nozioni giustinianee, l’imperatore, da custode e tutore della legge ne diveniva la fonte e quindi l’unico che, all’interno del regno, era in grado di creare il diritto. Va sottolineato come questa funzione non derivasse da un volere individuale ma veniva conferita per volontà divina e, di conseguenza, tutta l’attività di legislatore risultava divinamente ispirata.
Si comprende bene come a quel punto Federico apparisse il mediatore fra il diritto divino e quello umano e di conseguenza assumeva, ex officio, un ruolo di intermediario tra Dio e gli uomini.
Tale mutamento ideologico fu ben presente nell’iconografia imperiale, dimostrando quanto Federico valorizzasse uno strumento di propaganda così straordinario, al quale affidare i nuovi princìpi legittimanti che non mancò di sottolineare in più occasioni. A tal proposito possiamo ricordare come sui braccioli di un suo trono, andato perduto ma ricostruibile attraverso alcune testimonianze scritte, comparissero le immagini dei suoi predecessori, non sappiamo se normanni o svevi, ma questo appare irrilevante. In tal modo egli realizzava una sorta di vero e proprio albero genealogico visivo, atto a manifestare la trasmissione dinastica del potere e a rendere quest’ultimo completamente avulso da qualsiasi tutela e ingerenza papale.
Vale la pena a questo punto dedicare del tempo in merito alla “vera immagine” di Federico, un elemento che, a distanza di ottocento anni, contribuisce a rendere più enigmatica la già complessa figura di questo straordinario personaggio. Quella statua scolpita sulla Porta di Capua rappresenta il punto di partenza dell’analisi di un elemento che sappiamo essere fondamentale nella concezione del potere federiciano. Riferendosi a quella, Ernst Kantorowicz scriveva, nella celeberrima biografia Kaiser Friedrich redatta nel 1926 quanto segue: «[...] che Federico Secondo volesse istillare nel popolo con la sua immagine, come già con la parola delle leggi, l’orrore sacro dinanzi alla divina presenza dell’imperatore grazie all’opera degli occhi – il cui vedere produce nell’uomo maggiore impressione di quel che entra attraverso l’orecchio – viene confermato dal cronista, il quale mostra di cogliere esattamente l’effetto che Federico si proponeva: i versi minacciosi scolpiti sopra la porta devono servire a timore del viandante e a timore di quelli cui già le immagini lo predicarono».
L’imperatore dedicava all’immagine un culto assimilabile alla concezione che ne hanno gli uomini politici contemporanei.
Voleva abbagliare perché sapeva che in un’epoca grigia e rude come la sua, un atteggiamento siffatto lo ammantava di sacralità davanti agli uomini dei borghi meridionali, ai contadini, agli abitanti delle piccole città peninsulari. Come e più dei papi. Anzi, in concorrenza con essi. Ecco dunque che nelle monete, come anche nei sigilli, Federico si palesava al dritto, di profilo, vestito di tunica e paludamentum, il capo cinto da un serto d’alloro che qualificava il sovrano come erede degli imperatori romani, lasciando al rovescio l’emblema dell’aquila con l’iscrizione Fridericus, in una sorta di definitiva consacrazione del suo potere per l’autorità dell’exemplum classico.
Sempre seguendo Kantorowicz «il ritratto imperiale doveva irradiare forze come un’immagine di grazia divina […] così che, nel guardarla ripetutamente, i sudditi fossero rafforzati nella fedeltà e nella devozione». E soprattutto, i sudditi che lo ammiravano, stupefatti da tanto splendore, potevano essere gravati proprio attraverso tali mirabilia di nuove tasse, nuovi balzelli, che servivano a ridurre in qualche modo il deficit dello Stato ma che strangolavano inesorabilmente l’economia del suo prediletto regno meridionale.
Difficile assecondare a questo punto gli studiosi che asseriscono come tali immagini palesino un’attenzione per il realismo fisionomico, che rivelava la volontà dell’imperatore di essere riconosciuto tramite la sua persona. Le monete federiciane, nate per esaltare la massima visibilità del sovrano nel regno e al di fuori di esso, risposero piuttosto a logiche di idealizzazione che trasfigurassero la reale conformazione dei tratti di Federico. Per ricalcare i quali non resta dunque che affidarsi alla precoce descrizione che di lui ci forni già Innocenzo III nel lontano 1208, quando in una lettera così descriveva il rampollo di Enrico VI di Svevia e Costanza d’Altavilla: «La statura del re non è piccola, ma neppure superiore a quella che la sua età richiede. L’Autore universale della natura gli ha dato membra robuste in corpo solido. A ciò aggiungi una maestà regale, un volto e un tratto maestoso, uniti a un aspetto gentile e bello: fronte serena, occhi brillanti, viso espressivo, animo ardente e ingegno pronto».
Tutto ciò, oltre a lasciare attonito chiunque ebbe la ventura di imbattersi nella sua corte fantasmagorica, contribuì a tributare a Federico II la fama di mecenate, come pochi imperatori medievali si sono meritati. Lo stesso Dante lo definì «uomo grande e illuminato», e lo ammirava come protettore di poeti e cantori, tanto che «tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italici più nobili d’animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quel sovrano così insigne». E prima ancora, Brunetto Latini aveva scritto nel Tesoro: «E sovra gli altri uomini fue di grande onore, maravigliosamente savio e bene articuloso, pieno di scienza e di grande filosofia. Parlò nove linguaggi e di sette seppe la scrittura, e di filosofia sovra gli altri uomini. Seppe di guerra e fue cavalcadore e mascalcieri ed ebbe in sé tutte bontadi di mestieri di mano a fare».
In realtà, tale fama andrebbe un poco ridimensionata: l’amalgama culturale attribuito alla corte normanna non era certo visibile in quella sveva, anche a causa del carattere itinerante della corte federiciana. I possedimenti della Germania o dell’alta Italia impedivano infatti all’imperatore di domiciliarsi in un’unica capitale, mentre le campagne belliche lo tennero in movimento per tutti gli anni Quaranta; di conseguenza, nessuna residenza federiciana poteva sostenere il paragone con la sontuosa reggia palermitana di Ruggero II.
Di certo, Federico ambiva a presentarsi come uomo di cultura, del quale si potesse dire che poteva competere con qualunque principe maomettano. In parte si trattò di un gioco diplomatico, come nel caso della corrispondenza matematico-astronomica che intrattenne a lungo, anche dopo la crociata, con al-Kamil. Tuttavia, i suoi interessi culturali non erano simulati, e le sue prospettive intellettuali erano decisamente più vaste di quelle di molti altri uomini di governo suoi contemporanei. Tra gli interessi scientifici di Federico, un posto importante ebbe la vita degli uccelli, e in particolare dei falchi: il suo amore per la caccia, il passatempo imperiale per eccellenza, associato a un acuto spirito di osservazione, sfociò in uno dei massimi trattati ornitologici di ogni epoca, il De arte venandi cum avibus. Opera scientifica a tutti gli effetti, esatta e disadorna nella prosa concisa, questo trattato – le cui miniature traducono il pensiero federiciano del «mostrare le cose che sono come sono» perdendo la loro funzione decorativa per assumerne una descrittiva – apparve maturare nell’ambito di un più vasto interesse per le scienze, quello stesso che portò Federico a fondare a Napoli un’università, quasi in contrapposizione con quella di Bologna, nella quale attraverso cattedre di filosofia, di ars dictamini, teologia e diritto si formarono i funzionari del regno.
Federico fu particolarmente attento all’insegnamento del diritto e dell’oratoria, che riprendeva i canoni della retorica antica. A quelle regole doveva obbedire la scrittura di lettere e documenti ufficiali, cui, in definitiva, era affidata la stessa immagine del sovrano: lo stilus supremus (lo stile alto della cancelleria imperiale) doveva rispecchiare la perfezione del suo governo e l’altezza della sua autorità, tanto che i documenti elaborati alla corte federiciana fornirono, anche dopo la sua morte, modelli imitati in diverse cancellerie occidentali.
Sensibile alle questioni stilistiche, Federico fu anche salutato come fondatore della scuola siciliana, animata da poeti come Giacomo da Lentini, Stefano Protonotaro, Guido delle Colonne, Iacopo Mostacci. La scuola siciliana riprese temi della lirica provenzale e trobadorica, adattandoli all’idioma siciliano alto, ricco di figure retoriche di derivazione latina. Lo stesso Pier delle Vigne, sottile giurista e brillante funzionario, fece parte del cenacolo poetico come autore di versi tormentosi; come lui, molti altri poeti erano impegnati in altre attività che nulla avevano a che fare con la lirica. I più recenti studi musicologici hanno dimostrato come tale produzione poetica fosse in realtà destinata a un’esecuzione musicale e probabilmente anche finalizzata alla danza: non a caso, quella interscambiabilità di musica e poesia si inverava in un ambiente cortese raffinato ed esclusivo, cui partecipavano lo stesso imperatore e i suoi figli, in particolare Enzo, autore di versi delicatissimi e malinconici.
I castelli di Bari e Trani, fra gli esempi più precoci di edilizia federiciana, raggiunsero il duplice scopo di assolvere tanto a esigenze difensive quanto a quelle residenziali. Al periodo posteriore al 1230 si deve invece assegnare la costruzione di un secondo gruppo di manieri, caratterizzati dalla regolarità della pianta e della disposizione degli spazi: è il caso di Castel Maniace, la cui struttura fu ispirata da una limpida geometria, o Castel del Monte, disposto su un tracciato ottagonale con poderose torri angolari, anch’esse ottagonali. In tali opere si ravvisa una particolare attenzione riservata ai servizi igienici, provvisti di impianti idrici a caduta riforniti da serbatoi d’acqua collocati sulle terrazze di copertura. Una cura per il corpo che si riscontra, per esempio, nel De Balneis Puteolanis, il trattato sulle virtù terapeutiche delle acque termali, tradotto per ordine dell’imperatore da Pietro da Eboli.
Tale molteplicità di interessi aveva in parte distolto l’attenzione di Federico dalla situazione dei territori dell’impero, finché la situazione profilatasi sia in Germania che in Lombardia nel 1231 non lo costrinse a rivolgere a queste occhi più che interessati. Se nel Nord Italia permaneva una sorta di stasi, irrisolta dal 1226, quando la dieta di Cremona si era conclusa con l’inopinata ribellione di Milano, temporaneamente sedata dall’energico intervento del papa, in terra teutonica le condizioni erano ancora più confuse. Federico mancava da più di dieci anni, nel corso dei quali avevano ripreso vigore le spinte autonomistiche. Se pure i principi tedeschi erano rimasti sostanzialmente fedeli all’imperatore nonostante la mancanza di un organo centrale di governo, si registrava l’ingrossarsi di correnti centrifughe, raccoltesi intorno al figlio primogenito Enrico, insediato come reggente negli anni della restaurazione siciliana. Raggiunta la maggiore età, infatti, Enrico inaugurò una politica spregiudicata nei confronti del padre, culminata, nel 1235, nella decisione di stringere un patto con i comuni della Lega lombarda, nemici tanto del papa quanto dell’imperatore. Non è da escludere che Enrico vagheggiasse una rivendicazione di sovranità sull’Italia settentrionale, tradizionalmente governata dal re dei romani: così, il moltiplicarsi delle provocazioni fece intendere a Federico di doversi precipitare in Germania prima che la situazione gli sfuggisse di mano.
Le mosse dell’imperatore furono fulminee, e dimostrarono quanto inconsistente fosse in realtà il potere di Enrico, al quale non restò altro che gettarsi ai piedi del padre invocandone il perdono. Federico, tuttavia, volle che la sua punizione fosse esemplare, come monito ai sovversivi, affinché non credessero di poter implorare l’imperatore a loro piacimento. A Worms, nel luglio 1235, fu pronunciato un verdetto durissimo: non solo Enrico veniva deposto dal trono, ma doveva anche rinunciare alle insegne reali, all’onore e soprattutto alla libertà. Per sette lunghi anni avrebbe vissuto in varie segrete dell’Italia meridionale, finché nel 1242 non si diede la morte gettandosi da un dirupo
Forte di quel successo, Federico poteva convocare i principi teutonici in una dieta a Magonza, con lo specifico intento di preparare una campagna militare contro la Lega lombarda, ancora attiva nonostante l’umiliazione di Enrico. Anche in questa situazione, l’imperatore prevedeva di ricorrere alle armi come rimedio estremo, confidando piuttosto in una composizione pacifica degli attriti con i Comuni. Sperando che ciò valesse come deterrente, Federico lasciò filtrare voci di guerra, auspicando inoltre che il papa, fautore di una soluzione diplomatica, imprimesse un’accelerata alle trattative. Ancora una volta, però, nulla valse contro l’orgoglio dei lombardi che, dopo aver rinnovato il patto di mutua assistenza, dichiararono la loro intenzione di resistere.
I ritardi che si verificarono nell’allestimento di un esercito imperiale, se da un lato lasciarono presumere quanto Federico confidasse in una soluzione pacifica della questione, dall’altro nascondevano in realtà il proposito, ormai radicato nell’imperatore, di trattare con la massima severità i ribelli lombardi, riducendoli all’ordine una volta per tutte. Le ostilità iniziarono nel 1236, inaugurate dall’alleanza tra Federico ed Ezzelino da Romano, il valente condottiero che si era già messo in mostra operando a Vicenza, Padova, Verona e nella marca trevigiana; costui ottenne subito dei risultati favorevoli, compiendo un raid che gli consentì di assoggettare la città nemica Vicenza e di mortificare così il tentativo compiuto dall’esercito della Lega lombarda di occupare le Chiuse di Verona e, con esse, l’accesso al nord.
A quel punto Federico giudicò opportuno lasciare la Germania, non prima, però, di riuscire a far elevare al trono il secondogenito Corrado, facendo così riconoscere l’ereditarietà della corona imperiale alla casa di Hohenstaufen, a prescindere dal diritto di primogenitura.
Nell’autunno 1237, il potere imperiale sembrava non dover conoscere limiti. Gli stessi lombardi, seppur disperando nella vittoria, si ostinavano a non deporre le armi, nella certezza che un qualsiasi accordo negoziale avrebbe definitivamente segnato il tramonto della lega, peggio che una sconfitta.
La resa dei conti avvenne a Cortenuova, tra il 27 e il 28 novembre dello stesso anno: l’autunno ormai avanzato rendeva imminente la sospensione delle ostilità, quando Federico ordì un inganno contro i ribelli, facendo loro credere di voler trascorrere l’inverno nell’amica Cremona. I lombardi, allora, decisero di fare altrettanto, iniziando a risalire il corso dell’Oglio per raggiungere Milano; non sapevano però di essere spiati dall’esercito imperiale, che risalendo il fiume dal lato opposto si era spinto fin oltre Soncino.
Non appena iniziata la traversata del fiume, un’avanguardia tedesca piombò sui lombardi, decimando uno squadrone; quindi, senza dar loro il tempo di riorganizzarsi, il grosso della milizia imperiale li raggiunse, accerchiandoli con la cavalleria. Le due parti si affrontarono all’ultimo sangue fino alla notte e poi, sopraggiunto il buio, i milanesi decisero di abbandonare il campo di battaglia.
Cortenuova ebbe per Milano un effetto devastante: il Carroccio perduto, il podestà fatto prigioniero, e il fiore della sua nobiltà e quella degli alleati, ucciso o in catene. Dal canto suo, Federico si dimostrò assai abile a sfruttare i vantaggi della vittoria: a Cremona ebbe luogo una grandiosa cerimonia, con il Carroccio trainato nientemeno che da un elefante del serraglio imperiale. Altrettanto sottile fu, in seguito, la decisione di offrire il Carroccio catturato ai cittadini di Roma; un gesto che, nel rinnovare i fasti trionfali degli antichi imperatori romani, serviva a ricordare a Gregorio IX e alla sua Curia come la restaurazione dell’autorità imperiale fosse ormai un fatto compiuto.
Imbaldanzito dalla richiesta di patteggiamento avanzata dai milanesi, Federico sopravvalutò però la portata del successo di Cortenuova, umiliando gli ambrosiani con l’intimazione di una resa incondizionata: questi infatti, memori della loro capacità di reazione già ampiamente dimostrata ai tempi del Barbarossa, giudicarono spropositato l’ordine imperiale, rinnovando al contrario la loro resistenza. Pur infastidito, l’imperatore ritenne di non dover assediare Milano, preferendo invece, con lenta determinazione, continuare a raccogliere truppe in Lombardia, nella certezza di fiaccare ulteriormente il nemico.
Così, nella primavera del 1238, Federico si risolse a cingere d’assedio Brescia: una mossa che, se riuscita, avrebbe guadagnato all’impero un importante nodo strategico da sfruttare come ponte verso le basi della Lombardia orientale, ottenute le quali per Milano non ci sarebbe stata via di scampo. Ma nonostante l’eccezionale spiegamento di forze, l’impresa non riuscì: difesa da tutte le forze della lega, la città resistette, costringendo infine Federico a una ritirata che suonò peggio di una sconfitta.
La sconfitta bresciana non fece che risvegliare gli appetiti del papa, che intendeva sfruttare il momentaneo stato di debolezza imperiale per riaffermare la propria sovranità sulla Lombardia, contenendo le iniziative di Federico tramite nuove alleanze strategiche.
A rendere ulteriormente tesi i rapporti, si aggiunse la questione della sovranità sulla Sardegna, che tanto il papa quanto l’imperatore consideravano tacitamente parte dei propri possedimenti. Il matrimonio di Enzo, figlio illegittimo di Federico, con la principessa Adalasia, erede dell’isola, presupponeva la creazione di un nuovo regno all’interno dell’impero, alimentando una discordia che culminò in una nuova scomunica, con la quale il papa fulminava Federico la domenica delle Palme del 1239.
Al cospetto di ciò che si scatenò dopo l’anatema del 20 marzo, la contese tra Enrico IV e Gregorio VII, Federico I e Alessandro III, apparvero scaramucce tra educande. Il pontefice produsse pagine e pagine di insulti in cui Federico era dipinto come la bestia dell’apocalisse uscito dal mare, drago e martello del mondo, un ignobile bugiardo nel cui regno fioriva l’eresia e in cui egli stesso, eretico e precursore del diavolo, spergiurava su Mosè, Cristo e addirittura Maometto, ridotti al rango di ingannatori dell’umanità. Un crescendo di contumelie figlio di un’ira così spropositata da lasciare interdetto anche uno storico cattolico come Seppelt, che commentò l’intera produzione come dettata da un astio imparziale e deformante dei fatti. Quella di Gregorio era una rabbia demoniaca che anteponeva la propria cupidigia di potere alla sacralità della sua missione. Né sfuggì ai contemporanei, pur accesi di un ardore e di uno spirito partigiano tipici della società dell’epoca, lo spettacolo inaudito di un pontefice, il rappresentante di Dio in Terra, che scagliava audaci minacce e feroci invettive contro colui che sino a prova contraria era universalmente riconosciuto come il protettore della Chiesa.
La scomunica colpì Federico di sorpresa, soprattutto perché comminata per colpe che non aveva commesso. Con tempestività, la cancelleria imperiale escogitò una linea di difesa, perorata brillantemente da Pier delle Vigne, tesa a dimostrare come l’ingerenza papale negli affari del regno di Sicilia costituisse, di fatto, una minaccia alla sovranità di tutte le teste coronate d’Europa. Lo stesso giorno della scomunica, Pier delle Vigne tenne nel duomo di Padova un’accorata arringa in difesa del potere imperiale, indicando nel pontefice il vero fomentatore della discordia.
La posizione assunta da Federico suscitò reazioni diverse nel continente: se il re di Inghilterra, in quanto vassallo del pontefice, tentò di mantenere una posizione neutrale nei confronti del cognato, ben altra fu la risposta di Luigi IX, re di Francia e personaggio di prestigio crescente in Occidente. In sostanza, Luigi non esitò a criticare aspramente la politica papale, cui rimproverava l’eccessivo risentimento personale verso Federico.
In ogni caso, l’impeto manifestato da Pier delle Vigne scatenò una vera guerra di libelli fra cancellerie. La Curia pontificia, usando la stessa arma della propaganda inaugurata da Federico, lo gratificò degli appellativi più infamanti: si trattava di incitare le masse cristiane contro «il mostro apocalittico posseduto da Satana», colpevole di tutti i peggiori crimini nei confronti della cristianità, ivi compreso quello di aver deliberatamente fatto morire i crociati nell’accampamento di Brindisi dodici anni addietro. L’apertura e la tolleranza che Federico aveva dimostrato nei confronti delle altre confessioni religiose all’interno del regno gli si ritorcevano ora contro, come esempio del suo ateismo, inconcepibile in un imperatore che si definiva cristiano: i suoi rapporti con il mondo islamico, i suoi lunghi soggiorni a Lucera, valevano ora a condannarlo per gli scandalosi costumi sessuali con le concubine dell’harem di palazzo.
Laddove il papa tentava di ritagliare all’avversario il ruolo di traditore del cristianesimo, Federico rispondeva additando al mondo la bassa statura morale di Gregorio IX, pontefice mediocre che, in nome del potere temporale, aveva rinnegato il messaggio cristiano di povertà e umiltà che gli Ordini mendicanti, primo fra tutti quello francescano, indicavano come la retta via per servire Dio: un messaggio chiaro e semplice che peraltro il papa aveva, in altre occasioni, mostrato di apprezzare.
Uno scontro così violento non poteva e non voleva limitarsi alla polemica scritta: presto risuonò il clamore delle armi e a farne le spese fu la sempre più sbigottita terra d’Italia. Il papa aveva già preso accordi segreti nei quali gli era riuscito di forgiare in chiave antifedericiana l’incredibile sodalizio tra le due acerrime nemiche Genova e Venezia, oltre alla lega e alle città umbro-toscane. Federico contava sugli alleati ghibellini, su tutti il fedelissimo Ezzelino da Romano, che mai avevano ceduto alle lusinghe della volpe guelfa. Memore del successo che aveva conseguito dieci anni prima in Italia meridionale, l’imperatore auspicava che un trionfo in Lombardia avrebbe ancora una volta costretto l’anziano pontefice a rivedere le sue posizioni.
Dopo una serie di scontri interlocutori nell’Italia del Nord, però, la situazione lombarda non sembrava promettere sviluppi interessanti. Federico allora, stanziato a Foligno, pensò di elaborare una strategia nuova e, dopo aver guadagnato alla causa imperiale un gran numero di città laziali, fra cui Viterbo, nell’inverno del 1240 tentò il colpaccio, invadendo direttamente lo Stato della Chiesa. L’imperatore puntò minaccioso su Roma, sapendo di poter contare su più di un’adesione da parte della cittadinanza, e conscio che, anche all’interno della Curia, molti porporati ritenevano che la politica di Gregorio stesse mettendo a repentaglio la sicurezza di Roma e il futuro dei possedimenti temporali della Chiesa.
Di fronte a una situazione che si profilava disperata, Gregorio ricorse a un vero e proprio coup de théâtre rispolverando i trucchi metafisici sempre cari a chi è stato svezzato tra gli odori dell’incenso e dei ceri: il 22 febbraio, il giorno precedente alla (presunta) ascesa di Pietro al soglio, egli inscenò un pellegrinaggio dal Laterano a San Pietro, preceduto dalle reliquie degli Apostoli tra cui spiccavano i teschi di Pietro e Paolo. Giunto nella basilica vaticana, rivolto alla folla antistante il papa si sfilò la tiara e, poggiandola con mano tremante su quei venerandi quanto macabri crani, implorò loro di difendere la città lasciata alla mercé dei nemici dai romani neghittosi.
La messinscena ebbe l’effetto voluto e immediatamente il popolo, circonfuso di ardore divino, si prostrò ai piedi del pontefice dichiarando che avrebbe preso la croce per lui e difeso l’Urbe dalle minacce dell’imperatore eretico. Federico, pur masticando amaro, capì che non era aria e levò le tende, non prima però di lasciare un presidio con lo specifico compito di imprimere una bella croce rovente sulla fronte di ogni crocesegnato romano che avesse avuto la sventura di capitare tra le loro grinfie, giusto per ribadire la passione così focosamente dimostrata poco prima.
Solo l’invasione mongola che nell’aprile del 1241 rischiava di travolgere la Germania convinse Gregorio ad accogliere la mano che Federico gli tendeva per fronteggiare l’esiziale minaccia: il papa non avrebbe mai potuto accettare la responsabilità di una condotta che avrebbe eventualmente spianato la via alla calata degli eredi di Gengis khan. Tanto più che di fronte al precipitare degli eventi, si andava diffondendo, in Europa, la sensazione della necessità di convocare un concilio generale ove sia l’imperatore che il papa potessero esprimere le loro ragioni. Il rancore ormai annoso fra i due contendenti, che accampavano entrambi diritti di monarchia universale, rendeva evidente che un confronto avrebbe potuto recare qualche risultato solo in presenza di un mediatore autorevole: il problema era stabilire chi potesse ricoprire un ruolo così delicato.
Accadde però che la battaglia di Liegnitz spense gli ardori bellicosi dei mongoli che, seppur vittoriosi decisero di tornarsene inspiegabilmente a casa. Così, mentre l’Occidente festeggiava per lo scampato pericolo, l’ostinazione di Gregorio tornò a essere dura e il pontefice non volle più dare ascolto alle parole concilianti dell’imperatore. Anzi, si affrettò a convocare un sinodo romano per la Pasqua del 1241, con l’intento di affidare al collegio dei prelati il giudizio, certamente negativo, sul suo antagonista.
Non sentendosi affatto garantito, Federico, lungi dal presentarsi nell’Urbe, si adoperò con ogni mezzo affinché l’evento non avesse luogo. Nel frattempo proseguivano le azioni militari: in quell’anno, era caduta Faenza, dopo un lungo assedio, mentre dissapori locali avevano causato la rottura fra Milano e Como, che si era avvicinata all’imperatore, contribuendo a consolidare le sue posizioni in Lombardia. A rinforzare nei suoi sostenitori la convinzione che l’imperatore fosse in una posizione di forza intangibile, giunse la notizia della terribile sconfitta inflitta alla flotta genovese nel 1241 alla Meloria, che fruttò a Federico un bottino particolarmente ghiotto: su quelle galee viaggiavano infatti svariate decine di prelati, convocati a Roma di tutta fretta per il concilio indetto da Gregorio IX.
Rincuorato dai recenti successi, Federico iniziò una seconda manovra di avvicinamento a Roma. Nel contempo il pontefice, arroccato nella sua fortezza, stremato dalla fatica e dalla calura di agosto, cadde ammalato e il 21 agosto del 1241 esalò l’ultimo respiro, proprio nella fase cruciale di quella battaglia contro il rinascente romanismo dell’impero svevo con la quale si era inaugurato il suo pontificato.
Federico, che giudicò quella morte un motivo più che sufficiente per non infierire e oltraggiare Roma con una conquista, si accontentò di pressare il collegio cardinalizio affinché il nuovo pontefice fosse persona a lui gradita. Si giunse così all’elezione di Celestino IV che però resse meno di tre settimane sul soglio, dimostrando l’evidente incapacità degli alti prelati ad accordarsi sul successore di Gregorio; di fatto, il nuovo conclave che seguì alla morte del neoeletto assunse ben presto connotazioni drammatiche, complicate dal comportamento dell’imperatore, che mirava a imporre il suo controllo sull’elezione sottoponendo il collegio cardinalizio a odiosi ricatti, almeno nell’ottica clericale.
Questo atteggiamento comportò la vacanza del soglio pontificio per più di due anni, alimentando ciò che per i contemporanei fu un vero e proprio scandalo, al punto che l’ostruzionismo dell’imperatore finì per alienargli le simpatie di molti sovrani europei, compreso Luigi IX. Finalmente, il collegio si accordò sull’ultima persona che Federico avrebbe voluto vedere sullo scranno di Pietro: Sinibaldo de’ Fieschi, brillante canonista e stretto collaboratore di Gregorio, che assunse il nome di Innocenzo IV.
La politica del nuovo pontefice fu immediatamente chiara: egli intendeva prestare soccorso ai lombardi, definiti “amici della Chiesa” e rimasti senza protettore per due anni; ma soprattutto, intendeva rinnovare la guerra dei libelli con Federico II, nella quale, traendo vantaggio dai recenti errori imperiali, intendeva proporre al mondo l’immagine di un papato più bonario e condiscendente, seppur sdegnato per la sempre maggiore insolenza manifestata dall’imperatore.
Non che i sovrani europei gradissero la continuazione delle ostilità fra Federico e il papa, giudicate tanto più inopportune in considerazione di un panorama internazionale profondamente mutato: nel 1244, infatti, Gerusalemme era caduta con inaudita facilità in mano ai turchi, senza che la cristianità, divisa in lotte intestine, avesse mosso un dito; senza contare che nei paesi orientali incombeva ancora il ricordo della devastante campagna mongola del 1241, animando un terrore che, rimbalzando nelle corti tedesche, richiamava l’attenzione a un intervento che risultasse il più efficace possibile.
Innocenzo reputò quindi opportuno aprire trattative con l’imperatore, anche se i negoziati apparivano complicati dal fatto che qualsiasi richiesta papale sarebbe apparsa lesiva della dignità imperiale, senza dunque garantire alcun risultato concreto. In questo complesso mosaico animato da aspettative e diffidenze, si inserì il “colpo di Stato” guelfo che il cardinale Ranieri di Viterbo ordì nel novembre del 1243 nella sua città natale, caduta tre anni prima in mano federiciana; fu un’azione a sorpresa, al termine della quale i viterbesi obbligarono la guarnigione e il vicario imperiale a rinchiudersi nella rocca di San Lorenzo, mentre Ranieri, che aveva coordinato e deciso il tutto, entrava trionfalmente in città. Gli insorti rinnovarono la fedeltà a papa Innocenzo IV e, cosa nuova, pur di andare contro l’imperatore si allearono con il loro nemico di sempre, cioè il Comune di Roma.
La notizia dei fatti di Viterbo raggiunse Federico II a Melfi. L’imperatore radunò allora l’esercito e, stando a quanto scrisse lo stesso Ranieri nel libello Iuxta vaticinium Ysaie, «come un turbine di vento che corre da nord, avvolto nel fuoco dell’ira» si precipitò sulla città. I viterbesi si erano però attestati saldamente, cosicché l’assalto condotto da Federico in persona non riuscì. Allora la città fu posta sotto assedio, ma accadde che le pesanti torri mobili si incendiassero. Il papa, considerando che la questione di Viterbo gli sfuggiva di mano e avrebbe potuto far deflagrare la guerra, inviò come legato il cardinale Ottone di San Nicola in Carcere, il quale convinse i viterbesi a sottoscrivere la pace: tuttavia, subito dopo aver concesso alla guarnigione imperiale di lasciare quella rocca che avevano caparbiamente tenuto, i cittadini, pare incitati proprio dal cardinale Ranieri, piombarono sui soldati massacrandoli.
Questa vicenda scosse profondamente l’animo dell’imperatore, che ne scrisse in toni rammaricati al cardinale Ottone, discolpandolo insieme al papa: salvo poi infuriarsi e auspicare che, anche dopo morto, il suo corpo potesse levarsi per distruggere Viterbo. Nonostante ciò Federico si dimostrò addirittura più conciliante nei negoziati che il pontefice si affrettò a intavolare, probabilmente per mondarsi dalla scomoda posizione assunta in seguito al massacro perseguito dai guelfi viterbesi.
Nei fatti, in quello scorcio di 1244 Federico scontava un ruolo sensibilmente ridimensionato. Non solo infatti stava gravemente soffrendo della sua condizione di scomunicato, ma le prolungate azioni belliche stavano prosciugando le finanze del regno: la pace era dunque necessaria, qualunque fosse il prezzo morale da pagare. Approfittando di quel vantaggio, Innocenzo avviava le trattative prefiggendosi di ricondurre lo status quo ante la primavera del 1239.
Se la Santa Sede ne usciva avvantaggiata, va detto che gli accordi riconoscevano all’imperatore una robusta presenza nell’Italia nord-orientale, garantita dal divieto fatto ai guelfi di estendere la propria influenza nelle zone di dominio imperiale. Pur con la riduzione di prestigio che comportavano, Federico accettò dunque le condizioni, ivi incluso l’impegno a rifondere il Patrimonio di San Pietro dei beni sottratti.
Federico si affrettò ad annunciare la fine della disputa ai principi tedeschi; tuttavia, le condizioni e le modalità per dare attuazione agli accordi apparvero talmente nebulose da indurre il sovrano a prendere coscienza del fatto che la pacificazione non era affatto a portata di mano come aveva ritenuto. Decise quindi di incontrare il pontefice a Narni, dove si proponeva di negoziare la sospirata assoluzione con l’immediata restituzione delle terre dell’Italia centrale e di Benevento. Al contrario Innocenzo, dimostrando la consueta diffidenza nei confronti dell’imperatore, ribadiva con un’ambasceria che la vera questione da cui sarebbe dipeso l’esito della riconciliazione risiedeva nella soluzione della questione lombarda, un argomento che Federico avrebbe preferito non toccare.
A ogni modo, l’incontro di Narni non avvenne mai: imbarazzato dalle sue eventuali conseguenze, o forse giudicando non soddisfacenti le intese raggiunte, Innocenzo IV fuggì da Roma, e con l’aiuto dei genovesi raggiunse Lione, dove si apprestò a convocare un bel concilio. I toni dei libelli emessi dalla cancelleria papale in quel periodo non lasciano dubbi sul fatto che il concilio sarebbe stato non solo ostile all’imperatore, ma anche opportunamente orientato affinché si decretasse la sua deposizione: impensabile quindi, per Federico, l’ipotesi di sottrarsi al giudizio, tanto più che la brillante difesa costruita da Taddeo da Sessa avrebbe forse potuto parare alcuni colpi, e guadagnare all’imperatore qualche mediatore.
L’arringa di Taddeo, oltre che puntare sull’immagine di un imperatore contrito al punto da accettare qualunque rinuncia, si concludeva con un’offerta formidabile: Federico si sarebbe posto alla testa di un esercito per riconquistare Gerusalemme e difendere l’Europa orientale. Il papa però non volle scendere a patti: in fondo, il nocciolo della questione era la natura della sua autorità come vicario di Cristo, autorità che l’imperatore aveva più volte messo in discussione e alla quale aveva persino osato anteporre la propria.
Innocenzo era quindi dell’idea che l’unica via percorribile fosse una condanna inappellabile del sovrano, prima che egli potesse presentarsi sua sponte a Lione per sottoporsi al giudizio dei convenuti, nel qual caso sarebbe stato assai difficile imporre la volontà pontificia. Le imputazioni mosse contro Federico vennero così minuziosamente riviste, sfociando in un’accusa che per quanto infondata su molti punti, fu efficace nel controbattere l’orazione di Taddeo, giungendo per contro a un verdetto terribile: Federico doveva essere destituito.
Ora, è vero che molti papi si erano spesso arrogati il diritto di deporre altrettanti imperatori, in funzione della stessa autorità con la quale li consacravano al momento dell’elezione; recentemente era accaduto con Innocenzo III, che non si era fatto scrupoli di adottare tale provvedimento ai danni di Ottone IV. Eppure, in quel frangente un simile pronunciamento non solo risultava inopportuno ma addirittura pericoloso, considerate quali fossero le urgenze internazionali, per fronteggiare le quali sarebbe invece stata auspicabile una coesione universale. Senza contare che Federico, probabilmente, avrebbe preso la deposizione come una rinnovata dichiarazione di guerra, con conseguenze nefaste per i territori dell’Italia centrale e la Lombardia.
In effetti l’imperatore, pur continuando a sperare in una remota possibilità di composizione pacifica del conflitto reagì con furore alla notizia. A quel punto, a nulla valsero i tentativi di mediazione compiuti da Luigi IX; questi infatti, facendosi interprete del disagio mostrato dalle monarchie europee nei confronti di una destituzione che, in fin dei conti, rappresentava un pericoloso precedente per tutte le teste coronate, e infastidito che Innocenzo mostrasse di anteporre la propria crociata contro l’imperatore a quella, ben più seria, in Terrasanta, scongiurò il papa di dar credito alle buone intenzioni di Federico – che, peraltro, era stato prosciolto da un altro concilio dall’accusa di eresia, altro penoso retaggio dell’assemblea di Lione.
Il 1246 si aprì con tinte fosche per l’imperatore, scampato per miracolo a una congiura ordita dal cognato del pontefice, e impegnato a sedare una violenta rivolta in Sicilia, causata dall’oppressione fiscale imposta da necessità sempre più drammatiche. L’opposizione siciliana e i complotti contro la sua persona resero Federico sempre più conscio del vuoto che si andava creando attorno a lui, anche fra i suoi più fedeli collaboratori: una prospettiva che lo spaventava. Mentre da più parti sembrava affievolirsi il consenso verso di lui, da taluni ormai visto come un despota con le ore contate, la Curia continuava a tramare per eliminarlo: alcuni documenti sembrano alludere al progetto papale di riconquista in armi del regno di Sicilia, rafforzando la convinzione che l’unico modo per distruggere Federico fosse scatenargli contro una vera e propria crociata.
Nell’accezione più vasta del termine, infatti, la crociata poteva ben essere intesa come guerra di fede contro chiunque minacciasse l’integrità del mondo cristiano e lo stesso soglio pontificio. Idee simili, d’altronde, erano state già avanzate negli appelli di Innocenzo III contro Marcovaldo di Annweiler e probabilmente la solenne processione di Gregorio IX a Roma, con l’invocazione degli Apostoli a difesa della città santa, era intesa a promuovere proprio questo inusuale concetto di guerra santa, il quale, ancorché giudicato perfettamente legittimo dai canonisti, nei fatti era un prodotto assolutamente nuovo.
Come prevedibile, la predicazione attecchì maggiormente laddove il terreno era fertile, ovvero nei luoghi in cui già sussistevano fermenti antimperiali: nessuna meraviglia, dunque, se la Lega lombarda aderì senza troppe esitazioni. Molto più timide le risposte riscontrate in quegli ambiti in cui le contingenze obbligavano a un interesse che differisse dalle questioni in cui si stavano affannando il papato e l’impero: fu il caso dell’Ungheria che, preoccupata dagli sconfinamenti mongoli, trovava le dispute in questione francamente marginali; o la stessa Germania, in cui i principi si mostrarono addirittura critici nel confronti di un pontificato giudicato sin troppo invadente. Più sfumata la posizione dell’Inghilterra, in cui Enrico III, vassallo tanto del papa che dell’imperatore, ufficialmente tentò di mantenere una posizione di neutralità, anche se la sua politica di condiscendenza nei confronti della Curia papale lo avrebbe messo in rotta di collisione politica e costituzionale con la nobiltà, che sfocerà in aperta contrapposizione quando Enrico tenterà, invano, di porre il figlioletto Edmondo sul trono di Sicilia.
In ogni caso, la decisione di Innocenzo di esacerbare i toni del conflitto fu di portata storica, costituendo il primo tentativo “ufficiale” di servirsi del concetto di crociata per mettere al bando i nemici politici del papato. Il massiccio programma papale prevedeva il consolidamento dell’autorità pontificia nel regno, come denunciano gli innumerevoli decreti emanati, secondo i quali si annunciava che una volta destituito Federico, l’autorità temporale sulla Sicilia sarebbe tornata nelle sante mani di Innocenzo; quindi, esso si rivolgeva ai partiti guelfi dell’Italia settentrionale, incoraggiandoli a sferrare offensive di qualunque tipo contro le controparti ghibelline, con l’obiettivo di capovolgere i rapporti di forza finora in atto nell’area.
Fu proprio per contrastare tali iniziative che nel 1247 Federico concentrò la propria attenzione sulla Lombardia. La sua intenzione era quella di tenere sotto pressione i guelfi lì concentrati, compito che svolse egregiamente grazie al prezioso contributo del figlio Enzo il quale, sfruttando come base la Sardegna di cui era sovrano, riuscì a tenere in costante allarme i comuni e le città costiere a essi collegate. Quindi, l’imperatore contava di rientrare in Germania con l’intento di aggregare tutte le sue forze in vista di un attacco decisivo da sferzare contro i fautori del papato.
Mentre l’atmosfera si surriscaldava sempre più, il re di Francia tentava per l’ennesima volta la via negoziale, riuscendo a suscitare un modesto interesse nell’imperatore, che tuttavia manteneva una certa riluttanza a incontrare il papa prima di aver compiuto il suo viaggio in Germania, nella speranza che la devozione dei principi tedeschi gli assicurasse un maggior potere contrattuale.
Chi al solito non credette nella buona fede di Federico fu, neanche a dirlo, Innocenzo IV: convinto che l’imperatore intendesse ormai affidare alle armi l’esito dell’annosa controversia, oppose un irrevocabile rifiuto a un qualsiasi negoziato. Nonostante infatti Federico si mostrasse addirittura propenso a ritirarsi dalla scena europea a patto di veder incoronato suo figlio Corrado, il pontefice riteneva impossibile aprire trattative sin quando l’imperatore avesse continuato a ignorare la sentenza di Lione e i numerosi editti promulgati contro il casato di Svevia: in realtà, dietro questo ipocrita appello alla giustizia, Innocenzo a stento riusciva a celare quanto gli bruciasse non essere riuscito a scalzare l’imperatore dalla sua posizione.
A incendiare definitivamente la situazione contribuì la defezione di Parma, che abbandonato il partito imperiale si univa alla fazione guelfa. Si trattò di un durissimo colpo per il prestigio di Federico, per rimediare al quale il sovrano, già nella primavera del 1247, si risolse ad assediare la città, con gran sollievo del papa, cui dunque era riuscita la manovra di trattenere l’antagonista in Italia, costringendolo a rinviare l’incontro con i suoi sostenitori tedeschi.
Sulle prime la situazione militare sembrò arridere all’imperatore che, ormai certo di espugnare e radere al suolo la città, vagheggiava in suo luogo la fondazione di un nuovo centro a cui molto opportunamente conferire il nome di Vittoria, a commemorazione del suo imminente trionfo. Ma nel frangente Federico fu a dir poco ottimista. Il nuovo sito, che nelle intenzioni del sovrano sarebbe dovuto diventare la capitale imperiale in Lombardia, riproponendo schemi urbanistici romani, dopo un anno risultava ancora limitato alle dimensioni di un castrum, peraltro scarsamente fortificato, come gli eventi ebbero a dimostrare.
Approfittando dell’assenza di Federico per una battuta di caccia, i parmensi, per nulla fiaccati, sferrarono un’improvvisa offensiva, in cui uno sparuto contingente si occupò di allontanare la guarnigione imperiale, lasciando la città in costruzione praticamente incustodita, alla mercé dell’accorrente esercito degli assediati. L’orgogliosa Vittoria venne così ridotta a un cumulo di macerie, che sotterrarono sotto di esse il sogno vagheggiato dal sovrano. Per giunta, se dobbiamo credere alle parole di Salimbene, i parmensi rimasero stupefatti nel contemplare le ricchezze che Federico aveva comunque avuto cura di far già pervenire, ovvero il tesoro, i notevoli mezzi bellici, la biblioteca, l’harem e il serraglio, tutti elementi distintivi della magnificenza che l’imperatore intendeva conferire alla nascente città.
Se il sovrano dovette soffrire della perdita di quei simboli, molto più si dolse della scomparsa di Taddeo da Sessa, caduto sul campo di Parma nel corso di quell’infausto assedio. Spariva così il fido collaboratore, ideatore, insieme a Pier delle Vigne, del fondamento dell’autorità imperiale modellata sul diritto romano. La reazione di Federico fu disperatamente rabbiosa: procrastinando ulteriormente il suo rientro in Germania, si abbarbicò ancora di più nell’Italia del Nord, giurando a se stesso che non l’avrebbe lasciata finché non fosse stata di nuovo ricondotta sotto le insegne dell’aquila imperiale.
Si giunse così al 1248, uno strano anno di consuntivi: se Federico era ancora sconvolto dalla sconfitta di Parma, Innocenzo non era riuscito a mobilitare la cristianità contro l’imperatore. Tuttavia, un fattore inaspettato sembrò giocare a favore del papa: Luigi IX era finalmente riuscito a “prendere la croce e a trascinarla in Terrasanta. Il pontefice poteva dunque blandire i principi e i potenti rimasti, tentando di trasformare la loro scelta di non adesione al pellegrinaggio in una molto più opportuna crociata ai danni dell’imperatore.
Innocenzo iniziò quindi una paziente opera di riconquista delle anime, sia tra le città titubanti, nelle quali sperava di inoculare l’imitazione dell’esempio di Parma, sia persuadendo i baroni siciliani a unirsi in una solida coalizione antifedericiana. La situazione sembrò farsi drammatica per l’imperatore, soprattutto quando poco dopo scontava la perdita del figlio Enzo. Costui infatti, fu catturato nel corso della battaglia di Fossalta del 25 maggio 1249, quando forze bolognesi di provata fede guelfa sbaragliarono le truppe modenesi e cremonesi comandante dal re di Sardegna; questi finirà i suoi giorni in una cella comunale di Bologna. A riprova della nuova determinazione che animava ormai il partito filopapale, non ci fu prezzo offerto da Federico che valse la sua liberazione: Enzo passerà ventitré anni di prigionia, non senza aver assistito al tramonto della potenza sveva in Italia.
L’imperatore intanto, sempre più isolato, si abbandonava a una spirale di paranoia che proprio in quello stesso anno lo portò a privarsi di Pier delle Vigne, l’uomo del quale si era avvalso per più di vent’anni nella formulazione di leggi e strategie politiche: sospettato di complotto e accusato di corruzione e malversazione, l’inestimabile collaboratore fu arrestato e accecato; morirà suicida per la vergogna e il disonore, fracassandosi il cranio contro la colonna alla quale era legato nella fortezza imperiale di San Miniato.
Nonostante Federico stesse scivolando in un abisso senza ritorno, riuscì a reagire dimostrando una volta di più come la fibra dei grandi sia temprata proprio per sopportare le più insidiose difficoltà dell’esistenza. Ad aiutarlo, paradossalmente, intervennero i clamorosi successi dell’esercito papale che, avendo riguadagnato alla causa guelfa importanti posizioni nella marca anconetana, calamitarono le forze imperiali nel Centro Italia, costringendo a quel punto il pontefice a rinunciare al suo proposito di portare le ostilità nel regno di Sicilia, dovendosi piuttosto preoccupare di fronteggiare la guerra che ormai si ritrovava vicino casa. Poche settimane dopo, un redivivo Federico inanellava una serie di fulminee vittorie che riportò alla causa imperiale quasi tutte le città adriatiche della marca, da Ravenna fino al confine con il regno.
A rendere più plausibile quella che sembrava una vera e propria riscossa intervennero le notizie dall’Oriente, destinate a complicare terribilmente la posizione del papa: l’esercito crociato aveva infatti subito una terribile sconfitta, nel corso della quale lo stesso Luigi IX era stato catturato. La Francia, sconvolta, iniziò ad accusare Innocenzo di aver contribuito al disastro per aver preferito condurre la sua guerra contro l’impero, dividendo di fatto la cristianità e distogliendola da quello che doveva essere il suo obiettivo primario.
Identificato come il fomentatore di un conflitto che ispirava simpatie quanto meno incerte, il papa si trovò assediato dalle richieste francesi di un accomodamento con l’imperatore, al fine di mettere in atto una strategia congiunta per la liberazione del sovrano. Eppure, quel pontefice assurdamente testardo anche quella volta oppose il suo rifiuto, riservandosi di prendere tempo per deliberare.
Federico non fece in tempo ad assistere allo scioglimento dei dubbi papali: impegnato in un soggiorno in Puglia, cadde vittima di una grave patologia addominale. Un paradosso, se si considera quanto l’imperatore tenesse alla propria salute al punto da praticare ciclicamente una dieta che disintossicasse il suo organismo, basata su alimenti in cui la presenza costante di latte e mandorle indusse a definire “biancomangiare”.
Le sue condizioni si aggravarono così repentinamente da indurre l’astrologo Guido Bonatti a insinuare che Federico fosse stato avvelenato. A ogni modo, sentendo avvicinarsi la fine, l’imperatore diede disposizioni per la sua successione: nominò Corrado imperatore d’Italia, Germania e Sicilia, con la condizione che, se non avesse avuto eredi, avrebbe dovuto passare le consegne a Enrico, figlio di Isabella. Costui avrebbe per conto suo avuto il regno di Gerusalemme, più una considerevole somma da destinarsi alla riconquista della Terrasanta; quanto all’altro figlio Manfredi, avrebbe invece governato il regno siciliano durante i periodi di assenza di Corrado.
Ordinò inoltre di restituire alla Chiesa tutto ciò di cui si era appropriato ingiustamente, fatti salvi l’onore e la dignità imperiale: un gesto con cui, ancora una volta, dimostrava quanto tenesse alla pace e alla concordia con il papato. Quindi, il 13 dicembre 1250 Federico si spense a Castel Fiorentino, presso Foggia, attorniato dai suoi consiglieri.
Federico fu sepolto nel duomo di Palermo, accanto alla prima moglie Costanza, in uno splendido sarcofago che Ruggero II aveva fatto scolpire pensando alla propria sepoltura. Sebbene non fosse uscito di scena da trionfatore, non si può certo dire che lo abbia fatto da vinto. Anzi, la sua massima ambizione sembrava sul punto di realizzarsi: assicurare all’impero una successione dinastica, affidando ai suoi figli il compito di mantenere alto il nome della dinastia. Un sogno che, tuttavia, le battaglie di Benevento prima, e di Tagliacozzo poi, infrangeranno, consegnando agli Angioini il Meridione d’Italia e segnando il definitivo tramonto della dinastia sveva in Italia.
Al di là dell’effettiva portata dei suoi successi politici, il fascino federiciano risiede piuttosto nel suo essere un personaggio quasi tragico, disilluso nei propri ideali, eppure pronto a battersi per essi sino alla morte. Alla luce di tale ambivalenza, Federico rimane ancora oggi un enigma insoluto. Per alcuni, su tutti lo storico David Abulafia, egli incarnò perfettamente la figura dell’“imperatore medievale”, un “incallito conservatore” che, guardando più indietro che avanti, si piccò di coltivare il sogno dell’universalismo politico, perseguendo la strada già battuta da suo nonno Federico I per ciò che concerneva l’impero, e il sentiero tracciato dall’altro avo Ruggero II, nell’ambito del regno siciliano.
Per altri, tra cui Jakob Burckhardt, Federico fu, al contrario, «il primo uomo moderno sul trono», capace di distruggere lo Stato feudale e di sostituirlo con una forte centralizzazione giudiziaria e amministrativa.
A titolo di cronaca registriamo la stima attestata da Voltaire che, insieme a Maometto e Saladino, considerava Federico l’unico personaggio da salvare dell’intera storia medievale, in virtù della sua opposizione alla tirannia ecclesiastica. O l’amore tributato da Friedrich Nietzsche, che lo definì «il primo europeo di mio gusto».
Come spesso accade, Federico condensò tutti questi aspetti e li sopravanzò. Erede di un impero a vocazione universale, sarà di fatto l’ultimo degli imperatori tedeschi; ma fu anche colui che giocò un ruolo di rilievo nella trasformazione dell’Europa, da una comunità di cristiani guidati da due autorità universali concorrenti, i “due Soli” teorizzati da Dante, a un mosaico di nazioni-stato in cui entrambi i poteri risultavano ridimensionati.
Di certo l’eccezionalità della levatura intellettuale di Federico lo fece ergere come una sorta di faro nel contesto europeo del Duecento. Pur suscitando in numerose contraddizioni, la sua apertura mentale, la sua tolleranza religiosa e la curiosità che animò il suo intelletto si rivelarono elementi di straordinaria grandezza, raramente uguagliati.
Eugenio Caruso
- 19 settembre 2019