COMMENTO DEL CANTO
Il canto ventiquattresimo si svolge nella settima bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i ladri; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
«Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de’ ladroni sgrida contro a’ Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.» (Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
Le prime cinque terzine sono tutte dedicate a una similitudine tra le più ampie del poema, che si ricollega direttamente al finale del canto precedente, dove Virgilio si è arrabbiato in silenzio per aver scoperto di essere stato beffato da un diavolo. La similitudine inizia descrivendo il periodo dell'anno cominciato da poco ("giovanetto anno") nel quale, secondo un linguaggio metaforico, il sole tempra i raggi sotto l'Acquario (dal 21 gennaio al 21 febbraio) e le notti incominciano ad accorciarsi fino al momento in cui saranno ridotte alla metà della giornata (equinozio di primavera), quando la brina sulla terra fa immagine che copia ("assempra") la sua "sorella bianca", cioè la neve. Un pastorello che ha finito il foraggio per le pecore, alzandosi vede allora la campagna tutta coperta di bianco e si batte la mano sull'anca in segno di disperazione, lamentandosi e rientrando in casa come un derelitto che non sa che fare, ma quando ritorna a guardare la campagna ritrova la speranza perché il mondo in quel frangente ha cambiato faccia, ed esce con le pecorelle a pascolare. Come avviene al pastorello, così il turbamento visto sulla fronte del maestro alla fine del canto precedente fa sbigottire Dante, ma altrettanto rapidamente giunge il rimedio per il male, perché, quando arrivano alle rovine del ponte crollato, Virgilio, rinfrancato da questa vista, torna a rivolgersi a lui con quella dolce espressione che gli aveva visto in volto quando lo incontrò per la prima volta, mentre tentava invano di salire il "dilettoso monte".
Inizia quindi la risalita lungo le rovine del ponte che sovrastava la settima bolgia, con Virgilio che afferra Dante e lo solleva verso la cima di una roccia, adocchiandone nel frattempo un'altra a cui Dante possa aggrapparsi, raccomandandogli di provare prima se essa è in grado di reggere il suo peso. Non era certo una via, dice Dante, possibile per chi avesse addosso una cappa, volendo spiegare come quello non fosse un percorso che potesse permettere agli ipocriti di uscire dalla loro bolgia, perché a mala pena ce la facevano a salire di appiglio in appiglio, Virgilio "lieve" e Dante sospinto da lui. Fortunatamente le Malebolge digradano leggermente verso il pozzo centrale, per cui l'argine interno è sempre un po' più basso dell'altro, e alla fine i due poeti riescono a raggiungere l'ultima pietra in cima alle rovine del ponte crollato.
Arrivati in cima Dante ha il fiato corto e si siede sul primo masso che trova perché non ce la fa più, ma Virgilio subito riprende Dante e con solenni suggerimenti e incoraggiamenti lo incita a ricominciare subito la marcia. Le parole di Virgilio sono famose per il loro rigore e importanza, anche se lette nel contesto della situazione suonano un po' troppo forti. Non bisogna comunque dimenticare il loro valore soprattutto simbolico, non legato cioè solo allo spiccio avvenimento di Dante che riprende fiato dopo una salita.
Egli dice a Dante che sedendo sulle piume o sotto le coperte non si guadagna fama durante la vita; chi fa così sulla terra lascia la stessa traccia che fa il fumo nell'aria o la schiuma sull'acqua; quindi è bene che Dante si alzi e vinca "l'ambascia", perché l'animo ha il potere di vincere ogni battaglia se il corpo pesante non si accascia; ben più lunga sarà la scala che li attende (sottinteso al Purgatorio) perché non basta separarsi dai dannati. Quest'ultima frase racchiude tutto il senso del viaggio simbolico nell'Inferno: Dante sta compiendo un percorso iniziatico verso il bene e la conoscenza del divino, ma prima di tutto egli deve avere la consapevolezza di tutti i peccati (l'espiazione, compiuta attraverso l'Inferno), poi compiere un percorso di purificazione attraverso il Purgatorio, perché il solo conoscere il male ed evitare di usarlo non è sufficiente per la beatitudine. Sebbene l'opinione più diffusa circa la "più lunga scala" sia quella appena riportata, Manfredi Porena fa notare che la salita più faticosa che Dante dovrà fare non è quella del Purgatorio. Si vedrà infatti che sulla spiaggia della montagna, ad anime giunte allora, Virgilio dirà che essi due son giunti colà per via così "aspra e forte" che ormai il salire su per la montagna sarà un gioco; e la via di cui qui parla è quella che hanno risalito dal centro della Terra all'isola del Purgatorio: questa dev'esser dunque la "più lunga scala" a cui Virgilio accenna qui. E il verso 56 significherà: «non basta partirsi da questi peccatori qui; dovrai partirti addirittura da tutto l'Inferno».
Dante allora salta in piedi convinto, mostrando più lena di quella che si sente addosso, dicendo "Va, ch'i' son forte e ardito". I due allora trovano il nuovo ponte sulla bolgia successiva, che è più irto di rocce, stretto e malagevole di quelli passati finora. Mentre Dante sta ancora parlando per nascondere la sua stanchezza, i due poeti sono nel frattempo saliti sul ponte della bolgia successiva, la settima, e Dante sente una voce "a parole formar disconvenevole" , cioè non adatta a formar parole, che, pur non capendo cosa dica, gli sembra molto arrabbiata: il poeta si sporge dal dosso dell'arco del ponte per guardare giù, ma per il buio non riesce a vedere niente, quindi propone a Virgilio di proseguire fino all'argine più interno e di scendere dal ponte sull'argine stesso, al che il poeta acconsente con una perifrasi retorica (in parafrasi: "Altro non ti rispondo se non con l'agire, perché a una domanda onesta si deve rispondere tacendo ed eseguendo l'opera richiesta").
Essi scendono dunque dalla testata del ponte, dove questa si congiunge con l'ottavo argine ("ottava ripa"), e Dante vede uno scenario raccapricciante che, a differenza della dolente staticità del precedente, è dominato da un frenetico movimento, causato dalla "terribile stipa" di serpenti (in realtà si scopre presto che sono piuttosto rettili vari), di diversa specie, la cui memoria guasta ancora il sangue a Dante (come si vedrà nel canto successivo, queste stesse serpi che l'hanno inorridito diverranno per lui "serpi amiche").
E Dante attacca citando abbastanza fedelmente La Pharsalia di Lucano: vi erano chelidri (che Lucano, non Dante, descrive come striscianti su una scia di fumo), iaculi (che volano come giavellotti), faree (che strisciano contorcendosi con la testa eretta), cencri (con il ventre punteggiato, che strisciano dritti) e anfisbene (che hanno due teste, una per estremità). Libia (intesa genericamente come deserto del Sahara), Etiopia e Arabia (ciò che sta sopra al Mar Rosso) non possono vantare altrettanta ricchezza di serpenti, che Dante si compiace di elencare con fare dotto.
Tra i rettili corrono "genti nude e spaventate", che non hanno speranza di trovare né un nascondiglio né l'elitropia, pietra cui un tempo si attribuiva il potere di rendere invisibile chi la portava addosso. Essi hanno le mani legate dietro alla schiena dai serpenti, che poi passavano la coda e il capo lungo le reni dei dannati e le annodavano davanti cingendo loro il ventre.
Poco più avanti Dante dirà che si tratta dei ladri, che, a differenza dei predoni puniti nel primo girone del VII cerchio nel sangue bollente del Flegetonte (Canto XII), non sono violenti, ma hanno depredato gli altri con l'inganno e l'astuzia, colpa ben più grave di quella dei rapinatori secondo la logica dell'inferno dantesco, che agli strati più bassi fa corrispondere i peccati più gravi.
A questo punto Dante assiste a una sorprendente metamorfosi, quando un serpente morde un dannato tra il collo e la spalla e nel tempo di scrivere una "O" oppure una "I" (lettere tracciate con un solo tratto di penna) il dannato cade a terra come cenere e rinasce da essa, come fenice, che rinasce ogni 500 anni dopo essersi costruita un letto di nardo e mirra (citazione quasi letterale da Ovidio, Metamorfosi XV) o come un epilettico, che all'epoca si riteneva posseduto temporaneamente da un demone.
Il contrappasso di questi dannati non è completamente chiaro, comunque il serpente che striscia potrebbe simboleggiare la natura subdola di questi dannati. Inoltre il fatto di avere mani legate è l'opposto di quella "sveltezza" di mano che contraddistinse la loro mala opera. La metamorfosi animalesca è sempre un fatto gravemente degradante per Dante, che nella sua concezione dell'universo strettamente gerarchica attribuiva a animali e piante una forma di vita molto meno nobile di quella umana, creata a somiglianza di Dio (si pensi ai suicidi la cui pena è quella di essere trasformati in sterpi, o alle similitudini animalesche così frequenti nelle Malebolge). Nel caso poi del dannato che si polverizza e rinasce è un'aggiunta perché il suo peccato è avvenuto in luogo consacrato (lo si legge tra poco), quindi il ritornare alla polvere, come prima della Genesi, è una severa vendetta divina di chi ha osato sfidarlo.
Virgilio chiede dunque il nome al dannato, e quello risponde con tutta l'arroganza e rozzezza che può: dice che piovuto in questa bolgia dalla Toscana da poco tempo; gli piacque la "vita bestial e non umana", ed era un mulo, cioè un bastardo, un figlio illegittimo, di nome Vanni Fucci bestia, che ebbe in Pistoia la sua degna tana.
In pratica il dannato si è presentato come un animale, un violento, tanto da attaccare al suo nome l'epiteto di "bestia", ma Dante non è soddisfatto della sua risposta, perché in verità ha già riconosciuto di chi si tratta, un terribile pistoiese che compì efferate e inutili crudeltà durante l'assedio di Caprona (un'azione militare conseguente la battaglia di Campaldino, alla quale Dante partecipò come cavaliere). Allora Dante sprona Virgilio perché non si faccia scappare il dannato, perché la sua colpa è ben più umiliante e grave di quelle che ha voluto dire loro. Allora Vanni Fucci, colpito nel debole, si gira direttamente su Dante guardandolo negli occhi senza la frapposizione di Virgilio e controvoglia gli confessa quello che gli duole in questa sua misera condizione più di quando gli dolse morire. Non può negare la risposta alla domanda dei due inviati in missione divina: si trova quaggiù perché fu ladro dei bei arredi di sacrestia, per il reato del quale stava per venire giustiziato qualcun altro.
Dopo l'umiliazione però Vanni Fucci prepara anche la vendetta. "Ma perché di tal vista tu non godi, se uscirai mai dall'Inferno, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Il dannato si rivolge con arroganza verso Dante e, assieme a quello che farà dopo, la sua figura è tratteggiata come una delle più nere e indomabili dell'Inferno. Profetizza allora notizie spiacevoli per Dante: Pistoia è spopolata per la cacciata dei Neri, ma presto Firenze si rinnoverà di gente, intendendo che il successo attuale dei Bianchi è fugace perché presto con l'arrivo di Carlo Valois le sorti si ribalteranno. Marte trae vapore igneo di fulmini in Lunigiana (Val di Magra) e con la tempesta forte si combatterà sul campo di Pistoia (Campo Piceno, da un'errata interpretazione di Sallustio che fraintesero anche altri autori); qui il dio della guerra spezzerà la nebbia con questi fulmini "sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. / E detto l'ho perché doler ti debbia!" .
Il canto si chiude con questi versi pieni d'odio, e ancora più negativa sarà l'apertura del prossimo canto con la bestemmia di Vanni Fucci, così terribile che farà pronunciare a Dante un'invettiva contro Pistoia.
TESTO DEL CANTO XXIV
In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno, 3
quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra, 6
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, 9
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna, 12
veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro,
e fuor le pecorelle a pascer caccia. 15
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; 18
ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte. 21
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio. 24
E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver la cima 27
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia». 30
Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa. 33
E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto. 36
Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta 39
che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende. 42
La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre
,
anzi m’assisi ne la prima giunta. 45
«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre; 48
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma. 51
E però leva sù: vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia. 54
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia». 57
Leva’mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentìa;
e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito». 60
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria. 63
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole. 66
Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso. 69
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi 72
da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’i’ odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro». 75
«Altra risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de’ seguir con l’opera tacendo». 78
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta: 81
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa. 84
Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena, 87
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etiopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso è. 90
Tra questa cruda e tristissima copia
correan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia: 93
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate. 96
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda. 99
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse; 102
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa,
e ’n quel medesmo ritornò di butto. 105
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa; 108
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce. 111
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo, 114
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: 117
tal era il peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia! 120
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera. 123
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana». 126
E io al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci». 129
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse; 132
poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto. 135
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi, 138
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui, 141
apri li orecchi al mio annunzio, e odi:
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi. 144
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetuosa e agra 147
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ho perché doler ti debbia!». 151
Video HD https://www.youtube.com/watch?v=sKhQ4cglNfw
Gassman https://www.youtube.com/watch?v=B7hbeZXIEwQ
PARAFRASI
In quella stagione dell'anno iniziato da poco, in cui il sole intiepidisce i raggi sotto la costellazione dell'Acquario e la durata delle notti si avvicina a quella dei giorni, quando la brina sulla terra ricorda l'immagine della sua bianca sorella (la neve), ma la sua penna non ha per molto l'inchiostro (è destinata a durar poco),
il contadino a cui manca il foraggio si alza e guarda fuori, e vede la campagna tutta bianca: allora si batte il fianco, ritorna in casa, si lagna qua e là, come il pover'uomo che non sa cosa fare; poi ritorna e riacquista la speranza,
vedendo che il mondo ha cambiato volto (che la brina si è sciolta) in poco tempo, e prende il suo bastone e porta le pecore fuori al pascolo.
Così il maestro mi fece impallidire quando io lo vidi col volto così turbato, e altrettanto rapidamente giunse il rimedio al male;
infatti, come noi giungemmo alla rovina del ponte, la mia guida si rivolse a me con l'espressione dolce che vidi in lui ai piedi del colle.
Aprì le braccia e dopo aver considerato per un po' tra sé guardando bene la rovina, mi sollevò.
E come colui che agisce e riflette sul da farsi, che sembra sempre pensare prima a cosa fare, così, sollevandomi verso la sporgenza di una roccia, individuava un altro spuntone dicendomi: «Aggrappati poi a quello; ma prima prova a vedere se ti regge».
Non era un cammino per gente che indossasse il mantello, poiché noi potevamo a malapena salire di spuntone in spuntone, Virgilio senza il corpo mortale e io spinto da lui.
E se non fosse che da quella parte (interna) dell'argine la parete era più corta, non so lui ma io non ce l'avrei fatta.
Ma poiché le Malebolge declinano verso il margine del profondo pozzo, la posizione di ciascuna Bolgia fa sì che una parete è più alta dell'altra; alla fine giungemmo in cima alla rovina, sulla sommità dell'argine.
Non avevo più fiato nei polmoni quando fui arrivato in alto, al punto che non potevo proseguire oltre, anzi, mi sedetti non appena arrivai.
Il maestro mi disse: «Ora conviene che tu ti dia da fare, poiché sedendo sui cuscini o stando sdraiati sotto le coperte non si acquista la fama;
e chi passa la sua vita senza di essa, lascia sulla Terra una traccia di sé paragonabile al fumo nell'aria e alla schiuma nell'acqua.
Dunque alzati subito: vinci l'affanno con l'animo che vince ogni contrasto, se il corpo pesante non l'abbatte.
Dobbiamo salire una scala ben più ardua; non è sufficiente esserci separati da questi dannati e se mi capisci fa' in modo che ciò ti giovi».
Allora mi alzai, mostrando di avere maggiore energia di quanto fosse in realtà, e dissi: «Va', che sono forte e pieno di coraggio».
Prendemmo la via su per il ponte roccioso, che era impervio, stretto e difficile da percorrere, e assai più ripido di quello precedente.
Per non sembrare affaticato andavo parlando; a un tratto si sentì provenire dalla Bolgia una voce che pronunciava parole sconnesse.
Non so cosa dicesse, anche se ero già al culmine del ponte che sovrastava la fossa; ma chi parlava sembrava che si stesse muovendo.
Io guardavo in basso, ma i miei occhi per quanto attenti non potevano vedere il fondo oscuro; allora dissi: «Maestro, cerchiamo di raggiungere la fine del ponte e scendiamo sull'argine; infatti da qui ascolto e non sento, e guardo in basso e non vedo nulla».
Mi disse: «Non ti do altra risposta se non con l'agire; infatti alla giusta domanda devono seguire i fatti e non le parole».
Noi scendemmo là dove il ponte si congiunge con l'argine dell'VIII Bolgia, e da lì potei vedere la VII:
e vidi all'interno un orribile groviglio di serpenti, di specie talmente diverse che il solo ricordarlo mi guasta il sangue.
La Libia non si vanti più con la sua sabbia, poiché se produce chelidri, iacule, faree, cencri e anfisibene, non mostrò mai tanti animali pestiferi con tutta l'Etiopia e con la regione (Arabia) all'altezza del Mar Rosso.
In mezzo a questa orrenda e tristissima calca correvano dannati nudi e spaventati, senza speranza di un rifugio o dell'elitropia:
avevano le mani legate dietro la schiena da serpi, che insinuavano lungo la schiena la coda e il capo e si annodavano davanti al ventre.
Ed ecco che un serpente si avventò contro un dannato che era dalla nostra parte e lo morse sulla nuca, tra collo e spalle.
Non si scrissero mai una "o" né una "i" così velocemente come quello si accese e bruciò, e diventò tutto cenere cadendo a terra;
e dopo essere caduto al suolo così ridotto, la cenere si raccolse da sé e il dannato riacquistò improvvisamente le sue sembianze.
Così i saggi narrano che la fenice muore e poi rinasce, quando è vicina ai cinquecento anni di età;
nella sua vita non si nutre di erba né di biada, ma solo di lacrime di incenso e di amomo, e il suo ultimo nido è fatto di foglie di nardo e mirra.
E come colui che cade senza saperne la causa, per la forza di un demone che lo tira a terra o di un'ostruzione degli spiriti vitali,
e quando si rialza si guarda intorno, tutto smarrito per il dolore che ha sofferto e guarda sospirando;
così era il peccatore dopo essersi rialzato. Oh, potenza divina, quanto sei severa dal momento che assesti colpi tali per la tua vendetta!
Il maestro domandò poi al dannato chi fosse, per cui rispose: «Io venni dalla Toscana in questa fossa crudele da poco tempo.
Mi piacque la vita di una bestia e non di un uomo, proprio come il bastardo che fui; sono Vanni Fucci, detto la bestia, e Pistoia fu la tana dove sono vissuto».
E io a Virgilio: «Digli che non scappi e chiedigli quale colpa lo ha portato quaggiù; infatti lo conobbi quand'era ancora in carne e ossa».
E il dannato, che sentì, non si nascose ma anzi alzò il viso verso di me e si dipinse tristemente di vergogna;
poi disse: «Mi spiace più che tu mi veda in questa misera condizione, che non di essere stato strappato dalla vita mortale.
Non posso negare quello che mi chiedi; sono dannato in questa Bolgia perché commisi il furto degli arredi sacri nella sacrestia,
che fu attribuito a torto ad altri. Ma affinché tu non possa godere di questa visione, se mai uscirai da questi luoghi oscuri, apri le orecchie e ascolta la mia profezia: prima Pistoia esilierà i Guelfi Neri, poi sarà Firenze a liberarsi dei Bianchi.
Marte attirerà dalla Val di Magra (Lunigiana) un vapore igneo (fulmine) che sarà avvolto di nere nubi; e con una tempesta impetuosa e tremenda si combatterà nel territorio pistoiese; quindi il fulmine (Moroello Malaspina) spazzerà via la nebbia e ogni Guelfo Bianco sarà ferito. E ho detto questo per farti del male!»
Vanni Fucci
Figlio illegittimo del nobiluomo Fuccio de' Lazzari, viene indicato come un uomo dall'indole violenta. Quale guelfo nero prese parte alle lotte interne in città a partire dal 1288, distinguendosi per le razzie che perpetrava a danno delle famiglie avversarie. Nel 1289 partecipò alla guerra contro Pisa nella presa della Rocca di Caprona tra le file dei fiorentini e probabilmente fu in quell'occasione che Dante Alighieri ebbe modo di conoscerlo, restandone particolarmente colpito in senso negativo. Nel 1293 durante una notte del carnevale, entrò in Duomo con una banda di farabutti e depredò la Cappella di San Jacopo di oggetti preziosi: tavole d'argento, reliquie e arredi. Su questo episodio, citato da Dante, la documentazione è piuttosto carente e talvolta discordante. Pare che in un primo momento venisse incolpato del furto sacrilego il figlio di un suo amico, forse tale Rampino Foresi (o Vergellesi), il quale era già stato condannato alla forca quando venne arrestato un complice del Fucci (forse il notaio Vanni della Monna) che svelò, prima di essere impiccato, il suo coinvolgimento. Nel frattempo Vanni Fucci era riparato nel contado e si era dato alla briganteria, terrorizzando la campagna pistoiese dalla rocca di Montecatini Alto. Nel febbraio 1295 fu condannato in contumacia dal comune di Pistoia quale omicida e predone, ma ciò non gli impedì di essere di nuovo in città nell'agosto per compiere nuovi saccheggi contro guelfi bianchi. Non si hanno più notizie di lui e, stando al passo dantesco egli doveva essere già morto nel 1300, ma non si sa se per cause naturali o violente. Molti critici sono concordi nell'indicare Vanni Fucci come il personaggio più fosco e negativo di tutto l'Inferno dantesco. Il poeta lo incontra nella bolgia dei ladri, quale dannato che viene morso dai serpenti che emergono dalla fossa e ogni volta viene incenerito per ricomporsi immediatamente, come una fenice. La sua descrizione è caratterizzata da un fortissimo rilievo drammatico. Ai due poeti pellegrini si presenta così:
«"Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana".»
In queste poche parole dice che è morto da poco e inizia, con compiacimento e senza una minima traccia di rammarico, a raccontare la sua vita scellerata, usando la parola "bestia" e immagini ad essa correlate ben 5 volte in tre versi (bestia, bestial, non umana, mul, tana). Si pensa infatti che Bestia fosse il suo soprannome. Dante cita anche la matta bestialità quale uno dei tre pilastri del peccato, che viene in genere indicata con la violenza. Ma nel sistema delle pene e dei peccati di Dante, ripreso dall'Etica Nicomachea di Aristotele, essi hanno un preciso ordine gerarchico di gravità e la violenza verso il prossimo, per quanto futile e efferata, è meno grave dei peccati di malizia, ovvero la frode, dove l'intelletto umano, il più grande dono divino, viene usato a fin di male, per recare danno altrui. Vanni sa che si è vantato di peccati tutto sommato minori tacendo su quello più vergognoso del furto: dopotutto a seguito delle sue condanne quale omicida e predone violento era tristemente famoso in tutta la Toscana. Ma Dante dopo aver ascoltato, magari con disgusto, il suo racconto rincalza Virgilio affinché Vanni non mucci, cioè non svii, perché quello che ha detto non è la colpa che lo ha condannato a questa bolgia, ben più infamante di quella dei violenti. Allora il dannato, con un grandioso realismo psicologico, si volta direttamente verso Dante, saltando il tramite di Virgilio, e lo fissa alzando gli occhi e l'animo, mentre sul suo viso si dipinge la vergogna. Dice infatti che è stato colpito nel punto che più gli duole, cioè il farsi trovare in questa miseria presente, fatto ben più doloroso del morire stesso. A questo punto Vanni deve confessare, per la domanda fattagli da un protetto della Divina Provvidenza, e la sua ammissione è completa e degradante: Io fui / ladro , aggravato dal sacrilegio del furto degli arredi della sacrestia, per i quali fu erratamente accusato un altro. Nella sua disperazione rabbiosa Vanni si doveva forse essere pentito della tanta spavalda confessione precedente, dove si era presentato con il suo nome intero. Lo scontro personale Vanni-Dante è sottolineato dall'insistenza del "tu" che il pistoiese rivolge a Dante, sullo sfondo anche dello scontro a livello politico, essendo i due appartenenti a due fazioni opposte (guelfi neri per Vanni, guelfi bianchi per Dante). Ma dopo l'umiliazione dell'ignobile confessione egli desidera a sua volta ferire Dante, perché di tal vista egli non possa godere, dicendogli con solennità: "Apri li orecchi al mio annunzio, e odi". Segue la profezia, non senza riferimenti oscuri e complessi, della sconfitta dei guelfi bianchi dove "ogne Bianco ne sarà feruto"; famosa è la chiusura del canto: "E detto l'ho perché doler ti debbia!". Nel canto successivo Vanni Fucci rincara la dose strafacendo: con le due mani rivolte al cielo nel gesto delle fiche dice: "Togli, Dio, ch'a te le squadro!" ("Tié, Dio, queste sono per te!"), prima che due serpenti lo leghino mani e gola e lo facciano rotolare a terra, come punizione per la sua bestemmia e per la sua superbia. Dante ne rimane così disgustato da mettere nero su bianco una cruda invettiva contro Pistoia, città degna, secondo lui, di tali cittadini.
Struttura dell'inferno
Eugenio Caruso - 7 novembre - 2019