COMMENTO
Il canto ventitreesimo dell'Inferno si svolge nella sesta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti gli ipocriti; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300. Il canto chiude, dopo i due precedenti (XXI e XXII), l'episodio della bolgia dei barattieri, dove Dante e Virgilio assistono alle peripezie di un gruppo di diavoli (i Malebranche), assegnati loro malgrado come scorta non richiesta. L'episodio è caratterizzato da uno stile prettamente comico, con un ritmo veloce e numerosi personaggi, chiaro esempio della duttilità poetica di Dante. La seconda parte di questo canto poi è dedicata, con tutt'altro tono ed atmosfera, alla bolgia degli ipocriti, prima del finale a sorpresa che torna su uno stile più canzonatorio e chiude degnamente il brano dei diavoli della bolgia precedente.
«Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l’ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l’auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d’Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia.»
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
Il canto inizia con la figura dei due pellegrini che, dopo essere sfuggiti ai diavoli in rissa alla fine del precedente canto, adesso camminano taciti, soli, sanza compagnia e in fila come frati minori. Dante ci fa anche sapere cosa stesse pensando in quel momento di silenzio, cioè alla favola di Esopo (anche se si trattava di un'aggiunta medievale al Liber Esopi) della rana e del topo, che lui vedeva analoga alla vicenda dei diavoli. La favola in questione parlava di una rana che accetta di portare sulla schiena un topolino per fargli traghettare uno stagno, ma dopo essersi legata la sua coda a una zampa cerca di affogarlo a metà del tragitto, se non che un nibbio, attirato dal movimento del topo lo ghermisce catturando anche la rana che era legata; il significato è quindi quello di chi ha male intenzioni e rimane vittima della sua stessa malizia e può essere applicato all'episodio del canto precedente come il dannato Ciampolo di Navarra come rana e i diavoli come topolini, ma si potrebbe dire anche il contrario, con la pece quale "falco" che punisce tutti.
Ma come uno scoppio che ne porta un altro, il pensiero si rincorre nella testa di Dante, il quale adesso si è accorto che i diavoli potrebbero venire a vendicarsi su di essi, colpevoli dopotutto di avergli fatto sfuggire il dannato con le loro lunghe domande. La paura che essi stiano correndo loro dietro, come cane contro lepre, Dante la manifesta a Virgilio, il quale gli ha già letto nel pensiero con la velocità del "piombato vetro", cioè dello specchio, a riflettere le immagini. Appena Virgilio termina di suggerire che essi potrebbero scendere giù dall'argine nel prossimo fossato, ecco che già in lontananza si vedono arrivare i diavoli rapidi con le ali tese, al che egli immediatamente prende Dante con un gesto protettivo e materno e si butta giù dallo scosceso "portandosene me sovra 'l suo petto, / come suo figlio, non come compagno".
Dante mette su una vivida similitudine per descrivere la discesa in braccio al suo maestro, come farebbe una madre svegliata dal rumore di un incendio che prenderebbe il figlio per salvarlo "avendo più di lui che di sé cura", vestita di una sola camicia. La rapidità di Virgilio, che si è gettato giù supino con il discepolo in braccio, ricorda anche l'acqua che scende nelle incanalature di un mulino.
Appena i due toccano terra i diavoli arrivano in cima al colle dove si trovavano i due poeti poco prima, ma lì non sono di nessun pericolo perché l'essere destinati alla quinta bolgia dalla divina provvidenza toglie loro la facoltà di uscirne.
Una volta discesi sul fondo l'atmosfera del canto cambia completamente e basta la prima terzina per segnare l'atmosfera di silenzio e dolore.
«Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.»
I dannati sono dipinti cioè coperti da un'abbagliante doratura, e se ne vanno con passi lentissimi piangendo, con un fare di chi è vinto dalla stanchezza. Indossano delle ampie cappe da monaci, come hanno quelli di Cluny, che però all'interno sono foderate di pesantissimo piombo e sono così pesanti che quelle di Federico, in confronto, sembravano di paglia: un'allusione a una leggenda sull'Imperatore Federico II, messa su e diffusa dal partito guelfo, alla quale Dante credeva, ritenendo che egli fosse solito punire chi era colpevole di lesa maestà con una cappa di piombo prima di metterli su una caldaia infuocata. I dannati, "intenti al tristo pianto" camminavano così lenti che a ogni nuovo passo i due si ritrovavano a superare e affiancare già qualcuno di diverso. L'atmosfera di questo canto è stata definita talvolta come conventuale, infatti la bolgia viene definita ai versi 91-92 "collegio (parola che spesso indicava una comunità di frati) degli ipocriti".
Il contrappasso di questi dannati (si scoprirà presto che sono gli ipocriti) consiste nell'analogia rispetto alla loro condotta in vita: all'esterno mostravano una splendida figura, covando nel loro interno il loro cupo pensiero reale. Può aver influenzato Dante anche l'etimologia che Uguccione della Faggiuola dà della parola ipocrita, cioè come formata dalle parole greche hypò, "sotto", e chrysòs, "oro" (in realtà dovrebbe derivare da hypocrités, "attore"). La visione che Dante aveva di questi peccatori era sicuramente influenzata anche dai vangeli, dove Gesù si scagliava con veemenza durante le sue predicazioni contro tale atteggiamento. L'ipocrisia è anche il tema dominante del Fiore, poemetto in endecasillabi da alcuni indicato come opera giovanile di Dante.
A questo punto Dante manifesta a Virgilio la volontà di parlare con qualcuno, riconoscendo magari qualche dannato, ma le sue sole parole bastano perché gli si rivolga uno che intende la lingua "tosca". Dante vede allora poco dietro di sé due che sembrano volersi affrettare nell'animo (con il corpo per essi è infatti impossibile) e che quando lo raggiungono lo fissano in silenzio. Parlando tra di sé poi notano come Dante sia vivo perché si move la sua gola, cioè respira, e gli chiedono chi sia. Dante, che non cita mai il suo nome, risponde brevemente: "I' fui nato e cresciuto / sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa". Dopo aver chiesto chi sono i dannati e quale sia la pena che dal dolore fa rigare loro tutte le guance, il primo risponde che il dolore è dovuto al peso del piombo delle cappe, che li fa gemere come i pesi eccessivi fanno cigolare le bilance. Essi furono frati Gaudenti (della Milizia della Beata Vergine Maria) bolognesi, in particolare il parlatore è Catalano dei Malavolti e l'altro Loderingo degli Andalò, entrambi già inviati come pacieri a Firenze (nel 1266), impresa nella quale fallirono, come Dante ben sapeva guardando anche solo alla Torre del Gardingo, la principale torre degli Uberti ridotta in macerie al tempo della cacciata dei ghibellini (sempre nel 1266), che in tale miserevole stato ancora si trovava al tempo di Dante prima che fosse spianata l'odierna Piazza della Signoria.
Dante inizia allora un'orazione: "O frati, i vostri mali..." (non si sa quali toni intendesse dare al suo discorso, se deprecativo o misto di pietà o altro). Ma è bruscamente interrotto da una visione, un uomo crocifisso al suolo con tre pali, che si distorce soffiando nella barba quando scopre di essere visto da Dante. Frate Catalano allora spiega che si tratta di colui che consigliò ai Farisei di sacrificare un solo uomo per evitare guai al popolo e che ora sta nudo sotto il passaggio di tutti gli altri dannati. Egli è quindi Caifa, il sommo sacerdote di Gerusalemme che fece giustiziare Gesù coprendosi con il pretesto da ipocrita di salvare il popolo sacrificando il fastidioso predicatore (pretesa che però da un punto di vista laico sembra tutt'altro che ipocrita, soprattutto se si pensa ai romani che non gradivano affatto i disordini).
Inoltre è tormentato allo stesso modo suo suocero Anna e gli altri farisei che presero parte a quel consiglio, che fu causa di sventura per gli ebrei (i Giudei).
Virgilio si meraviglia al vedere quel dannato in croce così vilmente e su questa meraviglia di Virgilio alcuni commentatori si sono sforzati di trarre un significato allegorico, mentre secondo altri è solo dovuta al fatto che durante il primo attraversamento dell'Inferno da parte del poeta latino questi dannati non esistevano ancora, in quanto appartenenti all'era cristiana.
Virgilio chiede allora al frate se ci sia un modo di uscire a destra da questa bolgia, dato che a sinistra essi non possono tornare, essendo ricercati da "li angeli neri", vale a dire i Malebranche; Catalano risponde allora che non lontano c'è un sasso che si è distaccato dal ponte, che avrebbe permesso di attraversare tutti i valloni di questo cerchio, essendo tutti i ponti su questa bolgia staccatisi e quindi non coperchiando, cioè coprendo in alcun punto. Virgilio resta un po' a testa china poi dice: "Mal contava la bisogna / colui che i peccator di qua uncina", cioè ci raccontò male la cosa colui che uncina i peccatori di là (Malacoda).
A questo punto riappare l'atmosfera comica della precedente bolgia, dove Catalano rivela a Virgilio di essere stato imbrogliato arrivando a canzonarlo per la sua ingenuità: "Io udi' già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ' quali udì / ch'elli è bugiardo e padre di menzogna", cioè che egli sentì dire nella dotta Bologna, che il diavolo è padre di menzogna, sottintendendo sarcasticamente che per sapere una banalità tale che non serve certo andare all'Università di Bologna.
Virgilio incassa il colpo in silenzio (importante è il significato allegorico della Ragione che si può far ingannare dalla frode, soprattutto quando questa è così grossolana e inutile) e se ne va a grandi passi con fare un po' irato, mentre Dante gli corre dietro, sulle care piante, cioè seguendo le sue impronte. Si chiude così con un finale a sorpresa, che fa ripensare sotto tutt'altra luce all'intero episodio, la commedia dei diavoli.
TESTO
Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via. 3
Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo; 6
ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa. 9
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia. 12
Io pensava così: ’Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. 15
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. 18
Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’io dissi: «Maestro, se non celi 21
te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento». 24
E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro. 27
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei. 30
S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia». 33
Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere. 36
Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese, 39
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta; 42
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. 45
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ella più verso le pale approccia, 48
come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno. 51
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto; 54
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’indi a tutti tolle. 57
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta. 60
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi. 63
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia. 66
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto; 69
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d’anca. 72
Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi». 75
E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca! 78
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta
e poi secondo il suo passo procedi». 81
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ’l carco e la via stretta. 84
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco: 87
«Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?». 90
Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio». 93
E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto. 96
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?». 99
E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance. 102
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi, 105
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo». 108
Io cominciai: «O frati, i vostri mali...»;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali. 111
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse, 114
mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri. 117
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria. 120
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa». 123
Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio. 126
Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce 129
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci». 132
Rispuose adunque: «Più che tu non speri
s’appressa un sasso che de la gran cerchia
si move e varca tutt’i vallon feri, 135
salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia:
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia». 138
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina». 141
E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna». 144
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io da li ’ncarcati mi parti’
dietro a le poste de le care piante. 148
Video HD
https://www.youtube.com/watch?v=lgNf1_0LVaU
Gassman https://www.youtube.com/watch?v=4tGWl-mHPLk
PARAFRASI
Silenziosi e soli, senza altri insieme a noi, andavamo uno dietro l'altro, come i frati minori che vanno per strada.
Io, riguardo alla rissa cui avevamo assistito, pensavo alla favola di Esopo che parla della rana e del topo;
infatti i due episodi sono assai simili, quasi come le parole 'mo' e 'issa' (adesso), se si paragonano l'inizio e la fine, riflettendo con attenzione.
E come da un pensiero ne nasce all'improvviso un altro, così da quello mi venne un altro pensiero che raddoppiò la prima paura.
Io pensavo così: "I diavoli a causa nostra sono stati scherniti con la beffa oltre che il danno, e credo che questo dia loro molto fastidio.
Se l'ira si aggiunge alla malvagità, essi ci verranno dietro più crudeli del cane contro la lepre che vuole azzannare".
Ormai mi sentivo rizzare tutti i peli dalla paura e mi voltavo indietro con ansia, quando dissi: «Maestro, se non ci nascondiamo entrambi in fretta, ho paura dei Malebranche. Li abbiamo già alle costole; me li immagino al punto che già li sento».
E lui: «Se io fossi uno specchio, non rifletterei la tua immagine esteriore più in fretta di quella interiore che vedo dentro di me.
Proprio ora i tuoi pensieri raggiungevano i miei, con lo stesso atteggiamento e aspetto, così che ho maturato con entrambi una sola decisione.
Se la sponda di destra è meno ripida, così da permetterci di scendere nell'altra Bolgia, noi sfuggiremo alla caccia che tu immagini».
Non ebbe il tempo di completare il ragionamento, perché io vidi i Malebranche venire ad ali spiegate non molto lontano, per catturarci.
Il mio maestro mi afferrò prontamente, come la madre che è svegliata all'improvviso dal rumore e vede il fuoco vicino a sé,
e prende il figlioletto e scappa senza fermarsi, preoccupandosi più di lui che di se stessa, anche se indossa solo una camicia;
e (Virgilio) si lasciò cadere supino dalla sommità dell'argine lungo il pendio della roccia che chiude la Bolgia da uno dei due lati.
L'acqua non corse mai tanto velocemente lungo un condotto per muovere la ruota di un mulino di terra, quando essa è più vicina alle pale,
come il mio maestro scese lungo quell'argine, portando me sopra il suo petto come se io fossi suo figlio, non un compagno.
Non appena i suoi piedi ebbero toccato il fondo della Bolgia, i diavoli giunsero sull'argine sopra di noi, ma a quel punto non c'era più ragione di temere;
infatti l'alta provvidenza, ponendoli come custodi della V Bolgia, vietò loro di allontanarsi da essa.
Laggiù trovammo dei dannati dipinti che andavano in tondo con passi lentissimi, piangendo e con aspetto stanco e prostrato.
Avevano cappe con bassi cappucci davanti agli occhi, della stessa foggia di quelle dei monaci cluniacensi.
All'esterno sono dorate, al punto di abbagliare; ma dentro sono tutte di piombo, e talmente pesanti che quelle di Federico II al confronto erano leggere come la paglia.
O manto gravoso per l'eternità! Noi ci rivolgemmo ancora a sinistra insieme a loro, attenti al loro pianto angoscioso;
ma quella gente a causa del peso procedeva tanto lentamente che noi avevamo nuovi compagni a ogni movimento di fianchi.
Allora dissi al maestro: «Cerca di trovare qualcuno che sia noto per le gesta o per il nome, e mentre camminiamo volgi intorno lo sguardo».
E un dannato, che sentì il mio accento toscano, gridò alle nostre spalle: «Fermate il passo, voi che correte in quest'aria oscura!
Forse tu avrai da me quello che chiedi». Allora il maestro si voltò e disse: «Aspettali e poi procedi adeguando il tuo passo al loro».
Io mi fermai e vidi due dannati che con lo sguardo mostravano una gran fretta di raggiungermi, ma il peso delle cappe e la via stretta li ostacolava.
Quando ci raggiunsero, mi guardarono a lungo con lo sguardo obliquo, senza parlare; poi si rivolsero l'un l'altro e si dissero:
«Costui sembra vivo per come muove la gola; e se invece sono morti, quale privilegio gli consente di non indossare il pesante mantello?»
Poi mi dissero: «O toscano, che sei venuto nella compagnia dei tristi ipocriti, non disdegnare di dirci chi sei».
E io a loro: «Sono nato e cresciuto nella grande città (Firenze) sopra il bel fiume d'Arno e ho ancora il mio corpo mortale.
Ma chi siete voi, che un grave dolore opprime e spinge a versare lacrime lungo le guance? e qual è questa vostra pena che scintilla in tal modo?»
E uno dei due rispose: «Le cappe lucide sono fatte di piombo e sono tanto spesse che il peso fa cigolare nello stesso modo le bilance.
Fummo frati godenti e siamo nati a Bologna; io mi chiamo Catalano e questo è Loderingo, insieme chiamati da Firenze come di solito si chiama un solo magistrato per assicurare la pace; e ci comportammo in modo tale che ve ne è ancora testimonianza presso la torre del Gardingo».
Io cominciai a dire: «Fratelli, le vostre pene...»; ma non dissi altro, perché il mio sguardo fu attirato da un dannato (Caifas), crocifisso a terra e legato a tre pali.
Quando quello mi vide, si contorse tutto soffiando e sospirando nella barba; e frate Catalano, che se ne accorse, mi disse: «Quel dannato crocifisso che osservi consigliò i Farisei che era preferibile per il popolo martirizzare un solo uomo (Gesù).
È posto nudo di traverso alla via, come vedi, ed è necessario che senta quanto pesa chiunque gli passi sopra, prima che sia arrivato dall'altra parte.
E allo stesso modo è punito in questa fossa suo suocero (Anna), e tutti gli altri sacerdoti del Sinedrio che con la loro decisione causarono gravi sciagure al popolo dei Giudei».
Allora io vidi Virgilio meravigliarsi sopra colui che era crocifisso a terra in modo tanto misero nella sua eterna dannazione.
Poi si rivolse così al frate: «Non vi dispiaccia, se potete, dirci se a destra c'è un qualche passaggio da cui noi due possiamo uscire dalla Bolgia, senza obbligare qualcuno dei Malebranche a venire fin quaggiù a portarci via».
Allora rispose: «Più vicino di quanto speri c'è un ordine di ponti che parte dal cerchio esterno e sovrasta tutti i crudeli fossati,
salvo che su questa Bolgia è crollato e non la sovrasta: potrete arrampicarvi sulla rovina di rocce che giace sulla parete e si ammucchia sul fondo».
Il maestro rimase un poco con la testa bassa, poi disse: «Colui che uncina i peccatori dell'altra Bolgia (Malacoda) mi ha raccontato la storia in modo non sincero».
E il frate: «Io ho già sentito dire a Bologna che il diavolo ha molti vizi, compreso che è bugiardo e padre di menzogna».
Dopodiché il maestro se ne andò a grandi passi, un poco turbato dalla collera nel suo aspetto; allora io mi separai dai dannati gravati dal peso e seguii i cari passi di Virgilio.
CATALANO DEI MALVOLTI
Membro della famiglia guelfa dei Malavolti, Catalano nacque a Bologna intorno al 1210. Dopo aver ricoperto l'incarico di podestà in numerose città romagnole e toscane, fu a capo della fanteria bolognese che nella battaglia di Fossalta (1249) vinse e catturò re Enzo, figlio di Federico II. Con Loderingo degli Andalò, insieme al quale aveva ricoperto cariche pubbliche, fu tra i fondatori dell'Ordine dei Frati godenti. Frati godenti venivano chiamati i Cavalieri di Santa Maria. Questo ordine, costituito da chierici e laici, aveva il compito sia di contrastare le eresie, sia di pacificare le avverse fazioni cittadine e, per questi motivi, i membri dell'Ordine avevano il permesso di portare armi.
La tendenza dell'Ordine a scendere a compromessi con la vita agiata e mondana determinarono forse l'uso del soprannome di "frati godenti", che non aveva un connotato dispregiativo. L'ordine, fondato a Bologna nel 1260 e approvato da papa Urbano IV nell'anno successivo, fu tuttavia al centro di un'accusa di ipocrisia, largamente diffusa nel tempo di Dante, quando Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò accettarono la podesteria di Firenze, mentre l'Ordine vietava ai suoi membri di ricoprire cariche pubbliche.Erano gli anni seguenti alla battaglia di Benevento del 1266, quando gli equilibri di forze tra parte guelfa e ghibellina erano assai incerti: Catalano e Loderingo erano giunti in città per mantenere la pace, ma si ritrovarono strumento nelle mani delle diverse forze in gioco (papa Clemente IV (Pg.), guelfi, ghibellini).Rinchiusosi nel convento di Ronzano, Catalano morì nel 1285.
LODERINGO DEGLI ANDALO'
Fra Loderingo degli Andalò o Loderengo (Bologna, 1210 circa – Ronzano, 1293) è stato un religioso, tra i fondatori dell'ordine della Milizia della Beata Vergine Maria, noto anche come dei frati Gaudenti.
Nacque a Bologna nel 1210 presso una famiglia nobile ghibellina: da Andrea Lovello, soprannominato Andalò (donde il suo cognome) e da Ota. Fratello della beata Diana fondatrice del monastero domenicano di sant'Agnese e di Brancaleone che fu podestà di Genova e poi senatore a Roma. Fu imprigionato nel 1239 da Federico II. Ricoprì in seguito la carica di podestà a Modena, Firenze e Bologna.
Nel 1260 fondò l'ordine dei Frati Gaudenti (o cavalieri di Santa Maria). Questo ordine, costituito da chierici e laici, aveva il compito sia di contrastare le eresie, sia di pacificare le avverse fazioni cittadine e per questi motivi i membri dell'Ordine avevano il permesso di portare armi. Assieme a Catalano dei Malavolti fu paciere in varie città per conto di Papa Clemente IV, sebbene il loro ordine vietasse di ricoprire cariche politiche. I due religiosi furono due volte rettori a Bologna (1265 e 1267), mentre nel 1266, poco dopo la battaglia di Benevento e la sanguinosa cacciata dei ghibellini, furono inviati come pacieri a Firenze. Dante li collocò entrambi nella bolgia degli ipocriti, costretti a vagare per l'eternità coperti da pesantissime cappe di piombo, all'esterno ricoperte d'oro zecchino.
Nel 1267 Loderingo si ritirò nel convento (eremo) di Ronzano sulle colline bolognesi. Qui ebbe per compagno Guittone d'Arezzo che gli dedicò una canzone nella quale esaltava la sua serena pazienza. Morì in convento nel 1293.
CAIFA
Caifa non era un nome ebraico corrente all'epoca, ma, come riporta il Vangelo di Luca, era nuovo alla tradizione anche il nome di un contemporaneo e figlio di sacerdote, Giovanni Battista.
L'etimologia è incerta. La somiglianza del nome "Caifa" con "Cefa" ("Pietra"), il soprannome che Gesù diede a Pietro, lascia ipotizzare una origine etimologica comune dei due termini.
Il sommo sacerdote era la massima autorità spirituale vivente per gli ebrei, istituita direttamente da Dio nel Levitico e in carica a vita, la cui parola era assimilata a verità che altra autorità non poteva contraddire, similmente a quanto affermato dalla Chiesa cattolica romana riguardo al pontefice.
Kai'apha in aramaico significa 'indovino'.
Secondo il Levitico (VIII), il Signore aveva istituito un unico sommo sacerdote che doveva restare in carica a vita. In seguito, i giudei riadattarono la legge (come fecero per il divorzio inizialmente vietato), permettendo che vi fossero più di un sommo sacerdote che restassero tali a vita, anche se a coprire la carica era sempre un singolo sommo sacerdote: queste persone avevano il titolo ed esercitavano a turno tale dignità, uno ogni anno. Il Vangelo di Giovanni riporta in proposito "ma uno di loro di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno".
Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, libro XX, cap. 10) narra che l'imperatore romano nominava il sommo sacerdote del Tempio di Gerusalemme, e questi durava in carica al massimo per un anno; e che talora i sommi sacerdoti compravano questa carica col denaro, senza attribuire questo fatto a Caifa.
Il peccato pur grave di simonia, secondo la teologia cattolica, non farebbe comunque venire meno l'autorità e la dignità spirituale derivanti dalla carica di sommo sacerdote, a prescindere dalla mente e volontà del singolo.
Il sommo sacerdozio si trasmetteva di padre in figlio, o in assenza di figli, al fratello maggiore. Il primo regnante a nominare il sommo sacerdote fu la moglie di Alessandro Ianneo, Salomè Alessandra, che incaricò il figlio Giovanni Ircano II come sommo sacerdote (Libro XIII, 407-408) detenendo il ruolo di regina per nove anni, affidando ai Farisei il pieno dominio sulla regione. Dopo la morte della madre Salomè, Giovanni Ircano II le succedette, riunendo in se le cariche di Re e Sommo sacerdote, ma dopo tre mesi il fratello Aristobulo II gli si ribellò. Dopo la deposizione di Aristobulo da parte dei romani, Giovanni Ircano riprese la carica di Sommo Sacerdote e divenne anche etnarca della Giudea nel 47 a.C.
Nei racconti di Flavio, il sommo sacerdote è a volte anche capo della nazione giudaica, altrove è imparentato con il governatore romano della regione.
Nei Vangeli, Caifa viene nominato all'inizio della vita pubblica di Gesù e soprattutto durante la passione di Gesù.
Durante la passione di Gesù i Vangeli raccontano che Egli fu arrestato per iniziativa dei sommi sacerdoti e del Sinedrio, i quali pagarono Giuda perché lo tradisse. Dopo l'arresto, Gesù fu condotto prima da Anna e poi da Caifa. Non potendo il sommo sacerdote e il Sinedrio comminare la pena di morte, essi chiesero quindi al governatore romano Ponzio Pilato di condannare a morte il prigioniero.
Il nome di Caifa viene fatto in tutte le fonti biliche ad eccezione del Vangelo di Marco:
Vangelo di Matteo: Mt 26,3.57;
Vangelo di Giovanni: Gv 11,49; 18,13.14.24.28;
Vangelo di Luca: Lc 3,2
Atti degli Apostoli: At 4,6.
Il nome di Caifa non compare mai nel Vangelo di Marco, che si riferisce semplicemente al sommo sacerdote (Mc 14, 53.54.60.61.63). Ciò ha fatto ipotizzare al biblista Rudolf Pesch che il sommo sacerdote fosse ancora in carica all'epoca della stesura del racconto, che sarebbe quindi stato scritto prima del 37 d.C., in data precedente al periodo in cui sono collocati gli altri testi del Vangelo di Marco.
Nelle Antichità Giudaiche, scritte in greco ellenistico da Giuseppe Flavio, viene fatta menzione di "Giuseppe detto Caifa", mentre nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli si fa riferimento direttamente al nome Caifa, senza fare menzione del nome "Giuseppe" nelle due formule "Giuseppe detto Caifa", ovvero "Giuseppe bar Caifa" (Flavio riporta i nomi col patronimico ebraico "bar" o "ben").
Diversamente da quanto accade per il sacerdote Zaccaria, padre di Giovanni Battista, di cui il Vangelo di Luca riporta la classe sacerdotale (ottava, di Abìà), i 4 Vangeli non riportano la classe e la famiglia sacerdotale di appartenenza di Caifa.
Nel Vangelo secondo Luca, iniziando a presentare la vita pubblica di Gesù e cercando di inquadrare storicamente gli avvenimenti, si dice:
« Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zagaria, nel deserto » (Luca 3,1-2).
Dato che Tiberio governò dal 14 al 37 d.C., il Vangelo di Luca sostiene che Caifa era in carica come sommo sacerdote nell'anno decimoquinto di regno, tra il 26 e il 29 d.C.
In modo coerente, Giuseppe Flavio (e la prima e più antica copia delle Antichità Giudaiche pervenutaci tramite Eusebio) colloca Caifa come sommo sacerdote in carica per la prima volta nel 18 d.C., e destituito nel 37 d.C.
Nel Vangelo di Luca, sono dunque menzionati i sommi sacerdoti Anna e Caifa, come se avessero detenuto contemporaneamente questa carica, mentre in effetti Caifa era succeduto al suocero Anna nella carica di sommo sacerdote.
Tuttavia, secondo Giuseppe Flavio restava con ogni probabilità notevole l'influenza di Anania al suo tempo, come se di fatto a decidere fossero due sommi sacerdoti (Anna e Caifa). Da parecchi anni, un sommo sacerdote non era lasciato in carica per periodo così lungo, pari a 10 anni, oltre ad avere dato a Israele (caso unico nella storia) 5 sommi sacerdoti provenienti dalla stessa famiglia sacerdotale.
« Venuto a conoscenza della morte di Festo, Cesare inviò Albino come procuratore della Giudea. Il re poi allontanò Giuseppe dal sommo sacerdozio e gli diede come successore nell'ufficio il figlio di Anano, il quale si chiamava anch'egli Anano.
Del vecchio Anano si dice che fu estremamente felice; poiché ebbe cinque figli e tutti, dopo di lui, godettero di quell'ufficio per un lungo periodo, divenendo sommi sacerdoti di Dio; un fatto che non accadde mai ad alcuno dei nostri sommi sacerdoti»
(Antichità Giudaiche, Libro XX, 197-198)
Vangelo di Giovanni: « Allora il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei afferrarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno. Caifa poi era quello che aveva consigliato ai Giudei: "È meglio che un uomo solo muoia per il popolo" » (Giovanni, 18,12-14 [1])
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Ancora all'inizio degli Atti degli Apostoli, Caifa viene ricordato come sommo sacerdote insieme ad Anna e ad altri due personaggi di nome Giovanni ed Alessandro:
« Il giorno dopo si radunarono in Gerusalemme i capi, gli anziani e gli scribi, il sommo sacerdote Anna, Caifa, Giovanni, Alessandro e quanti appartenevano a famiglie di sommi sacerdoti. » (Atti 4,5-6)
Giuseppe Flavio
Di seguito, tutte le citazioni riguardanti Caifa, nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio:
«Quirino vendette i beni di Archelao, e nello stesso tempo ebbero luogo le registrazioni delle proprietà che avvennero nel trentasettesimo anno dalla disfatta di Azio, inflitta da Cesare ad Antonio. Essendo il sommo sacerdote Joazar sopraffatto da una sedizione popolare, Quirino gli tolse la dignità del suo ufficio e costituì sommo sacerdote Anano, figlio di Seth. (Anano: è il sommo sacerdote Anna che tenne il sommo sacerdozio dal 6 al 15 d.C., furono lui e Giuseppe, soprannominato Caifa, suo genero e sommo sacerdote dal 18 al 36 circa d. C. ad avere tanta parte nel tribunale che condannò Gesù. Dall'autorevole famiglia di Anna uscirono cinque sommi sacerdoti e fu in seguito annientata dagli Zeloti.»
(Antichità Giudaiche, Libro XVIII:26 - II, I)
«Dopo Cesare, salì sul trono Tiberio Nerone, figlio di sua moglie Giulia; egli inviò Valerio Grato a succedere ad Annio Rufo quale governatore sui Giudei. Grato depose Anano dal suo sacro ufficio e proclamò sommo sacerdote Ismaele, figlio di Fabi; dopo un anno lo depose e, in sua vece, designò Eleazaro, figlio del sommo sacerdote Anano. Dopo un anno depose anche lui e all'ufficio di sommo sacerdote designò Simone, figlio di Camitho. L'ultimo menzionato tenne questa funzione per non più di un anno e gli successe Giuseppe, che fu chiamato Caifa. Dopo questi atti Grato si ritirò a Roma dopo essere stato in Giudea per undici anni. Venne come suo successore Ponzio Pilato»
(Antichità Giudaiche, Libro XVIII, 33-35)
Quindi risulta:
sequenza di sommi sacerdoti: Joazar, Anano (Anania, Anna), Ismaele, Eleazaro, Simone, Caifa;
Eleazaro, figlio di Anna;
Caifa, genero di Anna, come nei Vangeli.
date:
Anna, dal 6 al 15 d.C.
Caifa, dal 18 al 36 d.C.
Caifa nel racconto non è un nome proprio di persona, ma il soprannome di tale Giuseppe (Giuseppe detto Caifa), citato senza il consueto patronimico ebraico bar ("figlio di") che è parte integrante dei nomi giudei (anche nelle genealogie dell'Antico Testamento).
La Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea commenta:
«Giuseppe (Flavio), nel medesimo libro delle Antichità (XVIII 34-35), enumera in ordine successivo i quattro Sommi Sacerdoti da Anna fino a Caifa, dicendo: «Valerio Grato tolse la carica sacerdotale ad Anna, figlio di (bar) Seth, e proclamò Sommo Sacerdote Ismaele, figlio di (bar) Fabi, ma non molto tempo dopo destituì anche lui e nominò Sommo Sacerdote Eleazaro, figlio del (bar) Sommo Sacerdote Anna. Trascorso un anno anche costui fu esautorato e la carica fu affidata a Simone, figlio di (bar) Kamith ed anche lui non la tenne per più d'un anno; fu suo successore Giuseppe, chiamato anche Caifa». "Dunque l'intera durata dell'insegnamento del nostro Salvatore, come appare evidente, non comprende quattro anni completi, e ci furono in questo periodo quattro Sommi Sacerdoti, da Anna fino a Caifa, uno per anno. E il Vangelo indicando Caifa come Sommo Sacerdote durante l'anno in cui si compì la passione di Cristo è nel vero. Da quanto ci dice e dall'osservazione precedente si può così stabilire la durata dell'insegnamento di Cristo"»
(Eusebio, HEc. I 10, 4/6)
Da qui, Eusebio, sovrapponibile agli altri manoscritti pervenuti di Giuseppe Flavio, colloca in circa 4 anni la durata della predicazione di Gesù.
In una piccola tomba di famiglia a sud di Gerusalemme, presso Peace Forest, sono stati rinvenuti nel 1990 vari ossari, di cui il più elaborato riporta l'iscrizione Yehoseph bar Qyph, "Giuseppe figlio di Caifa". All'interno erano conservate anche le ossa di Caifa.
Si tratta del primo ritrovamento archeologico riguardante il nome "Caifa", che sarebbe stato effettivamente un soprannome, come riportato da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche 23,35-39.
Struttura dell'inferno
Eugenio Caruso - 17 ottobre -2019