La liberalizzazione di poste e telecomunicazioni


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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40. L'assetto politico dal 1998 al nuovo millennio

40.7 La liberalizzazione di poste e telecomunicazioni
In tutto l'arco degli anni novanta il leitmotiv della cronaca economica italiana è stata scandita da due teoremi la new economy e la privatizzazione delle aziende di stato; su questo secondo teorema le più brillanti menti hanno detto la loro in un pendolamento tra facili entusiasmi e accorati avvertimenti di cautela. C'è chi afferma che le organizzazioni pubbliche sono immortali, chi ha già decretato la morte dello stato padrone, chi si accontenta di parlare di tramonto e chi invece parla di rinascita. Infatti, molti dei nuovi capi dell'industria di stato affermano che, se nel Paese si creassero condizioni di competitività, non ci sarebbe alcun bisogno di ricorrere alla privatizzazione delle aziende pubbliche; affermazione che rimanda ai criteri in base ai quali venne creata l'Iri. Si vorrebbe, cioè, in un perenne circolo vizioso, rinnovare la strategia dei "campioni nazionali" nei settori strategicamente più importanti e ricchi, come energia, trasporto, comunicazioni, riportandoci agli anni più bui dell'intervento pubblico, quegli anni settanta nei quali si assistette al disastro dei "campioni nazionali".
Obiettivamente va osservato che un evento di sicura valenza degli anni novanta è stato l'estromissione dalle aziende pubbliche dei vecchi boirdi espressione dei partiti, (i vari Viezzoli, Necci, Fabiani, Tedeschi, Agnes, Pascale) e la sostituzione con un nuovo management (Demattè, Bernabè, Cimoli, Tatò, Gros-Pietro, Passera, Spaventa, Visentini, Celli). Questo evento segna sicuramente una svolta, perché pone al nuovo management l'obbligo di eliminare le incrostazioni parassitarie, di rompere il ciclo storico del "ruolo sociale" dell'impresa pubblica, di rendere efficienti imprese che sono fondamentali per il sistema economico di qualunque Paese, di svincolare l'azione imprenditoriale dal potere politico, di puntare su una gestione economica, e, fondamentalmente, di far discendere, capillarmente, dai dirigenti, ai quadri, agli impiegati, agli operai il senso della nuova sfida, l'acquisizione della cultura imprenditoriale.
Di converso, occorre ammettere che dopo le vendite di tranche di azioni di Enel, Eni, Telecom Italia e Finmeccanica il processo della completa privatizzazione si è bloccato. Si adduce la scusa della perdita di valore delle azioni quotate e degli eventuali minori introiti per lo stato, dimenticando che la privatizzazione non è solo una questione di bilancio, ma, principalmente, un fattore di moralizzazione dell'economia di un Paese. Anche con i governi Berlusconi, l'ostilità di An verso le privatizzazioni sembra imporsi sui settori più liberisti del centro destra. Lo stato continua a mantenere un controllo sull'economia del Paese grazie alle golden shares in mano al ministero dell’economia. Certamente Enel, Eni, Finmeccanica non sono più i dinosauri della prima repubblica, spesso sono imprese gestite con criteri di notevole efficacia, eppure esiste sempre una latente diffidenza nei confronti di una completa privatizzazione.
Tra il 1996 e il 1997 matura una delle maggiori riforme della storia economica italiana, quella del comparto delle telecomunicazioni, che ha avuto nella legge Maccanico il suo primo punto di approdo (Maccanico, 2001). Il legislatore, a quell'epoca, doveva affrontare due problemi, il grave ritardo con il quale l'Italia si stava muovendo nell'attuazione delle direttive comunitarie riguardanti la liberalizzazione del settore e una sentenza della Corte costituzionale, che, nel dicembre del 1994, aveva sancito che la legge Mammì non tutelava il pluralismo nel settore radiotelevisivo. La sentenza poneva a ogni operatore il limite del 20% di possesso sul totale delle reti Tv nazionali; ciò significava che Rai e Mediaset avrebbero dovuto cedere una delle tre reti televisive.
Proprio per tentare di districare il groviglio di interessi della Rai e di Mediaset, Prodi sceglie per il ministero delle Poste e telecomunicazioni (successivamente ministero delle Comunicazioni), Antonio Maccanico, gran tessitore di accordi e ben visto dall'opposizione. Maccanico, assunto il ministero, si rende conto che ogni operazione in cantiere potrà essere condotta solo dopo la creazione dell'Authority; inoltre la sentenza della Corte costituzionale impone che venga approvata, urgentemente, una legge di proroga del regime transitorio. Con il cosiddetto Lodo Maccanico governo e opposizione trovano l'accordo, sia per una proroga della legge Mammì, che per il recepimento delle direttive comunitarie sulle Tlc.
All'inizio del '97, inizia il cammino del decreto legge sull'Authority e sulla privatizzazione di Telecom. Il primo atto sulla strada della privatizzazione è l'allontanamento di Ernesto Pascale e di Biagio Agnes dalla Stet, la finanziaria del gruppo, e la nomina del nuovo consiglio di amministrazione, con Guido Rossi alla presidenza. Il secondo atto è l'ottenimento del consenso di Bertinotti, che si sente rassicurato dal possesso da parte dello stato della golden share, che, nella realtà, si rivelerà un'arma spuntata per le velleità veterocomuniste di Rifondazione.
La storia di Telecom Italia inizia nel 1994, quando, dopo quindici anni di commissioni parlamentari ed estenuanti discussioni, anche in Italia viene creato un unico gestore telefonico pubblico; dai cinque che erano in precedenza nasce Telecom Italia e, un anno dopo, Telecom Italia Mobile. Nel 1997, come già visto, viene creata l'Authority delle telecomunicazioni e varata la "legge Maccanico" che definisce le regole della competizione. Il primo gennaio 1998 è il D-day per la telefonia europea; la deregulation, a lungo discussa, fa il suo debutto in dieci paesi dell'Ue. L'ultimatum di Bruxelles prevede la completa liberalizzazione di infrastrutture e servizi e il risultato, nel giro di due anni, è una riduzione media delle tariffe residenziali del 40% e di quelle affari del 25%.
Nel 2000, in Italia, oltre cento aziende offriranno servizi alternativi a Telecom. Le modalità della privatizzazione erano state decise dal governo Ciampi; il controllo della Telecom, nella quale sarebbe confluita la Stet, sarebbe dovuto passare a un nucleo stabile, a maggioranza italiana, prevalentemente finanziario. Prodi, presidente dell'Iri, «Aveva timore soprattutto della Pirelli, mi pare» (Meccanico, 2001). Prodi, consiglia di partire con un nucleo stabile di riferimento già dall'inizio, ma non si ha il coraggio pieno e salta fuori quel "prevalentemente finanziario", che significa banche ex pubbliche, cioè i soggetti meno adatti per una politica industriale innovativa nel campo delle telecomunicazioni.
Nel collocamento sul mercato della Telecom fu molto difficile raccogliere il nocciolo stabile, costituito dalla Ifil degli Agnelli e da banche, mentre ci fu un grande entusiasmo tra i piccoli investitori. Il nucleo stabile dimostra subito una forte inconsistenza dovuta dalla mancanza di competenze nel settore. Rossi si dimette e al suo posto viene nominato Gian Mario Rossignolo, con esperienza ai vertici del gruppo Fiat; vengono fatte cadere tutte le opzioni per far entrare nel nucleo di controllo un partner straniero di spessore. Ammette Maccanico: «Il nucleo stabile prese questa società complicata, concessionaria pubblica, di dimensione mastodontica, facendola fibrillare per diversi mesi in modo non sostenibile: manager che andavano e venivano, Vito Gamberale che passava e ripassava, la telefonia mobile che fu incorporata in Telecom e poi scorporata di nuovo» (Maccanico, 2001).
L'altro fronte di attività, per Maccanico, è quello della costituzione di un'Authority unica per Tlc e Tv, contro il parere di gran parte del Parlamento, che preferisce due Authority indipendenti. Nello scontro per la presidenza, prevale il nome di Enzo Cheli, magistrato della Corte costituzionale, che si impone, come soluzione di mediazione tra i candidati delle varie correnti del governo. Sul versante delle Poste, la trasformazione dell'Ente in S.p.A., la scelta di Corrado Passera e l'utilizzo della rete di sportelli più diffusa sul territorio nazionale per entrare, a pieno titolo nel settore del credito, si rivelano la strada giusta per rilanciare un "baraccone" alla mercé dei sindacati, dell'indisciplina e dell'inefficienza.

Eugenio Caruso - 29 novembre 2019


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