Platone, l'IPPIA MAGGIORE. Dialogo sull'idea del bello.Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone mi dedico ora all'Ippia maggiore. COMMENTO DELL'IPPIA MAGGIORE I personaggi dell?ippia Maggiore sono tre, due presenti sulla scena del dialogo, il terzo, evocato da Socrate da essere, a sua volta quasi visibile agli occhi del lettore. I tre personaggi sono: Ippia, Socrate e uno Sconosciuto, un anonimo, chiamato in causa dal filosofo con insistenza. Ippia era un famoso filosofo nativo di Elide, vissuto nella seconda metà del quinto secolo a.C. Dotato di memoria straordinaria, eresse ad arte sistematica la mnemotecnica; geniale, versatile, era anche caratterizzato da una sconfinata vanità e da un sensibile amore per la ricchezza; va poi ricordato che Ippia era un accanito sostenitore della " polimathìa ", ossia del sapore enciclopedico. Ippia nel dialogo é pieno di sè (proprio come nell' " Ippia Minore "), tracotante. Egli é erudito, dotato di svariate capacità e di notevoli abilità nello sfruttarle. Gli mancano tuttavia, forse nell'Ippia Maggiore ancora di più che nell' " Ippia Minore ", la finezza psicologica e l'intelligenza speculativa necessarie per seguire il ragionamento socratico, per superare il piano dell'esperienza e approdare a esiti qualitativamente diversiì. Ippia non coglie la differenza tra una cosa bella e il bello in sè, non capisce la vera natura dello Sconosciuto che tormenta Socrate. Il dialogo per lui si riduce ad una sorta di monologo, da cui emerge con le proprie certezze intatte e con molti dubbi sul modo di procedere di Socrate. Non é in grado di risolvere il problema posto da quest'ultimo, ma neppure é disponibile ad apprendere qualche cosa di nuovo e di diverso dalle bellezza. Interessante può risultare l'esame del "terzo personaggio anonimo", che si rende presente sulla scena lungo tutto lo svolgersi dell'opera, attraverso le parole di Socrate. Ma in fin dei conti chi é questo " Sconosciuto " o " anonimo " che dir si voglia ? Non é facile capirlo, ma le ipotesi avanzate sono molteplici; vi é chi sostiene che sia il demone di Socrate, chi dice che sia il Platone in fase di superamento del suo maestro, che però vuole dare la sua opinione senza interferire troppo; vi é poi chi dice che si tratti di un espediente artistico mediante il quale Platone opera una critica nei confronti di Ippia, evitando però di agire in prima persona e trasformando Socrate in un mediatore di messaggi. La seconda ipotesi pare la più attestata di tutte. Il dialogo si svolge ad Atene dove Socrate incontra il sofista in un modo che si può definire casuale. Non ci sono testimoni o particolari che possano aiutare a stabilire una precisa collocazione dell'evento nel tempo. L'autenticità dell'opera oggi pare assodata e non é messa in discussione. L'Ippia maggiore va collocato alla fine di una fase, per certi aspetti socratica, ma già proiettata verso acquisizioni del tutto nuove. Dopo aver fatto un confronto tra i grandi sapienti di un tempo (come Pittaco, Biante, gli appartenenti alla cerchia di Talete e quelli che li seguirono fino ad Anassagora), che si erano per lo più tenuti lontani dalla politica, e i sofisti, che invece nella politica vi sono fino al collo, dopo aver dimostrato il divario tra le tradizioni spartane e le dottrine sofistiche, Socrate tira in gioco il problema del bello. Socrate racconta di essere stato messo in crisi in un'occasione in cui parlava di cose belle e di cose brutte da un suo interlocutore (lo Sconosciuto che gli aveva chiesto " Come fai a distinguere ciò che é bello da ciò che é brutto? Che cosa é il bello? "; egli pone a sua volta la domanda a Ippia, che prontamente risponde "bella é una ragazza, un cavallo... "; ma Socrate non é soddisfatto della risposta: infatti non gli aveva chiesto di elencargli cose che avessero la caratteristica di essere belle, bensì gli aveva chiesto che cosa fosse il bello e in che modo fosse possibile distinguerlo dal brutto: una ragazza non é infatti il bello, essa può essere anche brutta e lo stesso vale per il cavallo. Socrate cerca di far capire a Ippia che se una ragazza é bella é perchè compartecipa all'idea di bellezza e pensa quasi di essere riuscito a mettere in crisi Ippia, che non può senz'altro negare ciò che gli dice Socrate; ma ecco che Ippia, a sorpresa, cita l'oro: " se uno cerca il bello, questo altro non é che l'oro: é impossibile confutare questa definizione! "; Socrate gli dice che se rispondesse così a quel tizio (lo Sconosciuto), egli non sarebbe comunque soddisfatto e potrebbe rispondere "Forse che Fidia, il famoso artista, ha effettuato brutti lavori solo perchè non si é servito dell'oro? "; ma Ippia, nonostante questa confutazione, si ostina a non riconoscere le idee e la loro dottrina, e tenta così un'altra definizione: " Il bello é vivere una vita lunga e felice "; Socrate si complimenta con Ippia per lo splendido stile in cui ha presentato la definizione, ma gli fa notare che lo sconosciuto davanti a essa si metterebbe a ridere e, se si trovasse mai un bastone tra le mani, percuoterebbe anche chi l'ha pronunciata: infatti é troppo generale come definizione: cosa vuol dire vivere felicemente? Per alcuni il vivere felicemente sarà lavorando, per altri no; ad alcuni piacerà vivere a lungo, ad altri no. Dopo di che prova Socrate a dare qualche definizione: il bello é il conveniente: il conveniente é ciò che aggiunto alle cose le fa sembrare belle, anche se magari non lo sono; quindi non é la definizione corretta: infatti si cerca il bello, non ciò che sembra bello. Socrate prova una seconda definizione: il bello é l'utile: gli occhi belli non sono certo quelli incapaci di vedere, ma piuttosto quelli che sono in grado di vedere e risultano utili a tale scopo. Lo stesso vale per gli occhi, le gambe e qualsiasi altra parte del corpo. Dunque utile é ciò che ha una certa capacità verso qualcosa e inutile ciò che non la possiede: la potenza é dunque una cosa bella e l'impotenza una cosa brutta; Ippia é d'accordissimo su quest'ultima definizione e dice " hai proprio ragione, o Socrate: tra i politici infatti l'avere potere é bello, il non averne no ". Pare che si sia trovata quindi la giusta definizione, ma Socrate non é ancora soddisfatto: uno non può fare qualcosa se non ne é in grado (chi lavora male, quindi, se non avesse il potere di farlo, non lo farebbe): i fanciulli fan più male che bene (pur non rendendosene conto ), e possono farlo perchè sono in grado, hanno il potere di farlo: dunque il ragionamento precedente cade: l'utile non é il bello. Socrate prova a dare una terza definizione: il bello é il piacere prodotto dalla vista e dall'udito: ma anche in questo caso Socrate non é soddisfatto, e dice che lo Sconosciuto lo sarebbe ancora di meno, che non potrebbe accettare tali risposte e il dibattito si conclude con la rinuncia alla soluzione del problema. Nei primi dialoghi, di cui L'Ippia Maggiore deve far parte, Platone aveva presentato l'indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni, ossia di risposte corrette alla domanda: "Che cos'è x ?"(dove x sta per bello, giusto...). Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l'idea in questione (per esempio l'idea di bellezza, di giustizia...).L'idea è dunque un "universale": ciò significa che i molteplici oggetti sensibili, dei quali l'idea si predica, dicendoli per esempio belli o giusti,sono casi o esempi particolari rispetto all'idea una bella persona o una bella pentola sono casi particolari di bellezza, non sono la bellezza.Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento, soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse;proprio questa differenza di livelli ontologici, ossia di consistenza di essere, qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. L'attività di un artigiano, per esempio di un costruttore di letti, è descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell' idea del letto, alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero. L'idea è quindi dotata di esistenza autonoma, nè dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata; essa è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano. IPPIA MAGGIORE TESTO SOCRATE: Ecco il bello e sapiente Ippia: (1) dopo quanto tempo sei giunto da noi ad Atene! IPPIA: è vero, Socrate, infatti non ne ho avuto il tempo, perché Elide, quando deve trattare con una città, si rivolge sempre a me per primo tra i cittadini, scegliendomi come ambasciatore, poiché mi considera colui che sa meglio giudicare e riferire i discorsi che debbano eventualmente essere pronunciati presso ciascuna città. Spesso pertanto ho portato ambascerie in altre città e in particolar modo a Sparta e riguardo a questioni assai numerose e veramente importanti. Perciò, cosa che tu chiedi, non frequento questi luoghi. SOCRATE: Ippia, appunto in tale condotta consiste l'essere un uomo veramente sapiente e perfetto. Tu infatti, prendendo privatamente molto denaro dai giovani, sei capace di procurare loro vantaggi ancora maggiori di quelli che ricevi e inoltre, in ambito pubblico, sei in grado di recare benefici alla tua città, come deve fare colui che vuole non essere disprezzato, ma godere di una buona reputazione agli occhi della gente. Ma Ippia, qual è mai il motivo per cui quegli antichi i cui nomi sono ritenuti importanti per la loro sapienza - cioè Pittaco, Biante, quelli della cerchia di Talete di Mileto e quelli che vennero dopo, fino ad Anassagora (2) - risultano tutti o per la maggior parte essersi tenuti in disparte dalle attività politiche? IPPIA: Perché credi, Socrate, se non perché non ne erano in grado ed erano incapaci di svolgere con competenza tanto le attività pubbliche quanto quelle private? SOCARTE: Per Zeus, forse dunque come le altre arti sono progredite e gli artigiani di un tempo sono meno bravi di quelli di oggi, così diciamo che anche la vostra tecnica di sofisti è progredita e che gli antichi sono inferiori a voi in sapienza? IPPIA: Parli in modo assolutamente corretto. SOCRATE: Se dunque ora Biante ci ritornasse in vita, Ippia, susciterebbe il vostro riso, così come Dedalo (3) sarebbe ridicolo - dicono gli scultori - se, rinato, producesse ora opere quali quelle grazie a cui conseguì la sua fama. IPPIA: Socrate, è così come dici: tuttavia io sono solito elogiare i nostri antichi predecessori prima e più dei contemporanei, per cautelarmi contro l'invidia dei viventi e per timore dell'ira dei morti. SOCRATE: Ippia, così mi sembra che tu parli e pensi bene. Posso confermarti che dici la verità e che veramente la vostra tecnica ha fatto progressi nella possibilità di occuparsi insieme delle questioni pubbliche e di quelle private. Infatti Gorgia, il sofista di Leontini, (4) venne qui dalla sua patria nella veste ufficiale di ambasciatore, poiché tra i Leontini era il più adatto a occuparsi dei comuni interessi e agli occhi del popoì o i suoi discorsi risultarono ottimi; in privato poi, facendo sfoggio di eloquenza e intrattenendosi con i giovani, ottenne e ricavò molte ricchezze da questa città. E se vuoi altre conferme, il nostro amico Prodico (5) spesso si è recato in veste ufficiale anche in altri luoghi, ma ultimamente, giunto qui da Ceo come ambasciatore, parlando nell'Assemblea ha ottenuto una grande fama e in privato, facendo sfoggio di eloquenza e intrattenendosi con i giovani, ha ricavato incredibili ricchezze. Nessuno di quegli antichi, invece, ha mai considerato giusto esigere un compenso in denaro né fare sfoggio della propria sapienza di fronte a uomini di ogni sorta: tanto erano ingenui e sfuggiva loro quale grande valore avesse il denaro. Sia Gorgia sia Prodico, invece, hanno ricavato dalla loro sapienza più denaro di quanto ne abbia ricavato qualunque artigiano da una qualsiasi attività: e ancora prima di costoro c'è stato Protagora. (6) IPPIA: Socrate, in realtà tu non conosci nessuna bella impresa in questo campo. Se infatti sapessi quanto denaro ho guadagnato io, ne resteresti stupefatto: tralascio il resto, ma una volta, recatomi in Sicilia, anche se lì soggiornava Protagora che ormai godeva di grande fama ed era avanti negli anni, mentre io ero molto giovane, guadagnai in breve tempo molto più di centocinquanta mine (7) e più di venti da un paese piccolissimo, Inico; ritornato a casa con questo guadagno, lo diedi a mio padre, cosicché egli e gli altri cittadini se ne meravigliarono e ne rimasero colpiti. E sono quasi sicuro di aver guadagnato più soldi io che due altri sofisti, quali tu voglia, messi insieme. SOCRATE: Ippia, tu dai una gran bella prova della tua sapienza e di quanto i contemporanei siano superiori agli antichi. Dunque, secondo il tuo ragionamento, grande era l'ignoranza dei primi: infatti si dice che ad Anassagora sia accaduto il contrario di ciò che è accaduto a voi perché, anche se gli furono lasciate in eredità molte ricchezze, egli non se ne curò e perse tutto - tanto stoltamente egli aveva agito! -, ma si dicono cose simili anche su altri antichi. Pertanto mi sembra che tu dia una bella prova della sapienza dei contemporanei rispetto ai predecessori e tutti sono dell'avviso che il sapiente stesso deve essere sapiente soprattutto a proprio vantaggio: quindi definizione di costui è quella di colui che guadagna moltissimo denaro. Per quanto riguarda l'argomento, questo basti; e dimmi, tu in quale delle città in cui sei stato hai guadagnato più denaro? O forse è chiaro che si tratta di Sparta, dove ti sei recato più volte? IPPIA: Per Zeus no, Socrate. SOCRATE: Come dici? Ma hai guadagnato molto meno lì ? IPPIA: Assolutamente nulla, mai. SOCRATE: Tu dici cose incredibili e che lasciano stupefatti, Ippia. E dimmi, forse la tua sapienza non è in grado di rendere migliori coloro che entrano in contatto con essa e la apprendono ai fini della virtù? IPPIA: Sì che ne è in grado, e molto, Socrate! SOCRATE: E tu allora eri in grado di rendere migliori i figli degli Iniceni ma non eri in grado di farlo con i figli degli Spartiati? IPPIA: Sei lontano dalla verità. SOCRATE: Ma allora i Sicelioti desiderano diventare migliori e gli Spartani no? IPPIA: Anche li partani lo desiderano, Socrate, ne sono sicuro. SOCRATE: Allora evitavano le tue lezioni per mancanza di denaro? IPPIA: Assolutamente no, dal momento che ne possiedono a sufficienza. SOCRATE: Come mai allora potrebbe spiegarsi il fatto che, anche se essi lo desideravano e avevano il denaro e sebbene tu potessi recare loro i più grandi vantaggi, non ti abbiano congedato pieno di denaro? Ma allora il motivo è forse che gli Spartani potrebbero educare i loro figli meglio di te? Forse dobbiamo dire questo e tu sei d'accordo? IPPIA: Niente affatto. SOCRATE: Dunque a Sparta non eri in grado di persuadere i giovani del fatto che, frequentando te più dei propri concittadini, avrebbero fatto progressi nel cammino verso la virtù, o non eri capace di convincere i loro padri ad affidarli a te piuttosto che occuparsene essi stessi, se appunto avevano a cuore i propri figli? Infatti certo non impedivano ai propri figli di migliorarsi il più possibile. IPPIA: Non credo che lo impedissero. SOCRATE: Ma Sparta è ben governata. IPPIA: Come no? SOCRATE: E nelle città ben governate la virtù è la cosa più apprezzata. IPPIA: Certo. SOCRATE: E tu sai trasmettere l'insegnamento di questa a un altro meglio di tutti. IPPIA: Molto meglio, Socrate. SOCRATE: Dunque colui che sa insegnare meglio l'ippica non sarebbe forse assai apprezzato e non guadagnerebbe moltissimo denaro soprattutto in Tessaglia d'Ellade e dovunque questa specialità fosse presa sul serio? IPPIA: Naturalmente. SOCRATE: Allora chi sa trasmettere insegnamenti validissimi per il perseguimento della virtù non sarà apprezzato e guadagnerà moltissimo denaro, se vuole, soprattutto a Sparta e in un'altra città che, tra quelle greche, sia ben governata? In Sicilia e a Inico, amico mio, credi che avrebbe più possibilità? Dobbiamo convincerci di questo, Ippia? Se lo ordini tu, bisogna crederci. IPPIA: Socrate, per gli Spartani non è patrio costume cambiare le leggi né educare i figli contro le tradizioni. SOCRATE: Come dici? Per gli Spartani non è costume patrio agire correttamente ma sbagliare? IPPIA: Non direi, Socrate. SOCRATE: Forse dunque non agirebbero correttamente educando meglio e non peggio i figli? IPPIA: Correttamente, ma per loro non è conforme alle leggi impartire un'educazione straniera, poiché, sappilo bene, se mai un altro avesse guadagnato del denaro là educando, anch'io avrei guadagnato moltissimo - almeno quando ascoltano me provano gioia e mi applaudono - ma, cosa che dico, è contro le leggi. SOCRATE: Ippia, tu ritieni che la legge sia a danno o a vantaggio della città? IPPIA: La legge è stabilita, credo, a vantaggio, ma talvolta arreca anche danno, se è mal posta. SOCRATE: Ma come? Coloro che stabiliscono la legge non la stabiliscono come bene massimo per la città? E senza di questa non è forse impossibile governarla bene? IPPIA:: Dici il vero. SOCRATE: Quando dunque coloro che si occupano di stabilire le leggi non ottengono il bene, non hanno ottenuto ciò che è legale e conforme a giustizia; oppure tu la pensi diversamente? IPPIA: Socrate, secondo il giusto ragionamento è così, ma gli uomini non sono certamente soliti pensarla in questo modo. SOCRATE: Quelli che sanno o quelli che non sanno, Ippia? IPPIA: I più. SOCRATE: I più: ma sono costoro i depositari della verità? IPPIA: No di certo. SOCRATE: Ma certo quelli che sanno ritengono ciò che è più utile veramente più conforme alla legge per tutti gli uomini di ciò che è più dannoso; o non sei d'accordo? IPPIA: Sì, sono d'accordo, le cose stanno veramente così. SOCRATE: Dunque le cose stanno così come ritengono coloro che sanno? IPPIA: Certamente. SOCRATE: Per gli Spartani, come tu dici, è più utile che sia impartita la tua educazione, anche se straniera, piuttosto che quella tradizionale? IPPIA: E dico la verità. SOCRATE: E quindi sostieni anche questo, Ippia, che le cose più utili sono quelle più legali? IPPIA: L'ho detto. SOCRATE: Allora secondo il tuo ragionamento è più conforme alla legge per i figli degli Spartani essere educati da Ippia e meno conforme essere educati dai loro padri, se realmente riceveranno più vantaggi da te. IPPIA: Ma certamente riceveranno più vantaggi, Socrate. SOCRATE: Pertanto gli Spartani, poiché non ti danno denaro e non ti affidano i loro figli, trasgrediscono le leggi. IPPIA: Sono d'accordo con queste considerazioni: infatti mi sembra che il tuo discorso mi sia favorevole e non c'è assolutamente necessità che io mi opponga ad esso. SOCRATE: Dunque, amico mio, troviamo i Laconi trasgressori delle leggi, e questo in ambiti di vitale importanza, anche se sembrano i più osservanti la legge. Per gli dèi, Ippia, ti applaudono e provano piacere ad ascoltare che cosa? Forse è evidente che ascoltano con piacere gli argomenti che sai meglio, cioè quelli che riguardano gli astri e i fenomeni celesti? IPPIA: Assolutamente no, neppure li sopportano questi argomenti. SOCRATE: Ma provano piacere ad ascoltarti sulla geometria? IPPIA: Proprio no, perché molti di loro, per così dire, nemmeno sanno contare. SOCRATE: Allora sono ben lontani dal sopportare te che tieni lezione sui calcoli. IPPIA: Certamente molto lontani. SOCRATE: Ma allora quelle distinzioni che tu sai fare in modo più esatto di tutti, sulla combinazione delle lettere, delle sillabe, dei ritmi, delle armonie? IPPIA: Quali armonie e lettere, caro mio? SOCRATE: Ma allora cos'è che ascoltano volentieri da te e che applaudono? Dimmelo tu, perché io non riesco a trovarlo. IPPIA: Le stirpi degli uomini e degli eroi, Socrate, e le fondazioni, cioè come anticamente furono fondate le città, e in generale ascoltano assai volentieri tutta l'archeologia, sicché a causa loro io mi sono visto costretto ad apprendere e a occuparmi di tutti gli argomenti appartenenti a questa sfera. SOCRATE: Per Zeus, Ippia, sei stato fortunato che gli Spartani non provino piacere a sentir enumerare da qualcuno i nostri arconti a partire da Solone, (8) altrimenti avresti dovuto impararli. IPPIA: Come, Socrate? Anche se ho sentito una sola volta cinquanta nomi, riesco a ricordarli. SOCRATE: Dici il vero, ma io non ho riflettuto sul fatto che possiedi l'arte della memoria; sicché penso che a ragione gli Spartani provino piacere con te, poiché sai molte cose, e ricorrano a te per il racconto di favole gradevoli, come i ragazzi ricorrono alle donne anziane. IPPIA: Sì per Zeus, Socrate. Anche recentemente mi sono messo in luce a Sparta esponendo le occupazioni che il giovane deve praticare, sulle quali io ho un discorso composto ad arte e inoltre dotato di una buona disposizione delle parole: questa è l'introduzione e l'inizio del mio discorso. Dopo che Troia fu conquistata, la storia narra che Neottolemo (9) avesse domandato a Nestore (10) quali fossero le belle occupazioni che un giovane dovesse praticare per acquisire una grandissima fama; dopo queste parole è Nestore a parlare e a suggerirgli moltissime occupazioni degne e molto belle. Anche a Sparta io ho letto questo discorso e lo leggerò qui tra tre giorni, nella scuola di Feidostrato, (11) e leggerò molte altre cose degne di essere udite, poiché me lo ha chiesto Eudico, (12) figlio di Apemanto. Bada di essere presente anche tu e conduci altri che, ascoltando, siano in grado di giudicare quanto si dirà. SOCRATE: Ma sarà così, se il dio lo vuole. Ippia, ora dunque rispondimi in breve su una cosa che mi hai fatto ricordare al momento giusto. Recentemente, carissimo, in alcune discussioni, mentre biasimavo alcune azioni come vergognose e ne elogiavo altre come belle, un tale mi mise in difficoltà facendomi pressapoco questa domanda con molta arroganza: «Socrate», disse, «dimmi, come sai quali cose sono belle e quali brutte? Suvvia, potresti dire cos'è il bello?». E io a causa della mia ignoranza mi trovai in difficoltà e non seppi rispondergli a modo; dunque, allontanandomi dalla discussione, ero arrabbiato con me stesso, mi rimproveravo e mi ripromettevo che, la prima volta che mi fossi imbattuto in qualcuno di voi sapienti, dopo aver ascoltato e imparato con molta attenzione, sarei andato di nuovo da colui che mi aveva interrogato per ricominciare la discussione. Ora dunque, cosa che appunto dico, giungi al momento opportuno: insegnami in maniera adeguata che cosa è il bello e cerca di parlare nel modo più esatto possibile rispondendomi, perché io non mi renda nuovamente ridicolo con il farmi confutare per la seconda volta. Infatti tu chiaramente certo lo sai e questo, credo, sarebbe un piccolo insegnamento tra i molti che conosci. IPPIA: Piccolo davvero, per Zeus, e senza importanza, per così dire. SOCRATE: Allora io lo apprenderò facilmente e nessuno mi confuterà più. IPPIA: Certo, nessuno, perché il mio compito altrimenti sarebbe insignificante e da ignoranti. SOCRATE: Dici bene, per Era, Ippia, se vinceremo quell'uomo. Ebbene, non ti sono d'ostacolo se lo imito, qualora, mentre rispondi, io muova delle obiezioni ai tuoi discorsi, perché tu riesca a istruirmi quanto più è possibile? Infatti ho una certa esperienza nel contraddire. Se dunque non ti importa, voglio fare delle obiezioni, per impadronirmi del sapere in modo più saldo. IPPIA: Fai pure delle obiezioni. Infatti, cosa che ho appena detto, la domanda non è impegnativa e io potrei insegnarti a rispondere a domande ben più difficili di questa e in modo tale che nessuno potrebbe confutarti. SOCRATE: Oh come parli bene. Su, poiché anche tu lo chiedi, tenterò di interrogarti immedesimandomi quanto più è possibile in lui. Se infatti tu gli leggessi questo discorso di cui parli, cioè quello che riguarda le belle occupazioni, dopo averlo udito, non appena tu smettessi di parlare, egli non interrogherebbe su altro prima che sul bello - infatti ha questa abitudine - e direbbe: «Straniero di Elide, forse i giusti non sono giusti per la loro giustizia?». Rispondi, Ippia, come se fosse lui a interrogarti. IPPIA: Risponderò che sono giusti per la loro giustizia. SOCRATE: «E la giustizia non è qualcosa?» IPPIA: Certo. SOCRATE: «E anche i sapienti non sono forse sapienti per la loro sapienza e tutti i beni non sono beni per il bene?» IPPIA: Come no? SOCRATE: «Perché queste cose sono qualcosa e non certo perché non lo sono». IPPIA: In quanto lo sono, certo. SOCRATE: «Dunque allora anche tutte le cose belle non sono belle per il bello?» IPPIA: Certo, per il bello. SOCRATE: «Che è qualcosa?» IPPIA: Lo è: perché no? SOCRATE: «Dimmi allora, straniero», chiederà: cos'è questo bello?» IPPIA: Socrate, dunque colui che fa questa domanda cos'altro ha bisogno di sapere salvo che cosa è bello? SOCRATE: Non mi sembra, ma che cosa è il bello, Ippia. IPPIA: E quale differenza c'è tra le due cose? SOCRATE: Ti sembra che non ce ne sia nessuna? IPPIA: Infatti non c'è. SOCRATE: Ma è certo chiaro che la questione la conosci più a fondo, tuttavia, caro mio, rifletti: infatti ti chiede non che cosa sia bello ma che cosa sia il bello. IPPIA: Capisco, caro mio, e gli risponderò che cosa è il bello e non sarò mai confutato. Infatti, Socrate, sappi bene che, se occorre dire la verità, una bella ragazza è una cosa bella. SOCRATE: Per il cane, Ippia, hai risposto bene, anzi eccellentemente. Forse, se io rispondo in questo modo, avrò risposto correttamente alla domanda e non sarò mai confutato? IPPIA: Socrate, come potresti essere confutato su ciò che è condiviso da tutti e di cui tutti coloro che ascoltano confermeranno che parli correttamente? SOCRATE: E sia: senza dubbio le cose stanno così. Su, Ippia, imparo tra me e me ciò che dici. Egli mi interrogherà pressapoco così: «Su Socrate, rispondimi: tutte queste cose che tu dici essere belle sarebbero belle dal momento che esiste il bello in sé?». Io dunque gli risponderò che se una bella fanciulla è una cosa bella, esiste ciò per cui queste cose sarebbero belle? IPPIA: Credi dunque che egli tenterà ancora di confutarti provando che non è bello ciò che dici o forse, qualora tentasse di farlo, non si renderebbe ridicolo? SOCRATE: So bene che tenterà, ammirabile amico, e se dopo averci provato risulterà ridicolo, saranno le circostanze stesse a mostrarlo. Voglio riferirti ciò che certamente dirà. IPPIA: Parla. SOCRATE: «Come sei piacevole», dirà, «Socrate. Non è una cosa bella una bella cavalla, che anche il dio ha lodato nell'oracolo?».(13) Cosa diremo, Ippia? Non dobbiamo forse ammettere che anche la cavalla, almeno quella bella, è cosa bella? Infatti come oseremmo dire che il bello non è bello? IPPIA: Dici il vero, Socrate; dunque anche il dio ha parlato correttamente, poiché da noi ci sono cavalle veramente belle. SOCRATE: «Bene», dirà. «E una bella lira? Non è una cosa bella?» Dobbiamo ammetterlo, Ippia? IPPIA: Certo. SOCRATE: Quindi egli dirà ciò - ne sono quasi sicuro poiché lo intuisco dal suo carattere -: «Carissimo, e una bella pentola? Non è forse una cosa bella?». IPPIA: Socrate, chi è costui? Come è rozzo uno che osa pronunciare parole così volgari in un contesto serio! SOCRATE: Ippia, è una persona così, non un tipo raffinato, al contrario, un grossolano, uno che non si proccupa di nulla all'infuori della verità. Ma tuttavia bisogna rispondergli e io dico la mia: se la pentola è stata fatta da un bravo vasaio, è liscia, rotonda e ben cotta, come lo sono alcune belle pentole a due anse che contengono sei congi,(14) bellissime, se domandasse com'è una pentola simile, bisogna ammettere che è bella. Infatti come potremmo dire che ciò che è bello non è bello? IPPIA: In nessun modo, Socrate. SOCRATE: «Anche una pentola bella non è forse una bella cosa?», dirà. «Rispondi». IPPIA: Le cose stanno così, credo, Socrate: anche questo oggetto quando è ben fatto è bello, ma nel suo insieme non è giusto giudicarlo bello in paragone a un cavallo, a una fanciulla e a quanto di bello ancora vi sia. SOCRATE: E sia; capisco, Ippia, che occorre muovere obiezioni di questo tipo a colui che fa domande del genere: «Uomo, tu ignori quanto sia giusto il detto di Eraclito (15) "La scimmia più bella è brutta al confronto con il genere umano" (16) e la pentola più bella è brutta al paragone con il genere femminile, come dice Ippia il sapiente». La cosa non sta forse in questi termini, Ippia? IPPIA: Certo, Socrate, hai risposto correttamente. SOCRATE: Ascolta, ora. So bene che dopo queste parole dirà: «E allora, Socrate? Se si paragona il genere femminile a quello degli dèi, non accadrà la stessa cosa che al genere delle pentole paragonato a quello delle ragazze? La fanciulla più bella non sembrerà brutta al confronto con gli dèi? Non dice forse la stessa cosa anche Eraclito, che tu citi: "Il più sapiente degli uomini, paragonato al dio, sembrerà una scimmia in sapienza, in bellezza e in tutte le altre qualità"?».(17) Ippia, concorderemo sul fatto che la fanciulla più bella, paragonata al genere degli dèi, è brutta? IPPIA: Sì, infatti chi potrebbe contraddire questo, Socrate? SOCRATE: E quindi, se ammettiamo questo, egli riderà e dirà: «Socrate, ti ricordi di ciò che ti ho chiesto?». Io risponderò di sì, mi ha domandato cos'è mai il bello in sé. «Quindi», dirà, «interrogato sul bello rispondi che è ciò che, come tu stesso dici, non è più bello che brutto?». Risponderò che così pare; o quale risposta mi consigli di dare, amico mio? IPPIA: Questa: e infatti dirà la verità affermando che il genere umano non è bello se paragonato agli dèi. SOCRATE: «Se al principio ti avessi domandato», continuerà a dire, «cosa è bello e cosa è brutto, se tu mi avessi dato le risposte che hai dato ora, non avresti forse risposto correttamente? E ancora, ti pare che il bello in sé, per cui tutte le altre cose ricevono ornamento e appaiono belle, qualora si aggiunga quell'idea, sia una ragazza o un cavallo o una lira?». IPPIA: Ma Socrate, se cerca questo è la cosa in assoluto più facile rispondergli cos'è il bello, per il quale anche tutte le altre cose ricevono ornamento e appaiono belle, quando esso vi si aggiunge. Dunque egli è del tutto stupido e non è un intenditore di cose belle; infatti se gli rispondi che il bello su cui ti interroga non è altro che l'oro, si troverà in difficoltà e non tenterà di confutarti, poiché tutti, credo, sappiamo che l'oggetto a cui si aggiunga l'oro, anche se prima appariva brutto, sembrerà bello in quanto ornato d'oro. SOCRATE: Tu non sai, Ippia, quanto quell'uomo sia cocciuto e non accetti nulla con facilità. IPPIA: E allora, Socrate? Infatti egli deve necessariamente accettare ciò che è detto correttamente, altrimenti, se non lo accetta, si renderà ridicolo. SOCRATE: Non solo, carissimo, non accetterà questa risposta, ma mi prenderà anche in giro, e molto, e dirà: «Cieco che non sei altro, pensi che Fidia sia un artista scadente?». E io, credo, gli risponderò che non lo penso assolutamente. IPPIA: E dirai bene, Socrate. SOCRATE: Bene, certo. Perciò egli, se io ammetto che Fidia (18) è un buon artista, dirà: «E allora credi che Fidia ignorasse questo bello di cui tu parli?». Gli domanderò il perché della domanda e lui risponderà: «Perché non ha fatto d'oro gli occhi d'Atena né il resto del volto o i piedi e le mani; se appunto la sua statua fosse stata d'oro sarebbe apparsa bellissima, invece è d'avorio. Evidentemente ha commesso l'errore per ignoranza, poiché non sapeva che l'oro rende bello tutto ciò a cui venga aggiunto». Pertanto, a chi dice queste cose che possiamo rispondere, Ippia? IPPIA: Non è difficile, infatti diremo che Fidia ha lavorato bene, poiché anche l'avorio, credo, è bello. SOCRATE: «Dunque per quale motivo», chiederà, «non ha fatto d'avorio anche lo spazio tra gli occhi, ma di pietra, anche se aveva trovato una pietra somigliante quanto mai all'avorio? O forse anche la pietra bella è una cosa bella?». Lo diremo, Ippia? IPPIA: Lo diremo, certo, almeno quando la pietra sia usata in modo appropriato. SOCRATE: «Quando non è usata in modo appropriato è una cosa brutta?». Devo ammetterlo o no? IPPIA: Ammettilo quando non è usata in modo appropriato. SOCRATE: «E allora? L'avorio e l'oro», dirà, «tu che sei sapiente, quando sono usati in modo appropriato, fanno apparire belle le cose e, quando non lo sono, le fanno apparire brutte?». Negheremo o ammetteremo con lui che parla correttamente? IPPIA: Ammetteremo questo, che ciò che a ogni cosa si trovi a essere appropriato, la rende bella. SOCRATE: «Dunque», dirà, «quando uno mette sul fuoco la pentola di cui parlavamo poco fa, quella bella, piena di buon passato, è appropriato a essa un mestolo d'oro o uno di legno di fico?». IPPIA: Per Eracle, di che razza di uomo parli, Socrate? Non vuoi dirmi chi è? SOCRATE: Anche se ti dicessi il nome, comunque non sapresti chi è. IPPIA: Ma ora io so che è un ignorante. SOCRATE: Ippia, è assai molesto: comunque, che gli diremo? Quale dei due mestoli è adatto al passato e alla pentola? Non è forse chiaro che è quello di legno? Infatti, credo, rende più saporito il passato e nel contempo, amico mio, verserebbe il passato non facendoci rompere la pentola, non spegnerebbe il fuoco e non farebbe restare i banchettanti privi dì un ottimo cibo. Invece quello d'oro causerebbe tutti questi disastri, sicché a me sembra che noi dobbiamo ammettere che è più appropriato il mestolo di legno rispetto a quello d'oro, se non hai nulla da aggiungere. IPPIA: No, infatti, Socrate, mi sembra appropriato: io certo però non discuterei con un uomo che fa simili domande. SOCRATE: Dici bene, caro mio: infatti per te non sarebbe conveniente sporcarti con simili parole, poiché sei così ben vestito, hai bei calzari, godi di una buona fama per la tua sapienza presso tutti i Greci. A me, invece, non dà assolutamente fastidio avere a che fare con lui: pertanto istruiscimi prima e rispondi per me: «Se dunque il mestolo di legno è più appropriato di quello d'oro», egli dirà, «non sarebbe forse anche più bello, dal momento che, Socrate, hai ammesso che ciò che è appropriato è più bello di ciò che non è appropriato?». Ippia, non dobbiamo forse ammettere che il mestolo di legno e più bello di quello d'oro? IPPIA: Vuoi che io ti dica, Socrate, che cosa devi dire che è il bello per liberarti dai troppi discorsi? SOCRATE: Certo, tuttavia non prima di avermi detto quale dei due mestoli di cui testé parlavamo io devo rispondere essere appropriato e più bello. IPPIA: Ma se vuoi, rispondigli che è quello fatto di legno di fico. SOCRATE: Ora di' quello che poco fa stavi per dire. Infatti con questa risposta, se dico che il bello è l'oro, mi sembra che l'oro non risulterà assolutamente più bello del legno di fico; ma ora, cosa dici essere il bello? IPPIA: Io te lo dirò. A me sembra che tu cerchi di trovare come risposta a cos'è il bello una cosa tale che a nessuno mai in nessun caso sembrerà brutta. SOCRATE: Certo Ippia, ora tu comprendi. IPPIA: Ascolta, dunque, e dopo sappi che, se qualcuno ha qualcosa da obiettare, puoi dire che io non ho alcuna competenza. SOCRATE: Dillo il più in fretta possibile, per gli dèi. IPPIA: Io appunto dico che sempre, per ognuno e in ogni dove, la cosa più bella per un uomo è essere ricco, in salute, onorato dagli Elleni, arrivare alla vecchiaia dopo aver dato onorata sepoltura ai propri genitori ed essere sepolto bene e con magnificenza dai propri discendenti. SOCRATE: Ippia, hai parlato in modo magnifico, meraviglioso e degno dite. Per Era, io ti ammiro perché mi sembra che tu sia benevolo nel venirmi in aiuto, per quanto ti è possibile; tuttavia non riusciamo a soddisfare quell'uomo, sappilo bene: riderà di noi ancora di più. IPPIA: Socrate, rida pure a sproposito: infatti, se non ha nulla da dire a queste osservazioni e ride, riderà di se stesso e sarà deriso anche dai presenti. SOCRATE: Probabilmente è così, tuttavia forse per questa risposta, come io prevedo, non si limiterà solo a deridermi. IPPIA: Ma perché? SOCRATE: Perché se dovesse avere un bastone e io non ce la facessi a sfuggirgli, tenterà di colpirmi riuscendoci. IPPIA: Come dici? Egli è forse il tuo padrone e, comportandosi in questo modo, non sarà condotto in giudizio e condannato? Forse la vostra città non è giusta e permette che i cittadini si colpiscano a vicenda ingiustamente? SOCRATE: Non lo permette assolutamente. IPPIA: Dunque sconterà una pena se ti colpisce ingiustamente. SOCRATE: Non mi sembra, Ippia, no: se gli rispondo in questo modo credo che lo farà giustamente. IPPIA: Lo penso anche io, Socrate, se tu stesso ci credi. SOCRATE: Vuoi forse che ti dica anche per qual motivo io credo di essere picchiato giustamente dando queste risposte? O anche tu mi picchierai senza giudicarmi? O mi concederai di parlare? IPPIA: Socrate, sarebbe terribile se non ti concedessi di parlare. Ma come vuoi parlare? SOCRATE: Ti parlerò nello stesso modo in cui ti ho parlato poco fa imitando quell'uomo, per non dirti le parole severe e aspre che egli mi dirà. Infatti, sappi, dirà: «Dimmi, Socrate, credi che riceveresti ingiustamente le percosse se, intonando in modo così stonato un ditirambo tanto solenne, eludessi la domanda?».(19) Io chiederò cosa intende dire e lui continuerà: «Come? Non riesci a ricordarti che io ti chiedevo il bello in sé, che fa essere bello tutto ciò a cui si aggiunge, pietra e legno, uomo e dio, ogni azione e materia? Io domando, uomo, cos'è la bellezza in sé e non riesco a farmi udire da te più che se tu per me fossi pietra e una macina che non ha né orecchie né cervello». Se io, dunque, spaventato, rispondessi così a queste parole, forse non ti irriteresti, Ippia? Ma Ippia ha detto che questo è il bello: eppure gli chiedevo, così come tu a me, ciò che è bello per tutti e sempre. Come dici dunque? Non ti arrabbieresti se parlassi in questo modo? IPPIA: So bene, Socrate, che quanto ho detto è e parrà bello a tutti. SOCRATE: «E lo sarà anche?», chiederà. «Infatti, credo, il bello è sempre bello». IPPIA: Certo. SOCRATE: «E dunque lo era anche?», chiederà. IPPIA: Lo era anche. SOCRATE: Continuerà: «Anche per Achille (20) l'ospite di Elide diceva che è bello essere sepolti dopo i propri progenitori e ciò vale anche per suo nonno Eaco, per gli altri che sono nati dagli dèi e per gli dèi stessi?». IPPIA: Che è questo? Mandalo alla malora. Queste sue domande, Socrate, non sono lecite. SOCRATE: Perché? Rispondere all'altro che interroga: «Le cose stanno così » non è del tutto illecito? IPPIA: Forse. SOCRATE: «Forse dunque sei tu», dirà, «che affermi che per ognuno e sempre è bello essere sepolti dai propri discendenti ed è bello seppellire i propri genitori: uno tra tutti non era forse Eracle (21) e tutti coloro di cui parlavamo poco fa?». IPPIA: Ma io non dicevo che fosse bello per gli dèi. SOCRATE: «Neppure per gli eroi, a quanto sembra». IPPIA: Non per quanti erano figli di dèi. SOCRATE: «E per quanti non lo erano?» IPPIA: Certo. SOCRATE: «E dunque, secondo il tuo ragionamento, a quanto sembra, è cosa terribile, empia e brutta per gli eroi come Tantalo, Dardano e Zeto, (22) mentre è una cosa bella per Pelope (23) e per gli altri generati così ?» IPPIA: A me pare. SOCRATE: Dirà: «Allora a te non sembra che la cosa stia nei termini in cui la esponevi prima, ma che l'essere sepolto dai propri discendenti dopo aver seppellito i propri genitori talvolta e per alcuni è brutto; e inoltre a maggior ragione, come sembra, è impossibile che questo sia stato e sia bello per tutti, sicché ciò, come anche quegli esempi fatti precedentemente, cioè quelli della ragazza e della pentola, è soggetto alla stessa osservazione, anzi, - e la cosa è ancora più ridicola -, per alcuni è bello e per altri no. Anche ora», dirà, «non sei ancora in grado, Socrate, di rispondere a ciò che ti ho domandato, cioè cos'è il bello.» A ragione mi farà rimproveri di questo tipo e altri simili, se io gli rispondo così. Ippia, per lo più egli discute in questo modo con me; talvolta invece, quasi avesse compassione della mia inesperienza e della mia ignoranza, mi dà suggerimenti lui stesso, domandandomi se mi pare che il bello sia proprio questo, o anche riguardo a qualche altra questione sulla quale per caso si trovi a interrogarmi e su cui il discorso sia incentrato. IPPIA: Come puoi dire questo, Socrate? SOCRATE: Te lo dirò. «Caro Socrate», dice, «cessa di dare risposte di questo tipo - infatti sono scontate e facilmente confutabili - ma considera ciò, se ti sembra che sia bello ciò che abbiamo preso in esame anche poco fa nella tua risposta, quando dicevamo che l'oro è bello per gli oggetti ai quali è appropriato e non è bello per gli oggetti ai quali non lo è, e questo vale per tutti gli altri oggetti nei quali esso sia presente. E considera ciò che è appropriato in sé e laa natura, se possa essere questo il bello». Io sono solito ogni volta confermare simili osservazioni, perché non so cosa dire. Ma a te, dunque, sembra che ciò che è appropriato sia bello? IPPIA: Senza dubbio, Socrate. SOCRATE: Prendiamolo in esame, per non sbagliarci. IPPIA: Sì, bisogna prendere in esame la questione. SOCRATE: Dunque osserva: diciamo forse che l'appropriato è ciò che, quando è presente, fa sì che ogni cosa in cui è presente risulti bella o è ciò che la fa essere bella o non è nessuna di queste cose? IPPIA: A me sembra che sia ciò che fa risultare belle le cose, come quando qualcuno indossa un mantello o dei calzari ben accostati nei colori: anche se è ridicolo, sembra più bello. SOCRATE: Dunque se l'appropriato fa apparire una cosa più bella di quello che è, sarebbe un inganno sulla bellezza; e non sarebbe questo ciò che cerchiamo, Ippia? Infatti noi in certo modo cercavamo ciò per cui tutte le cose belle sono belle, come ciò per cui tutte le cose grandi sono grandi è ciò che eccede la misura, poiché per questo tutte le cose sono grandi e, qualora ciò che eccede non appaia, le cose supererebbero comunque la misura, ed esse sono necessariamente grandi. Così, diciamo, anche il bello, per il quale tutte le cose belle sono belle, sia che risultino esserlo sia che non risultino esserlo, che cosa sarebbe? Infatti non sarebbe l'appropriato, poiché fa apparire una cosa più bella di quello che è, come afferma il tuo discorso, e non la lascia apparire quale essa è. Invece bisogna cercare di dire cosa è che fa essere belle le cose, risultino o non risultino tali, come appunto dicevo poco fa: questo infatti cerchiamo, se cerchiamo il bello. IPPIA: Ma Socrate, l'appropriato con la sua presenza fa essere e apparire belle le cose. SOCRATE: Dunque è impossibile che le cose che sono veramente belle non appaiono belle, se è presente ciò che le fa apparire? IPPIA: è impossibile. SOCRATE: Pertanto, Ippia, ammetteremo questo, che tutte le cose veramente belle, le consuetudini e le occupazioni sono ritenute belle da tutti e appaiono sempre belle a tutti o, al contrario, non sono riconosciute e riguardo a esse più che su tutto il resto nascono contesa e lotta, privatamente per i singoli, pubblicamente per le città? IPPIA: è così, piuttosto, Socrate: non sono riconosciute. SOCRATE: Non potrebbe accadere, se in esse fosse presente la capacità di apparire; e sarebbe presente se l'appropriato fosse il bello e non solo facesse essere belle le cose, ma le facesse anche apparire belle. Sicché l'appropriato, se è ciò che fa essere belle le cose, potrebbe essere il bello che noi cerchiamo, ma non è ciò che le fa apparire belle. Se invece l'appropriato è ciò che le fa apparire belle, non sarebbe il bello che cerchiamo. Infatti quello le fa essere, ma la stessa cosa non potrebbe mai fare apparire e fare essere le cose non solo belle, ma neppure nient'altro. Dunque scegliamo quale delle due cose sembra essere l'appropriato, ciò che fa apparire belle le cose o ciò che le fa essere. IPPIA: Ciò che le fa apparire, credo, Socrate. SOCRATE: Ahimè, Ippia, la conoscenza del bello, di cosa mai esso sia, si allontana e ci sfugge, poiché l'appropriato ci è sembrato diverso dal bello. IPPIA: Sì per Zeus, Socrate, anche a me sembra molto strano. SOCRATE: Tuttavia, amico mio, non desistiamo ancora, poiché io continuo a nutrire qualche speranza di scoprire cosa mai sia il bello. IPPIA: Senza dubbio, Socrate, dal momento che non è difficile scoprirlo. Io so bene che, se mi ritirassi un poco per conto mio a riflettere con me stesso, te lo direi con una precisione tale da superare ogni esattezza. SOCRATE: Non dirlo forte, Ippia. Vedi quante noie ci ha già procurato e bada che, arrabbiato con noi, non ci sfugga ancora di più. Certo io non dico nulla, perché tu, credo, lo scoprirai facilmente, quando sarai solo. Ma, per gli dèi, trovalo in mia presenza o meglio, se vuoi, cercalo con me come in questo momento. E se lo troviamo, sarà la cosa migliore, altrimenti, credo, mi rassegnerò al mio destino mentre tu, dopo essertene andato, lo troverai facilmente. E se lo troviamo adesso, non preoccuparti, non ti seccherò domandandoti che cosa avresti trovato da solo. Osserva ora ciò che ti pare essere il bello; io dico che è... - ma bada, e con molta attenzione, che io non sragioni - il bello è per noi ciò che è utile. Ho parlato così, costruendo il mio ragionamento a partire da questi presupposti: sono belli gli occhi, diciamo, non quelli che paiono tali da non poter vedere, ma quelli che possono farlo e che sono utili per vedere. Non è così ? IPPIA: Sì. SOCRATE: Ebbene, così anche il corpo nel suo insieme diciamo che è bello, uno per la corsa, l'altro per la lotta; di nuovo riguardo a tutti gli altri animali, consideriamo bello un cavallo, un gallo o una quaglia, e riguardo a tutti gli oggetti d'uso, veicoli di terra e di mare, navi da carico e triremi, tutti gli strumenti musicali e quelli propri delle altre tecniche e, se vuoi, le occupazioni e le consuetudini, quasi tutte queste cose le chiamiamo belle allo stesso modo. Volgendo lo sguardo a ciascuna di esse nella sua natura, nella sua funzione, nel suo stato, noi diciamo che è bella la cosa utile, nella misura in cui è utile, in rapporto a ciò per cui è utile e quando è utile, mentre è brutta la cosa che da tutti questi punti di vista è inutile. Non sembra anche a te così, Ippia? IPPIA: Sì. SOCRATE: Dunque ora diciamo in modo corretto che l'utile è la cosa più bella di tutte? IPPIA: Correttamente, certo, Socrate. SOCRATE: Quindi ogni cosa che ha la capacità di operare nel campo in cui è in grado di operare, in questo è anche utile, mentre ciò che è incapace di operare è inutile? IPPIA: Certo. SOCRATE: Pertanto la capacità di operare è una bella cosa, mentre l'incapacità è una cosa brutta? IPPIA: Eccome! Quanto al resto, Socrate, la politica in particolare ci testimonia che le cose stanno così: infatti nelle questioni politiche e nella propria città la cosa più bella di tutte è la possibilità di parteciparvi, mentre l'impossibilità di farlo è quanto di più brutto vi sia. SOCRATE: Parli bene. Dunque allora, per gli dèi, Ippia, a causa di questo anche la sapienza non è forse la cosa più bella di tutte, mentre l'ignoranza è la cosa più brutta? IPPIA: Ma a cosa pensi, Socrate? SOCRATE: Fermati un attimo, caro amico, poiché ho timore di quello che diciamo. IPPIA: Perché hai paura, Socrate, dal momento che ora il tuo ragionamento procede benissimo? SOCRATE: Lo vorrei, ma esamina il problema con me: si potrebbe fare ciò che non si sa e che non si è assolutamente capaci di fare? IPPIA: Assolutamente no: come si potrebbe fare ciò che non si è capaci di fare? SOCRATE: Pertanto quelli che sbagliano, che commettono azioni disoneste e lo fanno involontariamente non l'avrebbero mai fatto, se avessero potuto non farlo? IPPIA: Evidentemente. SOCRATE: Ma quelli che possono ne sono in grado in virtù della loro capacità e non certo della loro incapacità. IPPIA: No di certo. SOCRATE: Tutti quelli che fanno ciò che fanno, possono farlo? IPPIA: Sì. SOCRATE: Ma tutti gli uomini, iniziando fin da bambini, fanno molto più male che bene e sbagliano involontariamente. IPPIA: è così. SOCRATE: E allora? Diremo dunque che questa possibilità e queste cose utili, la cui utilità è però finalizzata a ottenere qualcosa di male, sono belle o sono molto lontane dall'esserlo? IPPIA: Sono molto lontane, credo, Socrate. SOCRATE: Dunque, Ippia, il possibile e l'utile per noi, a quanto sembra, non sono il bello. IPPIA: A meno che non possano agire bene ed essere utili a ciò, Socrate. SOCRATE: Dunque va scartata quella tesi che il possibile e l'utile siano in una sola parola il bello: è questo allora, Ippia, che voleva dire la nostra anima, cioè che il bello è l'utile e la capacità di fare qualcosa di buono? IPPIA: A me sembra che le cose stiano così. SOCRATE: Ma questo è vantaggioso o no? IPPIA: Certo. SOCRATE: Così i bei corpi, le buone leggi, la sapienza e quanto dicevamo prima sono tutte cose belle poiché vantaggiose. IPPIA: è chiaro. SOCRATE: Dunque crediamo che il vantaggioso sia il bello, Ippia. IPPIA: Certo, senza dubbio è così. SOCRATE: Ma il vantaggioso è ciò che ottiene il bene. IPPIA: Sì. SOCRATE: E ciò che produce non è altro che la causa, non è vero? IPPIA: Sì. SOCRATE: Il bello dunque è causa del bene. IPPIA: Sì. SOCRATE: Ma la causa, Ippia, e ciò di cui la causa è causa sono diversi, perché la causa non potrebbe essere causa della causa. Pensala così: non è chiaro che la causa è ciò che produce? IPPIA: Certo. SOCRATE: Ebbene, da ciò che produce non è prodotto forse altro che l'effetto e non certo la causa? IPPIA: è così. SOCRATE: Quindi una cosa è l'effetto, un'altra è ciò che lo produce? IPPIA: Sì. SOCRATE: Pertanto la causa non è causa della causa, ma dell'effetto prodotto da essa stessa. IPPIA: Certo. SOCRATE: Se dunque il bello è causa del bene, il bene scaturisce dal bello e per questo, a quanto pare, prendiamo sul serio l'intelligenza e tutto quanto c'è di bello, perché ciò che essi producono e generano, cioè il bene, è degno di essere perseguito e forse, in base a quello che scopriamo, il bello ha l'aspetto di padre del bene. IPPIA: Certo è così, parli bene, Socrate. SOCRATE: Dunque dico bene anche questo, cioè che il padre non è il figlio e il figlio non è il padre? IPPIA: Certo, dici bene. SOCRATE: E la causa non è l'effetto né l'effetto è la causa. IPPIA: Dici il vero. SOCRATE: Per Zeus, carissimo, allora neppure il bello è il bene, né il bene è il bello, o ti pare possibile in base a quanto detto prima? IPPIA: No, per Zeus, non mi pare. SOCRATE: Dunque la soluzione ci soddisfa e vorremmo dire che il bello non è buono e il buono non è bello? IPPIA: No, per Zeus, non mi soddisfa proprio. SOCRATE: Per Zeus, Ippia, a me piace meno di tutti i discorsi che abbiamo fatto. IPPIA: Infatti pare proprio così. SOCRATE: Forse dunque il più bello dei ragionamenti, come sembrava poco fa - cioè quello che ritiene che il vantaggioso, l'utile e ciò che può ottenere qualcosa di buono siano cose belle - non è tale, anzi, se è possibile, è più ridicolo di quelli precedenti, nei quali credevamo che il bello fosse la bella ragazza e quanto prima si è detto. IPPIA: Così pare. SOCRATE: E io, Ippia, non so più dove volgermi e sono in difficoltà. Tu hai qualcosa da dire? IPPIA: Al momento no, ma, come dicevo poco fa, so bene che, a rifletterci su, qualcosa troverò. SOCRATE: Io però, a causa del mio desiderio di sapere, credo di non essere capace di aspettarti, poiché penso appunto di aver trovato or ora una via d'uscita. Osserva: se diciamo che è bello ciò che è in grado di suscitare piacere in noi, e non tutti i piaceri, ma quello che proviamo tramite l'udito e la vista, perché dovremmo lottare contro quell'uomo? Tutti gli uomini belli, Ippia, e tutti i ricami, le pitture, le sculture, insomma tutte le cose belle, suscitano in noi piacere a guardarle; analogamente i bei suoni, tutta la musica, i discorsi e i racconti mitici sortiscono il medesimo effetto, sicché se rispondiamo a quell'arrogante: «Nobile amico, il bello è quanto di piacevole giunge a noi attraverso l'udito e la vista», non credi che lo distoglieremmo dalla sua arroganza? IPPIA: A me sembra, Socrate, che ora si definisca correttamente il bello. SOCRATE: E allora? Forse non diremo che le belle occupazioni e le buone leggi sono belle, poiché procurano piacere attraverso l'udito e la vista, o hanno qualche altra caratteristica? IPPIA: Forse questo potrebbe sfuggirgli, Socrate. SOCRATE: Per il cane, Ippia, non sfuggirà a colui al quale mi vergognerei di dire sciocchezze e di fingere di dire qualcosa senza dire nulla. IPPIA: Chi è costui? SOCRATE: Il figlio di Sofronisco, (24) che non mi permetterebbe di dire con leggerezza, come se le conoscessi, cose che non sono state analizzate o che non so. IPPIA: Ma anche a me, dopo che l'hai detto, sembra che la situazione stia in termini diversi a proposito delle leggi. SOCRATE: Stai tranquillo, Ippia, altrimenti corriamo il rischio, dopo esser caduti riguardo al bello nella stessa difficoltà di poco fa, di credere di avere un'altra via d'uscita. IPPIA: Come dici, Socrate? SOCRATE: Io ti dirò ciò che mi sembra di vedere, se riesco a dire qualcosa. Infatti queste osservazioni fatte a proposito delle leggi e delle attività forse potrebbero apparire non estranee alla sensazione che ci viene dall'udito e dalla vista: ma portiamo avanti questo ragionamento - che cioè il bello sia il piacere provocato da queste sensazioni - senza chiamare in causa ciò che riguarda le leggi. Ma se quest'uomo di cui parlo o qualcun altro ci domandasse: «Ippia e Socrate, perché circoscrivete alla sfera del bello il piacevole che appartiene a questa parte del piacere che voi dite, e non considerate belli anche i piaceri connessi alle altre sensazioni del bere, dell'amare e così via? O affermate che non sono neppure piacevoli e che in tali sensazioni non ci sono assolutamente piaceri, né ci sono in altro che nel vedere e nell'udire?». Cosa risponderemo, Ippia? IPPIA: Socrate, diremo che senza dubbio anche nelle altre sensazioni ci sono piaceri molto intensi. SOCRATE: «Perché allora», continuerà, «togliete questo nome di piacere a quelli che sono piaceri non meno degli altri e li private dell'appellativo di belli?» Perché, risponderemo, tutti ci prenderebbero in giro se dicessimo che mangiare è non piacevole, ma bello; e per quanto riguarda i piaceri dell'amore, tutti sosterrebbero di fronte a noi che, pur essendo una cosa in grado di dare un sommo piacere, quando la si fa, è necessario farlo senza che nessuno lo veda, perché è azione assai squallida a vedersi. Ippia, forse risponderebbe così a queste nostre parole: «Capisco anche io che da tempo vi vergognate di dire che questi piaceri sono belli, poiché non è un'opinione comune: ma io non chiedevo cosa i più pensano che sia bello, ma cos'è il bello». Noi gli diremo, credo, ciò che appunto abbiamo posto come tesi: «Noi diciamo che il bello è la parte del piacevole che dipende dalla vista e dall'udito». Però, Ippia, puoi ancora ricorrere a quel ragionamento, o dovremo farne un altro? IPPIA: Socrate, alle sue parole è giocoforza non dare altra risposta che questa. SOCRATE: «Dite bene», continuerà. «Se dunque il bello è il piacevole che scaturisce dalla vista e dall'udito, ciò che non si trova a essere tra questi piaceri non potrebbe evidentemente essere bello, vero?». Daremo il nostro assenso? IPPIA: Sì. SOCRATE: «Il piacevole che scaturisce dalla vista», dirà, «è un piacere che scaturisce dalla vista e dall'udito, o il piacevole che scaturisce dall'udito è un piacere che scaturisce dall'udito e dalla vista?» Assolutamente no, diremo: ciò che scaturisce da uno non può scaturire da entrambi - poiché ci sembra che tu intenda questo -, ma noi dicevamo che ciascuno di questi piaceri è bello in sé e per sé, e lo sono entrambi. Non risponderemo così ? IPPIA: Certo. SOCRATE: «Dunque allora», dirà, «una cosa piacevole differisce in qualche particolare e in qualche punto da un'altra cosa piacevole per questo, in quanto è piacevole? Non chiedo mica se un piacere è più o meno grande o più o meno intenso, ma se tra i piaceri uno sia differente proprio per questo, perché è un piacere, mentre un altro non lo è». A noi non sembra così, vero? IPPIA: No, non sembra proprio così. SOCRATE: «Dunque», dirà, «voi avete scelto questi piaceri tra gli altri per un motivo diverso da quello di essere piaceri, in quanto vedete che in entrambi c'è qualcosa di diverso dagli altri, e non è guardando a questa differenza che voi dite che sono belli? Infatti il piacere procurato dalla vista non è bello per questo, cioè perché scaturisce dalla vista, poiché, se fosse questa la causa per cui quel piacere è bello, non potrebbe mai essere bello l'altro piacere, quello provocato dall'udito: ebbene, il piacere procurato dalla vista non è bello in quanto tale». Non dovremo dirgli che parla correttamente? IPPIA: Sì, dovremo dirlo. SOCRATE: «D'altra parte neppure il piacere provocato dall'udito è bello per questo, cioè in quanto procurato dall'udito, poiché allora non potrebbe mai essere bello quello procurato dalla vista: dunque non è bello in quanto piacere procurato dall'udito». Ippia, ammetteremo che egli dice la verità, parlando così ? IPPIA: La verità, certo. SOCRATE: «Tuttavia entrambi sono belli, come voi dite». Non diciamo così ? IPPIA: Diciamo così. SOCRATE: «Quindi hanno lo stesso requisito che li fa essere belli e questo requisito è comune ad entrambi, è insito in ambedue e in ciascuno dei due in modo proprio, perché diversamente non potrebbero essere belli entrambi e ciascuno dei due». Rispondi a me come se rispondessi a lui. IPPIA: Rispondo: anche a me sembra che le cose stiano nei termini in cui tu le esponi. SOCRATE: Se dunque questi piaceri hanno una caratteristica comune ma non la possiedono individualmente, non potrebbero essere belli per questa comune caratteristica. IPPIA: E come potrebbe verificarsi questo, Socrate, cioè il fatto che, non avendo né l'uno né l'altro singolarmente una caratteristica, poi entrambi si trovino ad averla, quando né l'uno né l'altro l'avevano? SOCRATE: Non credi che possa accadere? IPPIA: Grande sarebbe la mia inesperienza sulla natura di queste cose e sul significato dei presenti discorsi. SOCRATE: Bene, Ippia. Eppure forse cerco di vedere qualcosa che, come tu dici, è impossibile e invece non vedo nulla. IPPIA: Forse no, Socrate, ma sicuramente vedi male. SOCRATE: Eppure molte cose mi appaiono davanti: cose simili si presentano davanti alla mia anima, ma io non credo in esse, perché a te, un uomo che grazie alla sua sapienza ha guadagnato più denaro di ogni contemporaneo, non si manifestano, a me invece, che non ho mai guadagnato nulla, sì. E mi chiedo, amico, se tu non ti stia prendendo gioco di me e se non mi stia deliberatamente ingannando, tanto convincenti e numerose sono queste visioni. IPPIA: Nessuno meglio di te, Socrate, saprà se scherzo o no, se proverai a riferire queste tue visioni, poiché sarà palese che non dici nulla: infatti non potrai mai trovare una caratteristica che né tu né io abbiamo singolarmente e che abbiamo invece entrambi. SOCRATE: Come dici, Ippia? Forse io non capisco cosa dici, ma ascolta più chiaramente ciò che intendo dire, poiché a me sembra possibile che entrambi abbiamo una caratteristica che né io ho posseduto né ho e che nemmeno tu hai, e che d'altra parte nessuno di noi due ne abbia altre che entrambi possediamo. IPPIA: Socrate, tu assomigli a uno che dà risposte incredibili, più incredibili ancora di quelle che davi poco fa. Guarda: se entrambi siamo giusti, non potrebbe esserlo anche ciascuno di noi? O se ciascuno di noi è ingiusto, non potremmo anche esserlo entrambi? O se siamo entrambi in salute, non potrebbe esserlo anche ciascuno di noi? O se ciascuno di noi fosse malato, ferito o percosso o avesse subito qualsiasi altro male, non potremmo averlo subito entrambi? E ancora, se entrambi fossimo d'oro, d'argento o d'avorio o, se vuoi, nobili o sapienti o onorati o vecchi o giovani o in qualsiasi altra condizione si possano trovare gli uomini, non sarebbe forse assolutamente necessario che lo fosse anche ciascuno di noi due? SOCRATE: Senza alcun dubbio. IPPIA: Ma tu, Socrate, non consideri le situazioni nel loro complesso, né lo fanno quelli con cui tu sei solito discutere; invece voi saggiate il bello e ogni altro problema prendendone in esame una parte e smembrandolo nei vostri discorsi. Per questo vi sfugge la sostanza dei corpi di grandi dimensioni che ci sono in natura. E ora ti è talmente sfuggito questo problema da credere che ci sia qualcosa, sia esso una caratteristica o una sostanza, che possa riguardare contemporaneamente entrambe le cose, ma non ciascuna singolarmente, o ciascuna singolarmente ma non entrambe: tanto irragionevole, sconsiderato, ingenuo, sciocco è il vostro stato. SOCRATE: Ippia, tale è il nostro stato, non come si vuole, dicono sempre gli uomini, parlando per proverbi, ma come si può: ma tu ci rechi sempre giovamento ammonendoci. Perciò anche adesso ti dimostrerò in modo ancora più chiaro in quale sciocca condizione ci trovavamo, prima che tu facessi questi ammonimenti, dicendo ciò che pensavamo riguardo a quelle questioni; o non devo dirlo? IPPIA: Lo dirai a uno che lo sa, Socrate, poiché conosco la condizione in cui si trova ciascuno di quelli che si occupano di quei discorsi. Tuttavia parla, se ti fa piacere. SOCRATE: Mi fa piacere. Noi infatti, carissimo amico, prima che tu dicessi queste cose, eravamo così sciocchi da avere l'opinione, su me e te, che ciascuno di noi fosse uno ma entrambi non fossimo ciò che era ciascuno di noi - poiché non siamo uno, ma due - di tale stupidità era la condizione in cui ci trovavamo. Ora invece abbiamo imparato da te che, se entrambi siamo due, è necessario che ciascuno di noi sia due e che, se ciascuno di noi è uno, è necessario che anche entrambi siamo uno. Infatti non è possibile che la cosa stia in termini diversi, alla luce del lungo discorso di Ippia sulla sostanza, ma ciò che eventualmente è una coppia, lo è anche ciascun membro di essa, e ciò che è ciascun membro di essa, lo è anche la coppia. Io ora, convinto da te, me ne sto qui seduto; ma prima, Ippia, ricordami: io e te siamo uno o tu sei due e io due? IPPIA: Che cosa dici, Socrate? SOCRATE: Questo: infatti temo che tu chiaramente dica di biasimarmi, quando ti sembra di affermare qualcosa di giusto. Tuttavia dimmi ancora: ciascuno di noi non è uno e non ha questa caratteristica di essere uno? IPPIA: Certo. SOCRATE: Dunque se ciascuno di noi è uno, sarebbe anche dispari; o non credi che l'uno sia dispari? IPPIA: Lo credo. SOCRATE: Ed entrambi dunque, pur essendo due, siamo dispari? IPPIA: Non potrebbe essere così, Socrate. SOCRATE: Allora insieme siamo pari o no? IPPIA: Certo. SOCRATE: Allora, poiché insieme siamo pari, a causa di questo fatto anche ciascuno di noi è pari? IPPIA: No di certo. SOCRATE: Dunque non è una necessità stringente, come tu dicevi poco fa, che ciò che entrambi siamo lo sia anche ciascuno di noi e ciò che è ciascuno, lo si sia anche entrambi. IPPIA: Il ragionamento non vale in tali casi, ma in quelli di cui io parlavo prima. SOCRATE: è sufficiente, Ippia: infatti basta questo a soddisfarci, dal momento che alcune cose sembrano stare così e altre no. E se ricordi il punto da cui è cominciato questo discorso, io dicevo che i piaceri che scaturiscono dalla vista e dall'udito sono belli non per questo motivo, in quanto cioè ciascuno di essi ha questa caratteristica, ma non entrambi insieme, oppure entrambi ma non ciascuno singolarmente, bensì per la caratteristica che posseggono entrambi insieme e ciascuno singolarmente, poiché hai ammesso che sono belli entrambi e ciascuno singolarmente. Per questo motivo pensavo che, se entrambi sono belli, devono essere belli per la sostanza che si accompagna a entrambi, non per quella che non è presente in uno dei due, e lo credo ancora. Ma dimmi come dall'inizio: se sia il piacere procurato dalla vista sia quello procurato dall'udito sono belli entrambi e ciascuno singolarmente, allora ciò che li rende belli non li accompagna entrambi e singolarmente? IPPIA: Certo. SOCRATE: E allora dunque sarebbero belli perché ciascuno ed entrambi sono piaceri? O per questo anche tutti gli altri piaceri non sarebbero per nulla meno belli di questi? Infatti risultarono essere piaceri non meno degli altri, se ricordi. IPPIA: Ricordo. SOCRATE: Ma si era detto che sono belli perché sono procurati dalla vista e dall'udito. IPPIA: Si era detto così. SOCRATE: Guarda se dico la verità. Infatti, a quanto ricordo, si diceva che il piacevole, e non certo tutto, ma quello che scaturisce dalla vista e dall'udito, è bello. IPPIA: è vero. SOCRATE: Dunque non è questa la caratteristica che li accompagna entrambi e non ciascuno singolarmente? Ciascuno di essi, come appunto si diceva prima, non è provocato da entrambi, ma entrambi sono provocati da entrambi e ciascuno di essi no: è così ? IPPIA: Sì. SOCRATE: Quindi ciascuno di essi è bello non per ciò che si accompagna a ciascuno - infatti l'essere entrambi non si accompagna a ciascuno - sicché, secondo la nostra tesi, è possibile chiamarli belli entrambi, ma non è possibile chiamare bello ciascuno singolarmente: o come dobbiamo dire? Non è necessario dire così ? IPPIA: Sembra. SOCRATE: Pertanto dobbiamo dire che sono belli entrambi, ma non dobbiamo dire che lo sono ciascuno singolarmente? IPPIA: Cosa lo impedisce? SOCRATE: Credo che lo impedisca questo, amico, il fatto che avevamo tutti quegli esempi che hai esposto di elementi che si accostano a ciascun oggetto in questo modo: se si accostano a una coppia si aggiungono anche a ciascuno dei due membri, e se si aggiungono a ciascuno, si aggiungono anche alla coppia; non è così ? IPPIA: Sì. SOCRATE: Ma gli esempi che ho esposto io non erano questi: tra essi c'era l'essere ciascuno in sé e l'essere entrambi; non è così ? IPPIA: è così. SOCRATE: Dunque, Ippia, in quale dei due casi ti sembra che rientri il bello? In quello che dicevi tu, cioè che se io sono forte e lo sei anche tu, lo siamo entrambi, e se io sono giusto e lo sei anche tu, lo siamo entrambi, e se lo siamo entrambi lo è anche ciascuno singolarmente; così, se io sono bello e lo sei anche tu, lo siamo entrambi, e se lo siamo entrambi lo è anche ciascuno singolarmente? O nulla impedisce forse che sia come per i numeri nei quali, anche se alcuni insieme sono pari, ciascuno può essere dispari o pari e d'altra parte, anche se alcuni sono irrazionali, insieme possono essere razionali o irrazionali, e allo stesso modo mille altri casi che io dicevo apparirmi? In quale dei due casi poni il bello? O anche tu la pensi come me al proposito? Infatti a me non sembra assolutamente ragionevole che noi insieme siamo belli mentre presi singolarmente non lo siamo, o che lo siamo presi singolarmente e non insieme e qualsiasi altro esempio simile. La pensi come me o in qual modo? IPPIA: Socrate, la penso così. SOCRATE: E fai bene, Ippia, perché così ci liberiamo dal proseguire la ricerca: se infatti il bello si pone tra queste cose, il piacevole che scaturisce dalla vista e dall'udito non sarebbe bello, poiché lo scaturire dalla vista e dall'udito rende belli entrambi i piaceri, ma non ciascuno singolarmente. Ma questo era impossibile, come ammettiamo sia io sia tu, Ippia. IPPIA: Lo ammettiamo, certo. SOCRATE: è impossibile dunque che il piacevole che scaturisce dalla vista e dall'udito sia il bello, dal momento che, se diventa bello, ottiene qualcosa di impossibile. IPPIA: è così. SOCRATE: «Ricominciate da capo», dirà, «dal momento che avete sbagliato. Cosa dite che sia questo bello che si accompagna a entrambi i piaceri, per il quale avete chiamato questi piaceri belli, preferendoli agli altri?». A me pare che sia necessario, Ippia, dire che entrambi e singolarmente questi sono i piaceri più innocenti e i migliori. O puoi suggerire qualche altro requisito per cui sono migliori degli altri? IPPIA: Assolutamente no: infatti sono realmente i migliori. SOCRATE: «Allora», continuerà, «dite che il bello è un piacere vantaggioso?» Così ci sembra, dirò. E tu? IPPIA: Anche io. SOCRATE: «Dunque», dirà, «il vantaggioso è ciò che produce il bene, ma ciò che produce e ciò che è prodotto ci sono sembrate poco fa cose diverse: il vostro ragionamento collima con il ragionamento precedente? Infatti il bene non sarebbe il bello né il bello sarebbe il bene, se ciascuno di essi è diverso» Certamente, risponderemo, Ippia, se siamo saggi, perché non è lecito non dare il nostro assenso a chi parla correttamente. IPPIA: Ma, Socrate, cosa credi che sia tutto questo? Sono frammenti e ritagli di discorsi, cosa che appunto dicevo poco fa, divisi in piccoli pezzi. Ma ciò che è bello e importante è essere in grado di andarsene riportando non i premi più piccoli ma quelli più importanti, cioè la salvezza propria, dei propri beni e dei propri cari, dopo aver pronunciato perfettamente bene un discorso in tribunale o nell'assemblea o davanti a qualsiasi altra autorità a cui il discorso sia indirizzato e dopo aver persuaso l'uditorio. Di questo dunque bisogna preoccuparsi, lasciando perdere questi frammenti di discorso per non essere considerato troppo sciocco poiché ti occupi, come ora, di chiacchiere e di stupidaggini. SOCRATE: Caro Ippia, sei fortunato, poiché sai ciò di cui l'uomo deve occuparsi e a cui tu ti sei dedicato in modo adeguato, come dici. Io invece, come pare, sono posseduto da una sorte divina e vado errando e sono sempre in difficoltà, e quando paleso la mia difficoltà a voi sapienti, quando la manifesto, sono insultato dai vostri discorsi. Infatti mi dite ciò che ora tu mi dici, cioè che mi occupo di minuzie stupide e prive di valore. Ma quando, persuaso da voi, dico ciò che dite voi, cioè che la cosa migliore è essere in grado di comporre perfettamente bene un discorso e di esporlo in tribunale o in qualche altra assemblea, sento ogni genere di offesa dagli altri uomini di qui e da quest'uomo che sempre mi confuta. Egli è il mio parente più stretto e abita nella mia stessa casa: quando dunque torno a casa mia e mi sente dire queste cose, mi chiede se non mi vergogno di osar discutere sulle belle occupazioni, confutandomi così palesemente perché non so neppure cosa sia mai il bello in sé: «E come potrai sapere», dice, «quale discorso sia stato composto bene o no o qualsiasi altra azione sia bella o no, se non conosci il bello? E dal momento che sei in questo stato, credi che per te sia meglio vivere o morire?». Cosa che appunto dico, a me è capitato di sentirmi biasimato e insultato da voi e da lui. Ma forse è necessario che io sopporti tutto ciò, poiché non sarebbe strano se ne ricavassi qualche vantaggio. Comunque mi sembra, Ippia, di aver ricavato un vantaggio dalla conversazione con voi due, infatti credo di sapere cosa vuol dire il proverbio: le cose belle sono difficili. (25) NOTE Eugenio Caruso 06-11-2019 |
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