Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, mi dedico ora al Clitofonte.
COMMENTO DEL CLITOFONTE
Il Clitofonte è un dialogo attribuito a Platone, ma la cui autenticità viene messa in dubbio dagli studiosi moderni.
La discussione ruota attorno a due personaggi: Socrate e Clitofonte, quest'ultimo esponente del partito oligarchico e interlocutore nel Libro I della Repubblica. Socrate chiede merito a Clitofonte di alcune voci, secondo le quali egli lo avrebbe criticato in pubblico e affermato di volersi rivolgere agli insegnamenti di Trasimaco. Gran parte del dialogo, dunque, sarà occupata dal discorso di Clitofonte, un atto di accusa contro Socrate e la sua dottrina. E proprio questa acredine è il motivo principale che fa sospettare gli studiosi dell'autenticità del dialogo.
Ammettendo invece che il Clitofonte sia effettivamente opera di Platone, la sua data di stesura dovrebbe collocarsi ragionevolmente negli stessi anni in cui il filosofo componeva La Repubblica, e comunque, viste le affinità con il Libro I, di poco successiva alla stesura del Libro II.
Le ragioni di Clitofonte sono presto dette: se da un lato egli può concordare con Socrate quando sostiene che nessuno compie il male volontariamente e che bisogna esercitare l'anima e utilizzarla al meglio, d'altro canto egli inizia ad avere dei dubbi quando si tratta della giustizia. Affermando infatti che la giustizia è una tecnica, Clitofonte solleva il problema dell'effetto della giustizia; la medicina, per esempio, produce medici i quali esercitano la loro arte per dare la salute, mentre la giustizia produce uomini giusti. Ma gli uomini giusti cosa fanno? Ricercano l'utile, il necessario, il giovevole, o che altro?
Clitofonte, in particolare, afferma che un allievo di Socrate, uno dei più dotati, avrebbe risposto che la giustizia ricerca «l'amicizia negli Stati» , ovvero la concordia tra i cittadini, la quale in sé è sempre un bene. Tuttavia, evitando la definizione di concordia come «comunanza di opinioni», il suo interlocutore non è stato in grado di definire che cosa sia la giustizia, e quindi di rispondere alla sua domanda. E nemmeno Socrate, più volte interrogato, è stato in grado di dare una risposta soddisfacente: pertanto, continua Clitofonte, o Socrate non conosce la giustizia, oppure non vuole rendere gli altri partecipi di essa.
A questo punto, per Clitofonte non esiste alternativa. Esortato da Socrate a prendersi cura della propria anima più che del corpo, egli si recherà da un nuovo maestro, il sofista Trasimaco, dal quale spera di imparare ciò che il filosofo non ha saputo insegnargli.
CLITOFONTE TESTO
SOCRATE: Un tale, poco fa, ci diceva che Clitofonte, (1) figlio di Aristonimo, parlando con Lisia,(2) biasimava le
discussioni con Socrate, mentre lodava i dibattiti di Trasimaco.(3)
CLITOFONTE: Quel tale, Socrate, non ti riferiva in
modo esatto quei discorsi che feci su di te con Lisia; io, in verità, per alcuni aspetti non ti elogiavo, ma per altri sì. E
poiché è chiaro che tu mi stai rimproverando, ma che fingi di non farlo, io stesso vorrei discorrere con te delle
medesime cose, dato che ci troviamo ad essere noi due soli, affinché tu ti convinca che io non sono maldisposto nei tuoi
confronti. Forse, infatti, non hai compreso correttamente, così da sembrare più aspro del dovuto verso di me, ma se mi
concedi libertà assoluta di parola, io la accoglierò con piacere, anzi desidero proprio parlare.
SOCRATE: Sarebbe vergognoso non farlo, dato che hai un così vivo desiderio di essermi di giovamento; è chiaro
che sapendo in quali cose difetto e in quali eccello, queste ultime le perseguirò e le eserciterò, le prime, invece, le
eviterò con tutte le mie forze.
CLITOFONTE: Ascolta, allora. Intrattenendomi più volte con te, Socrate, sono rimasto colpito nel sentirti parlare e
mi sembrava che, rispetto agli altri uomini, tu parlassi molto bene, quando biasimando gli uomini, come un dio su una
macchina di scena,(4) declamavi Questi inni: «Uomini, dove vi fate trascinare? Non vi rendete conto di non compiere
ciò che sarebbe necessario, voi che avete come massima aspirazione il procurarvi ricchezze, ma quanto ai vostri figli, ai
quali lascerete in eredità tali ricchezze, non vi preoccupate di come sapranno servirsi di esse in modo giusto, e non
riuscite neppure a trovare per loro dei maestri di giustizia, se è possibile apprenderla - se, invece, è possibile praticarla
ed esercitarla, maestri che la facciano esercitare e praticare a sufficienza - e neppure ve ne siete preoccupati prima per
voi stessi. Ma al vedere che sia voi sia i vostri figli avete appreso in modo adeguato la lettura e la scrittura, La musica e
la ginnastica - ciò che voi considerate come la perfetta educazione alla virtù - ma che non siete in grado di usare le
ricchezze, come è possibile che non biasimiate la attuale educazione e che non cerchiate chi sia in grado di porre fine a
tale mancanza di cultura? Eppure proprio a causa di questo errore e di questa pigrizia, e non per una disarmonia della
lira, fratello contro fratello e città contro città, senza misura e senza armonia, dopo essersi assalite, sono in lotta e, nel
combattere, compiono e soffrono mali estremi. Voi, invece, sostenete che gli ingiusti sono tali, non per mancanza di
istruzione o per ignoranza, ma perché lo vogliono, e inoltre avete il coraggio di dire che l'ingiustizia è cosa turpe e che è
odiata dagli dèi; come sì può scegliere volontariamente un tale male? Voi dite perché si è so ttomessi ai piaceri. Ebbene
anche questo è involontario, se è vero che il vincere è volontario?
Così la ragione dimostra, in ogni modo, che l'ingiustizia è involontaria, (5) e che di ciò bisogna darsi pensiero, più di
quanto non facciano oggi ogni persona privatamente e tutte quante le città pubblicamente».
Quando ti sento parlare con tal frequenza in tal modo, Socrate, ti ammiro vivamente e ti approvo in pieno.
Analogamente accade quando dici che coloro che esercitano il corpo e trascurano l'anima fanno la medesima cosa, vale
a dire trascurano ciò che ha il comando e tengono m esercizio ciò che deve obbedire. E ti approvo anche quando dici
che chi non sa usare una cosa è meglio si astenga dall'usarla; se, poi, uno non sa usare né occhi né orecchie né tutto il
corpo, è meglio per costui non udire, non vedere, non usare alcuna parte del corpo, piuttosto che usarne una a caso.
E la stessa cosa vale per ogni arte. è chiaro che chi non sa usare la propria lira , non saprà usare neppure quella del
vicino e chi non sa usare quella altrui non saprà usare neppure la propria, analogamente per ogni altro strumento e
oggetto. Il tuo discorso si conclude bene quando afferma che, per chi non sa usare la propria anima, è meglio lasciarla
tranquilla e non vivere piuttosto che vivere agendo a modo proprio; se, invece, fosse proprio necessario vivere, sarebbe
meglio trascorrere la propria vita da schiavo che da libero, affidando il comando del proprio intelletto, come si fa con il
timone della nave,(6) ad uno che conosca l'arte del pilotare gli uomini, quell'arte che tu, Socrate, chiami spesso politica,
dicendo che la medesima è anche arte giudiziaria e giustizia. Tali discorsi e molti altri analoghi, perfettamente esposti,
ad esempio sul fatto che la virtù si può insegnare e che più di tutto bisogna occuparsi di se stessi, non li ho quasi mai
contraddetti né credo che in futuro li contraddirò anzi li ritengo molto esortativi ed utili e tali da svegliare noi dormienti.
Io ero tutto assorto ad ascoltare ciò che seguiva, Socrate, in un primo momento senza chiedere nulla a te, bensì ai tuoi
coetanei o affini o compagni o comunque si debbano chiamare coloro che gravitano nella tua cerchia. E tra costoro
interrogavo per primi coloro che sono tenuti da te in maggiore considerazione, domandando loro quale sarebbe stato il
discorso seguente e in qualche modo ponendo loro domande secondo il tuo metodo, dissi: «Miei ottimi amici, in quale
modo mai dobbiamo accogliere l'esortazione di Socrate alla virtù? Come se si trattasse di questo solo, e non fosse
possibile giungere al nocciolo della questione e coglierla nella sua interezza, oppure per tutta la vita abbiamo il compito
di esortare chi non è stato ancora esortato e spingere costoro ad esortare a loro volta altri? Oppure bisogna interrogare
Socrate e noi stessi reciprocamente su ciò che viene dopo, convenendo che proprio questo deve fare l'uomo?
Ma in che modo diciamo di dover iniziare a studiare la giustizia? è come se qualcuno ci esortasse ad occuparci del
corpo, rendendosi conto che noi, proprio come fanciulli, non immaginiamo che esistano la ginnastica e la medicina, e,
poi, ci rimproverasse, dicendo che è vergognoso riporre ogni cura nel grano, nell'orzo, nella vite e in tutto ciò che ci
sforziamo di procurarci per causa del corpo, senza trovare alcuna arte o mezzo per rendere migliore il corpo, sebbene
esistano. Se, poi, domandassimo a chi ci esorta in tal senso: "Di che arti si tratta?", forse risponderebbe che si tratta
della ginnastica e della medicina. Ora, quale arte diciamo che presieda alla virtù dell'anima? Sia detto una volta per
tutte». Colui che credeva di essere il più convincente tra loro, rispondendo a queste parole, disse che quest'arte è
proprio quella di cui parla Socrate, nessun'altra se non la giustizia. Ed io presi la parola e dissi: «Non mi dire soltanto il
suo nome, ma anche questo. C'è un'arte che viene chiamata medicina; gli effetti prodotti da essa sono due: il primo
consiste nell'aggiungere sempre nuovi medici a quelli già esistenti, il secondo è la salute. Uno di questi due effetti non
è più un'arte, ma il risultato di un'arte insegnata o appresa, che noi definiamo salute. Analogamente per quanto riguarda
l'architettura: ci sono la casa e l'arte dell'architettura, l'una è il risultato, l'altra è l'insegnamento teorico. Così per la
giustizia, ammettiamo che essa crei uomini giusti, come appunto per ciascun tecnico di cui sopra; quanto all'altro
effetto, che cosa diciamo che sia quell'opera che l'uomo giusto è in grado di portare a compimento? Dimmi». Uno,
credo, rispose l'utile, un altro il necessario, un altro ancora il giovevole, uno, infine, il vantaggioso. Io ricapitolavo
dicendo: «Anche in quel caso i nomi sono i medesimi per ciascuna delle arti, agire rettamente, producendo al
contempo vantaggio, giovamento e altre cose del genere.
Ma quanto a ciò a cui tutte queste arti fanno riferimento, ciascuna dirà ciò che le compete, ad esempio la
falegnameria parlerà del bene, del bello, del necessario per quanto attiene agli strumenti di legno, che, veramente, non
sono arte. Si discuta allo stesso modo anche di ciò che riguarda la giustizia». In conclusione, Socrate, uno dei tuoi
compagni, uno che sembrava aver parlato con maggior acume, rispose che effetto proprio della giustizia e di
nessun'altra arte, è creare amicizia negli Stati. Costui, interrogato ancora, disse che l'amicizia è un bene e mai un male
e, di nuovo interrogato, non accettò di affermare che sia amicizia quella tra bambini e tra animali, anche se noi la
denominiamo tale. Secondo lui, accade che, per la maggior parte, tali amicizie siano dannose e non vantaggiose.
Aggirando l'ostacolo, dunque, non le chiamò amicizie e disse che chi le definisce così, le definisce in modo errato.
L'amicizia vera e reale è, in modo lampante, la concordia. Essendogli, poi, stato chiesto se definisse questa,
concordanza d'opinione o scienza, non prendeva neppure in considerazione la concordanza d'opinione; esistono per
necessità molte e dannose concordanze d'opinione tra gli uomini; quanto all'amicizia, invece, concordava che fosse un
bene ed un effetto della giustizia, così da affermare che sono una medesima cosa la concordia e la scienza, ma non
l'opinione. (7) Quando, giunti a questo punto del discorso, ci trovammo in difficoltà, i presenti erano in grado di
muovergli delle critiche e di dire che il discorso era tornato allo stesso punto di partenza e dicevano: «Anche la
medicina è una forma di concordia e così tutte le arti ed esse sono capaci di esprimere ciò che sono; ma quella che da te
viene definita giustizia o concordia, dove essa tenda, ci sfugge e non è chiaro quale sia il suo effetto».
In conclusione, Socrate, ho posto anche a te queste domande e tu mi hai risposto che è proprio della giustizia
danneggiare i nemici e fare del bene agli amici. In seguito, però, è sembrato che il giusto non danneggi mai nessuno: in
tutto agisce per il vantaggio di tutti. Su tali argomenti non una o due volte, ma ripetutamente e con insistenza ti ho fatto
domande, ritenendo che tu, meglio di ogni altro uomo, sia in grado di indirizzare alla cura della virtù, ma delle due cose
l'una, o sei capace di fare soltanto questo e nulla di più, il che può accadere in ogni altra arte, come ad esempio, pur
senza essere un pilota, ci si può occupare dell'elogio della nautica, in quanto molto degna di interesse per l'uomo, e così
pure per le altre arti. Forse qualcuno potrebbe rivolgerti lo stesso rimprovero anche sulla giustizia poiché, pur non
essendo un esperto di essa, ne sai fare un elogio. Io, in verità, non sono di questo parere, ma delle due cose l'una, o non
conosci la giustizia oppure non vuoi rendermi partecipe di essa. Perciò credo che andrò da Trasimaco e in qualsiasi altro
luogo potrò, dato che non vedo altra via d'uscita e tu, ora, vuoi lasciar perdere questi discorsi esortativi nei miei
confronti, fa' come se, relativamente alla ginnastica, mi avessi esortato a non trascurare il corpo e avessi, però, dovuto
aggiungere alla tua esortazione di quale cura ha bisogno il mio corpo, essendo così com'è.
Metti che Clitofonte riconosca che è ridicolo prendersi cura di tutto il resto e che ci si debba, invece, occupare
dell'anima, a causa della quale noi ci curiamo di tutto il resto. E quanto agli altri argomenti, credi, ho parlato allo stesso
modo di ciò che segue e che ho trattato sopra. E ti prego vivamente di non fare altrimenti, affinché non debba, proprio
come poco fa, davanti a Lisia e agli altri, in alcune cose elogiarti, in altre criticarti.
Infatti, Socrate, a chi non sia stato ancora esortato, dirò che tu sei più che mai adatto a farlo, a chi, invece, lo sia già
stato, dirò che sei quasi un ostacolo per raggiungere una virtù compiuta ed essere felice.
NOTE AL TESTO
1) Sulla probabile identità storica di Clitofonte cfr. il commento.
2) Il celebre oratore che interviene nel
Fedro, e nella casa del cui padre Cefalo è ambientata la Repubblica.
3) Il sofista Trasimaco di Calcedone è uno dei protagonisti del libro primo della Repubblica. Qui, nel dibattito
sull'essenza e la definizione di giustizia, sostiene la tesi d'impronta schiettamente sofistica secondo cui la giustizia è
l'utile del più forte.
4) E il deus ex machina, il noto espediente scenico del dramma attico (ne fece largo uso soprattutto Euripide): si
trattava di una sorta di gru, grazie alla quale l'attore che impersonava la divinità scendeva sulla scena, per favorire lo
scioglimento della vicenda tragica.
5) L'affermazione secondo cui l'ingiustizia è atto involontario fa parte del pensiero socratico: se l'uomo compie il
male non lo compie perché lo vuole, ma per ignoranza del bene.
6) L'immagine della nave come metafora dell'intelletto
umano, o in altri casi come metafora dello Stato, è molto frequente negli autori greci.
7) Si ricordi che nella concezione filosofica platonica la distinzione tra scienza ("epistéme") e opinione ("dóxa") è
fondamentale.
Eugenio Caruso 23-11-2019