Inferno CANTO XXVIII. Gli scismatici

COMMENTO DEL CANTO XXVIII

Visione della IX Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i seminatori di discordie. È il pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso le tredici.
Di fronte allo spettacolo orribile della IX Bolgia dell'VIII Cerchio, in cui sono puniti i seminatori di discordie, Dante dichiara che nessuno potrebbe rappresentare il sangue e le piaghe che lui ha visto e che ogni linguaggio sarebbe insufficiente. Se anche si radunassero tutti i caduti in battaglia dell'Italia meridionale nelle guerre di Roma, in quelle dei Normanni e nelle guerre scatenate dagli Angioini (incluse le battaglie di Benevento e Tagliacozzo), la visione delle membra trafitte e amputate sarebbe poca cosa rispetto a ciò cui ha assistito in quel luogo di tormento.
Dante vede un dannato che avanza ed è tagliato dal mento sino all'ano, proprio come una botte che ha perso le doghe del fondo: le interiora gli pendono tra le gambe e sono visibili il cuore e lo stomaco. Il poeta lo osserva e lui si apre il petto con le mani e lo invita a guardare bene: si presenta come Maometto e indica il dannato che lo precede come Alì, tagliato dal mento alla fronte. Il dannato spiega che tutti loro sono stati seminatori di scandalo e scisma, perciò sono tagliati a pezzi; un diavolo armato di spada mozza loro parti del corpo e poi le ferite si richiudono, finché non tornano davanti a lui.
Maometto chiede poi a Dante chi sia e perché indugi sul ponte invece di sottoporsi alla pena: Virgilio risponde in sua vece e spiega che Dante è vivo e non è un dannato, mentre lui ha il compito di guidarlo vivo all'Inferno per mostrargli le pene dei peccatori. Alle parole del maestro, gli spiriti si fermano e osservano Dante stupefatti, incluso Maometto che rivolge al poeta una profezia: gli dice di ammonire fra Dolcino a procurarsi molti viveri, se non vorrà che la neve lo costringa ad arrendersi ai Novaresi che lo assedieranno. Il dannato ha detto queste parole tenendo il piede sospeso in aria, quindi lo posa a terra e prosegue il suo cammino.
Si avvicina un altro dannato con la gola squarciata, il naso mozzato e un solo orecchio, che dopo aver osservato Dante emette la voce attraverso la ferita nel collo: si rivolge al poeta dicendo di averlo conosciuto in Terra e si presenta come Pier da Medicina, originario della Pianura Padana. Invita Dante ad ammonire Guido del Cassero e Angiolello da Carignano circa il fatto che saranno gettati fuori da una nave e uccisi presso Cattolica, per il tradimento di un malvagio tiranno (Malatestino da Rimini). Una simile infamia non si è mai vista in tutto il Mediterraneo: il tiranno, che regge la terra (Rimini), che un suo compagno di pena si pente di aver visto, li attirerà in un tranello con la scusa di parlare e poi li ucciderà prima di giungere a Focara.
Dante risponde a Pier da Medicina chiedendogli chi sia il dannato che si duole di aver visto Rimini: l'altro afferra un compagno di pena per la mascella e gli apre la bocca, mostrando che la lingua gli è stata mozzata. È Curione, che fu scacciato da Roma e si unì a Cesare ai tempi della guerra con Pompeo e esortò il condottiero a varcare il Rubicone. Dante osserva che il dannato è sbalordito ora che la lingua gli è stata tagliata, mentre l'ebbe così pronta quand'era in vita.
Si avvicina un altro dannato, che alza i moncherini delle mani mozzate da cui il sangue ricade sul volto, presentandosi come Mosca dei Lamberti: la sua colpa fu di aver deciso l'uccisione di un nemico della sua consorteria, cosa che scatenò gravi conseguenze per i toscani tutti. Dante aggiunge che ciò ha causato anche la scomparsa della sua famiglia da Firenze, per cui il dannato si allontana come una persona triste e fuori di sé.
Dante resta a guardare i dannati e assiste a uno spettacolo che avrebbe timore a riferire, perché potrebbe non essere creduto: lo conforta la sua buona fede e la coscienza di aver visto coi propri occhi. Il poeta infatti osserva un dannato che avanza privo della testa, che tiene in mano per i capelli come fosse una lanterna, che guarda i due poeti e si lamenta. Sembra due individui e uno al tempo stesso, cosa comprensibile solo a Dio che rende possibile ciò. Quando il dannato giunge sotto il ponte dove sono i due poeti, alza il braccio con la testa e rivolge loro alcune parole: dice a Dante di osservare la sua pena, maggiore di qualunque altra, e si presenta come Bertram del Bornio, che seminò discordia tra il re d'Inghilterra Enrico II e il figlio, il re giovane Enrico III. La sua azione è paragonabile a quella di Achitofel con Assalonne, figlio del re David, e dal momento che egli ha diviso persone così unite ora procede col capo separato dal corpo. Il dannato invita quindi Dante a osservare in lui la pena del contrappasso.
Il Canto è dedicato ai seminatori di discordie, ovvero coloro che hanno creato ad arte divisioni soprattutto in campo religioso e politico, puniti con un contrappasso assai evidente (in vita essi hanno diviso e lacerato, ora sono fatti a pezzi da un diavolo armato di spada che li mutila orribilmente). L'episodio si apre con lo sbalordimento del poeta, che dichiara l'insufficienza della propria parola per rappresentare pienamente l'orrendo spettacolo dei corpi mozzati, in modo simile a quanto farà di fronte al ghiaccio di Cocito. Neppure mostrando tutti i morti e feriti delle innumerevoli guerre che hanno insanguinato il sud Italia si darebbe un'idea di quanto si vede nella Bolgia, e che sarà descritto in termini volutamente aspri e crudi.
Rispetto ai Canti XXVI e XXVII, monografici e dedicati ognuno a un personaggio (Ulisse e Guido da Montefeltro), il XXVIII presenta una serie di dannati che costituiscono altrettanti esempi, più o meno noti, di seminatori di divisioni in vari campi della vita sociale. Il primo è Maometto, che Dante include tra questi peccatori basandosi su una diffusa tradizione che lo considerava un rinnegato operante uno scisma all'interno del Cristianesimo, se non addirittura un vescovo deluso per non essere diventato papa: la sua colpa è dunque quella di aver lacerato sanguinosamente l'unità originaria del mondo cristiano, causando guerre e uccisioni di cui ora sconta la pena essendo tagliato dal mento all'ano, mentre il cugino e quarto successore Alì presenta un taglio dal mento alla fronte (complementare rispetto al profeta dell'Islam, non in quanto creatore di un scisma all'interno di esso, di cui Dante non sapeva nulla, ma in quanto prosecutore della sua opera). Dante descrive Maometto in termini volutamente crudi e volgari, paragonandolo a una botte che ha perso il fondo e includendo macabri dettagli delle sue mutilazioni (ha un taglio che va dal mento infin dove si trulla, cioè fino all'ano dove si fanno sconci rumori; le minugia, cioè le interiora, gli pendono tra le gambe insieme alla corata, cuore e organi interni, e allo stomaco, definito il tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia) e usando rime e suoni aspri e duri (trulla, rotto, tristo, attacco, dilacco). Il dannato si apre il petto mostrando le sue ferite, definendo la propria pena e quella degli altri, spiegando anche la logica del contrappasso; il contesto è fortemente e violentemente comico, incluso il particolare (che ad alcuni è sembrato strano) di Maometto che tiene il piede sospeso in aria quando apprende che Dante è vivo, per poi rimetterlo a terra alla fine della sua profezia su fra Dolcino.
È proprio questa predizione sulla tragica fine dell'eretico arso vivo nel 1307 e che si era arreso dopo un lungo assedio nella Val Sesia e nel Biellese (ciò consente di datare la composizione del Canto dopo quella data) che introduce l'apparizione di un altro dannato, Pier da Medicina, di cui in realtà sappiamo ben poco se non che visse nella Pianura Padana da lui citata con l'accenno al Vercellese. Probabilmente seminò divisioni in campo politico, come lascia intendere la sua profezia sulla tragica fine di Guido del Cassero e Angiolello da Carignano assassinati da Malatestino di Verrucchio (c'è quindi un parallelismo con la profezia di Maometto su Dolcino); l'accenno a Rimini, governata da quel tiranno, gli dà poi modo di presentare Curione, colui che secondo Lucano (Phars., I, 281) aveva spronato Cesare a varcare il Rubicone e a dare inizio alla guerra civile con Pompeo.
Curione ha la lingua mozzata e ciò è sembrato contraddittorio col giudizio positivo che Dante dà di Cesare e della sua azione politica, inclusa la guerra con Pompeo che l'avrebbe portato alla vittoria, ma in realtà ciò non esclude la condanna dell'atto di Curione che agì per scopi personali e non certo per il bene di Roma o del futuro Impero.
Dalle discordie in campo politico si passa poi a quelle in campo cittadino e alle rivalità tra famiglie nella stessa Firenze, di cui è esempio negativo Mosca dei Lamberti: la sua dannazione era stata predetta da Ciacco nel Canto VI e ora lo troviamo in questa Bolgia con le mani mozzate per aver incitato all'uccisione di un nemico della propria consorteria. L'uomo si era distinto per i suoi meriti civili, ma questa colpa è imperdonabile in quanto ha aperto la strada alle lotte tra Guelfi e Ghibellini a Firenze, inoltre ha causato la scomparsa dalla scena politica della famiglia dei Lamberti. Dante glielo ricorda aggiungendo dolore a dolore (Mosca si allontana come persona trista e matta, provando forse rimorso per il male provocato) e in questo modo anticipa il tema delle «faide» tra famiglie rivali che sarà affrontato nel Canto seguente, col personaggio di Geri del Bello.
Le discordie in campo politico e familiare riguardano infine anche l'ultimo dannato mostrato in questo episodio, quel Bertran de Born che fu celebre trovatore provenzale e che Dante aveva elogiato come «poeta delle armi», genere che mancava alla tradizione italiana. La descrizione di Bertran che cammina tenendo in mano il suo capo mozzato a mo' di lanterna può apparire poco credibile ai lettori e Dante premette di essere restio a dichiarare ciò che ha visto, senonché la sua buona fede lo conforta. Il trovatore sconta le discordie che insinuò tra Enrico II, re d'Inghilterra e duca di Aquitania di cui Bertran era feudatario, e il figlio Enrico III, incitando quest'ultimo a ribellarsi al padre e per il quale, morto prematuramente, scrisse un planh; per aver messo zizzania tra padre e figlio ora ha la testa separata dal corpo, rendendo quindi evidente il contrapasso (è l'unica volta nel poema in cui Dante usa questa parola, il cui significato è chiarito in modo crudo dallo stesso dannato).
Va detto che la descrizione iniziale delle vittime delle guerre italiche ricorda pagine simili dello stesso Bertran, con una circolarità nel Canto che ha altri esempi nella Commedia: l'insistenza sul tema delle guerre e delle vittime provocate dalle sanguinose divisioni è ovviamente un riflesso della situazione politica lacerata dell'Italia del Trecento, nonché delle lotte tra Comuni e tra Guelfi e Ghibellini che erano una concausa della generale corruzione e del disordine morale contro cui Dante si scaglia nel poema (specie nel caso della rivalità tra Chiesa e Impero: i versi iniziali hanno una forte impronta anti-angioina, con l'accenno a Benevento che avrà una corrispondenza col celebre episodio di Manfredi nel Canto III del Purgatorio).
Complesso e controverso è il rapporto di Dante con la religione musulmana, la quale gli appare come una scandalosa divisione interna al mondo cristiano e che ha dunque prodotto guerre e sanguinose lacerazioni (la sua conoscenza dell'Islam è del resto lacunosa, condizione comune a tutto il Medioevo), ma d'altro canto il poeta ammira con sincerità alcuni illustri intellettuali arabi e perciò la sua condanna del mondo islamico non è assoluta.
Sul giudizio negativo pesa la tradizione secolare di guerre e invasioni degli Arabi nel Mediterraneo, nonché il tema sempre presente della Crociata in Terrasanta: in Inf., VIII, 70-75 la città di Dite è descritta come una città islamica, con le meschite (moschee) rosse e arroventate dal fuoco, popolata da diavoli; Maometto è incluso tra i seminatori di discordie, orrendamente mutilato e descritto in toni grotteschi e comici; l'avo Cacciaguida si trova tra gli spiriti combattenti per aver militato nella II Crociata ed essere caduto combattendo contro l'iniquità della religione musulmana, il cui popolo usurpa... vostra giustizia, cioè occupa i luoghi santi approfittando dell'inerzia dei papi, mentre gli Arabi sono definiti gente turpa e martiro la morte del crociato in battaglia (Par., XV, 139-148).
Questa posizione non impedisce tuttavia a Dante di ammirare intellettuali arabi come Avicenna e Averroè, da lui inclusi «tra gli spiriti magni» del Limbo in quanto autori di opere filosofiche importantissime nel Medioevo, specie Averroè che fu autore di un commento alla filosofia aristotelica di fondamentale importanza per lo stesso tomismo e, quindi, per l'architettura dottrinale del poema (qualcuno ha parlato persino di averroismo da parte di Dante, ravvisabile soprattutto nel Convivio). Se dunque alcuni esponenti e aspetti della cultura islamica erano noti al poeta che ne apprezzava il positivo apporto al pensiero cristiano, la condanna dell'Islam trova le sue ragioni unicamente nel campo religioso, per aver causato guerre e uccisioni in Europa e per l'occupazione dei luoghi santi, che faceva degli Arabi un popolo invasore e infedele degno di essere combattuto; la sua polemica è anche rivolta a quei papi che colpevolmente rivolgono la loro attenzione altrove, come Bonifacio VIII che combatte contro altri cristiani a Palestrina e non contro Ebrei o Saraceni, ovvero contro quei rinnegati che hanno partecipato all'assedio di Acri o mercanteggiato in terra musulmana.
Questa ostilità verso l'Islam troverà non pochi continuatori anche in età moderna, specie nella tradizione del poema cavalleresco dei secc. XV-XVI: gli infedeli saranno i nemici della Cristianità in opere come l'Orlando Innamorato o il Furioso di Boiardo e Ariosto, mentre la I Crociata sarà al centro della Gerusalemme Liberata del Tasso, in cui la rappresentazione del mondo arabo non è meno negativa e «infernale» (le forze demoniache sono al servizio di Aladino, re di Gerusalemme, quelle di Dio aiutano ovviamente i Crociati). Anche per questi autori ciò si spiega con la paura della minaccia turca sempre più presente in Europa, che li spingeva a guardare all'Islam come un pericolo da cui era necessario difendersi: certe pagine stridono naturalmente con l'esigenza di una pacifica integrazione religiosa ed etnica propria del mondo contemporaneo, ma vanno ricondotte al contesto storico-culturale in cui furono prodotte e ciò vale senz'altro anche per Dante e certi episodi «scandalosi» della Commedia, primo fra tutti quello che descrive Maometto tagliato dal mento infin dove si trulla, che non può non risultare blasfemo a chi della fede musulmana è devoto osservante.

TESTO DEL CANTO XXVIII

Chi poria mai pur con parole sciolte 
dicer del sangue e de le piaghe a pieno 
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?                                    3

Ogne lingua per certo verria meno 
per lo nostro sermone e per la mente 
c’hanno a tanto comprender poco seno.                       6

S’el s’aunasse ancor tutta la gente 
che già in su la fortunata terra 
di Puglia, fu del suo sangue dolente                              9

per li Troiani e per la lunga guerra 
che de l’anella fé sì alte spoglie, 
come Livio scrive, che non erra,                                     12

con quella che sentio di colpi doglie 
per contastare a Ruberto Guiscardo; 
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie                         15

a Ceperan, là dove fu bugiardo 
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, 
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;                        18

e qual forato suo membro e qual mozzo 
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla 
il modo de la nona bolgia sozzo.                                    21

Già veggia, per mezzul perdere o lulla, 
com’io vidi un, così non si pertugia, 
rotto dal mento infin dove si trulla.                                  24

Tra le gambe pendevan le minugia; 
la corata pareva e ’l tristo sacco 
che merda fa di quel che si trangugia.                          27

Mentre che tutto in lui veder m’attacco, 
guardommi, e con le man s’aperse il petto, 
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!                             30

vedi come storpiato è Maometto! 
Dinanzi a me sen va piangendo Alì, 
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.                             33

E tutti li altri che tu vedi qui, 
seminator di scandalo e di scisma 
fuor vivi, e però son fessi così.                                        36

Un diavolo è qua dietro che n’accisma 
sì crudelmente, al taglio de la spada 
rimettendo ciascun di questa risma,                             39

quand’avem volta la dolente strada; 
però che le ferite son richiuse 
prima ch’altri dinanzi li rivada.                                         42

Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse, 
forse per indugiar d’ire a la pena 
ch’è giudicata in su le tue accuse?».                            45

«Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena», 
rispuose ’l mio maestro «a tormentarlo; 
ma per dar lui esperienza piena,                                    48

a me, che morto son, convien menarlo 
per lo ’nferno qua giù di giro in giro; 
e quest’è ver così com’io ti parlo».                                 51

Più fuor di cento che, quando l’udiro, 
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi 
per maraviglia obliando il martiro.                                  54

«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, 
tu che forse vedra’ il sole in breve, 
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,                              57

sì di vivanda, che stretta di neve 
non rechi la vittoria al Noarese, 
ch’altrimenti acquistar non sarìa leve».                        60

Poi che l’un piè per girsene sospese, 
Maometto mi disse esta parola; 
indi a partirsi in terra lo distese.                                     63

Un altro, che forata avea la gola 
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia, 
e non avea mai ch’una orecchia sola,                           66

ristato a riguardar per maraviglia 
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, 
ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,                              69

e disse: «O tu cui colpa non condanna 
e cu’ io vidi su in terra latina, 
se troppa simiglianza non m’inganna,                          72

rimembriti di Pier da Medicina, 
se mai torni a veder lo dolce piano 
che da Vercelli a Marcabò dichina.                                 75

E fa saper a’ due miglior da Fano, 
a messer Guido e anco ad Angiolello, 
che, se l’antiveder qui non è vano,                                 78

gittati saran fuor di lor vasello 
e mazzerati presso a la Cattolica 
per tradimento d’un tiranno fello.                                    81

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica 
non vide mai sì gran fallo Nettuno, 
non da pirate, non da gente argolica.                            84

Quel traditor che vede pur con l’uno, 
e tien la terra che tale qui meco 
vorrebbe di vedere esser digiuno,                                  87

farà venirli a parlamento seco; 
poi farà sì, ch’al vento di Focara 
non sarà lor mestier voto né preco».                             90

E io a lui: «Dimostrami e dichiara, 
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella, 
chi è colui da la veduta amara».                                     93

Allor puose la mano a la mascella 
d’un suo compagno e la bocca li aperse, 
gridando: «Questi è desso, e non favella.                    96

Questi, scacciato, il dubitar sommerse 
in Cesare, affermando che ’l fornito 
sempre con danno l’attender sofferse».                       99

Oh quanto mi pareva sbigottito 
con la lingua tagliata ne la strozza 
Curio, ch’a dir fu così ardito!                                           102

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, 
levando i moncherin per l’aura fosca, 
sì che ’l sangue facea la faccia sozza,                         105

gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca, 
che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", 
che fu mal seme per la gente tosca».                          108

E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; 
per ch’elli, accumulando duol con duolo, 
sen gio come persona trista e matta.                           111

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, 
e vidi cosa, ch’io avrei paura, 
sanza più prova, di contarla solo;                                  114

se non che coscienza m’assicura, 
la buona compagnia che l’uom francheggia 
sotto l’asbergo del sentirsi pura.                                   117

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia, 
un busto sanza capo andar sì come 
andavan li altri de la trista greggia;                                120

e ’l capo tronco tenea per le chiome, 
pesol con mano a guisa di lanterna; 
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».                           123

Di sé facea a sé stesso lucerna, 
ed eran due in uno e uno in due: 
com’esser può, quei sa che sì governa.                     126

Quando diritto al piè del ponte fue, 
levò ’l braccio alto con tutta la testa, 
per appressarne le parole sue,                                     129

che fuoro: «Or vedi la pena molesta 
tu che, spirando, vai veggendo i morti: 
vedi s’alcuna è grande come questa.                          132

E perché tu di me novella porti, 
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli 
che diedi al re giovane i ma’ conforti.                           135

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli: 
Achitofèl non fé più d’Absalone 
e di Davìd coi malvagi punzelli.                                      138

Perch’io parti’ così giunte persone, 
partito porto il mio cerebro, lasso!, 
dal suo principio ch’è in questo troncone. 

Così s’osserva in me lo contrapasso».                      142

PARAFRASI

Chi mai potrebbe, anche in prosa e reiterando la narrazione, descrivere pienamente il sangue e le piaghe che io vidi?

Ogni lingua verrebbe certamente meno, a causa del nostro linguaggio e della nostra mente che hanno poca capacità di comprendere tutto questo.

Se anche si radunasse tutta la gente che nella terra travagliata dell'Italia del sud versò il proprio sangue per i Romani e nella lunga guerra che produsse un gran bottino di anelli, come scrive Livio che non sbaglia,

con quella gente che fu dolorosamente colpita per opporsi a Roberto il Guiscardo, e con l'altra gente le cui ossa ancora si raccolgono a Ceprano, là dove ogni barone pugliese fu traditore, e là a Tagliacozzo dove il vecchio Alardo vinse con la sua saggezza;

e se ognuno mostrasse le sue membra trafitte o mozzate, non sarebbe sufficiente a eguagliare l'aspetto orrendo della IX Bolgia.

Una botte, priva delle doghe del fondo, non è bucata così come io vidi un dannato tagliato dal mento fin dove si scorreggia (ano).

Gli pendevano le interiora tra le gambe; si vedevano gli organi interni e il ripugnante sacco (stomaco) che trasforma in escrementi ciò che si mangia.

Mentre io fissavo lo sguardo su di lui, egli mi guardò a sua volta e si aprì il petto con le mani, dicendo: «Adesso vedi come sono squarciato!

Vedi come è mutilato Maometto! Davanti a me se ne va piangendo Alì, col volto squarciato dal mento sino alla fronte.

E tutti gli altri che tu vedi in questo luogo, furono in vita seminatori di scandalo e scisma, e perciò sono così mutilati.

Qua dietro c'è un diavolo che ci acconcia così crudelmente, sottoponendo di nuovo al taglio della spada ciascun dannato di questa schiera, una volta che abbiamo completato il triste giro della Bolgia; infatti, prima che ognuno torni di nuovo davanti a lui, le ferite sono rimarginate.

Ma che sei tu, che ti attardi sul ponte forse per indugiare di sottoporti alla pena che ti è inflitta per le tue colpe?»

Il mio maestro gli rispose: «Questi non è ancora morto, né alcuna colpa lo conduce qui ai tormenti; ma io, che sono morto, devo condurlo attraverso l'Inferno di Cerchio in Cerchio per mostrargli pienamente questo luogo, e ciò è vero come il fatto che ti parlo».

Ci furono più di cento dannati che, quando lo sentirono, si fermarono nel fossato a guardarmi meravigliati, dimenticando la loro pena.

«Allora tu, che forse tra poco tornerai sulla Terra, di' a fra Dolcino che se non vuole raggiungermi presto si procuri molti viveri, così che un inverno rigido non porti ai Novaresi una vittoria che altrimenti sarebbe difficile da ottenere».

Dopo che ebbe alzato in aria un piede per andarsene, Maometto mi disse queste parole; quindi lo posò a terra per allontanarsi.

Un altro dannato, che aveva la gola squarciata, il naso mozzo fin sotto le ciglia ed era privo di un orecchio, fermatosi a guardarmi stupito come gli altri, prima degli altri aprì la canna della gola che fuori da ogni parte era rossa di sangue ,

e disse: «O tu che non sei dannato da alcuna colpa e che io conobbi in Italia, se un'eccessiva somiglianza non mi inganna, ricordati di Pier da Medicina, se mai tornerai a vedere la dolce pianura che digrada da Vercelli a Marcabò.

E fa' sapere ai due migliori uomini di Fano, a messer Guido del Cassero e anche ad Angiolello da Carignano, che, se la nostra preveggenza non è vana, saranno scaraventati fuori della loro nave e gettati in un sacco legato a una pietra presso Cattolica, per il tradimento di un feroce tiranno (Malatestino di Verrucchio).

Nettuno non ha mai visto un così grave delitto in tutto il Mediterraneo (tra Cipro e Maiorca), non commesso da pirati o da predoni di Argo (Greci).

Quel traditore che vede solo con un occhio (Malatestino) e che governa la terra (Rimini) che un dannato qui con me vorrebbe non avere visto mai, li indurrà a venire a parlare con lui; poi farà in modo che a loro non servano preghiere e voti contro i venti di Focara».

E io a lui: «Mostrami e dimmi, se vuoi che parli di te sulla Terra, chi è colui che fu danneggiato dall'aver visto Rimini».

Allora mise la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: «È questo qui, e non parla.

Questi, scacciato da Roma, spense ogni dubbio in Cesare, affermando che chi è pronto ad agire riportò sempre danni nell'attendere».

Oh, quanto mi sembrava sbalordito Curione, con la lingua mozzata nella gola, lui che fu così pronto a parlare!

E un altro, che aveva entrambe le mani mozzate e levava i moncherini in aria facendo ricadere il sangue sul suo volto, gridò: «Ti ricorderai anche di Mosca dei Lamberti, che disse - ahimè! - "Cosa fatta capo ha", che causò tanto male alla gente di Toscana».

E io aggiunsi: «E causò anche la fine della tua famiglia»; e allora lui, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò come una persona triste e fuori di sé.

Ma io rimasi a guardare la schiera delle anime, e vidi una cosa che avrei timore a riferire da solo, senza addurre altre prove;

se non che sono confortato dalla mia buona fede, che accompagna l'uomo e lo rende coraggioso proteggendolo con la difesa dell'avere la coscienza pura.

Io vidi di certo, e mi sembra di vederlo ancora, un tronco privo del capo che procedeva insieme agli altri di quel tristo gregge;

e teneva la testa mozzata per i capelli, penzoloni come una lanterna, e quella ci guardava e diceva: «Ahimè!»

Faceva lume a se stesso con una parte di sé (la testa) ed erano due individui e uno solo al tempo stesso: come può avvenire questo, lo sa Colui (Dio) che lo rende possibile.

Quando fu presso il ponte, alzò il braccio con tutta la testa per rivolgerci le sue parole, che furono queste: «Ora vedi la mia pena dolorosa, tu che visiti i morti da vivo: vedi se ce n'è un'altra grande come questa!

E affinché tu porti notizie di me, sappi che sono Bertran de Born, quello che diede al giovane re (Enrico III) i cattivi consigli.

Io spinsi il figlio contro il padre: Achitofel non fece cosa diversa con Assalonne e David, con malvagi incitamenti.

E poiché io ho diviso persone così unite, porto il mio cervello (me misero!) diviso dal midollo spinale che è in questo troncone. Così in me è evidente il contrappasso».


NOTE
- I vv. 7-18 rievocano le molte guerre combatutte in Italia meridionale, definita genericamente Puglia: i Troiani sono in realtà i Romani, detti così perché discendenti da Enea, e la lunga guerra è la seconda guerra punica, in cui ci fu la terribile disfatta di Canne (Livio narra che i Cartaginesi, con gli anelli tolti ai cadaveri, fecero un enorme mucchio). Dante cita poi le guerre contro i Normanni di Roberto Guiscardo e quelle contro gli Angioini, culminate nelle battaglie di Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268).
- Ceperan è la città laziale di Ceprano, a guardia della quale Manfredi pose alcuni baroni pugliesi che lo tradirono e consegnarono la piazzaforte a Carlo I d'Angiò.
- Il vecchio Alardo è Alardo di Valéry, che consigliò a Carlo di tenere una schiera in riserva con cui sconfisse Corradino.
- I vv. 22-24 descrivono una botte (veggia, dal lat. tardo veia) priva del mezzule, la doga mediana del fondo, e delle due lulle, le doghe laterali a forma di mezzaluna.
- Il verbo accisma (v. 37) vuol dire probabilmente «acconcia», «prepara» detto in senso sarcastico (deriva dall'ant. fr. acesmer e in questo senso è usato da Bertran de Born in una sua poesia).
- Il Noarese (v. 59) indica collettivamente i Novaresi e Vercellesi che assediavano Dolcino e non il vescovo di Novara.
- Lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina (vv. 74-75) è la Pianura Padana, indicata con gli estremi geografici di Vercelli e del castello di Marcabò sul delta del Po.
- La profezia dei vv. 76 ss. riguarda Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, la cui vicenda ci è del tutto ignota: sappiamo solo che il tiranno fello che li ucciderà è Malatestino di Verrucchio, citato da Guido da Montefeltro nel Canto XXVII e poi indicato come il traditor che vede pur con l'uno (il signore di Rimini era guercio).
- Con Maiolica (v. 82) si intende l'isola di Maiorca, estremo occidentale del Mediterraneo come Cipro è quello orientale.
- La gente argolica (v. 84) sono i Greci, nel Medioevo considerati predatori e pirati.
- Focara (v. 89) è una località tra Cattolica e Pesaro in cui un forte vento ostacolava la navigazione: i due personaggi di Fano non dovranno pregare prima di passare da lì, perché saranno uccisi prima.
- I vv. 98-99 si rifanno a Lucano, Phars., I, 281: Tolle moras: semper nocuit differre paratis («Poni fine agli indugi: rimandare ha sempre recato danno a coloro che sono pronti ad agire»).
- Al v. 123 Oh me! è rima composta (cfr. Inf., VII, 28, pur lì). Il re giovane (v. 135) è Enrico III, figlio del duca d'Aquitania; alcuni mss. leggono re Giovanni, ma è di certo una correzione per il ritmo inconsueto dell'endecasillabo. Achitofel (v. 137) era il consigliere del re David, contro il quale aizzò il figlio Assalonne; il fatto è narrato nella Bibbia (II Reg., 15-18).

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MAOMETTO

Maometto nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570 alla Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabi? I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh della Mecca, Maometto era l'unico figlio di ?Abd Allah b. ?Abd al-Mu??alib ibn Hashim e di Amina bt. Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a ?alima bt. Abi Dhu?ayb, della tribù dei Banu Sa?d b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. Alla Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ?Abd al-Mu??alib ibn Hashim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu ?alib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei ?anif, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un ?anif e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahira - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sira) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Is?aq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hisham. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fa?ima bint Asad, moglie dello zio Abu ?alib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso con ?alima, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fa?ima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. Viste le difficoltà economiche in cui si trovava, Abu ?alib, zio di Maometto e figura centrale nella sua vita fin dalla giovanissima età, consigliò al nipote di lavorare come agente per la ricca e colta vedova Khadija bt. Khuwaylid, essendo egli stesso ormai impossibilitato a rifornire il nipote di mercanzie proprie. Successivamente, ormai figura affermata nella società, Maometto prenderà nella sua casa ?Ali, figlio di Abu ?alib e figura centrale dello sciismo, a tutti gli effetti adottandolo. La fama di Maometto come commerciante «onesto, equo ed efficiente», che gli avevano valso il soprannome di al-Amin (il Fidato), portarono Khadìja a offrirgli la guida e la gestione di un suo carico di mercanzie per la Siria e Yemen. L'operazione generò un profitto maggiore del previsto per Khadìja, che rimase favorevolmente impressionata dalle sue capacità ma anche dalle altre qualità del suo agente. Due mesi dopo il ritorno di Maometto alla Mecca da un viaggio in Siria, la quarantenne Khadìja, attraverso un'intermediaria, si propose in sposa al venticinquenne Maometto. Lo stesso anno, il 595, i due si sposarono. Quando, quindici anni dopo, Maometto sarebbe stato prescelto da Allah per ricevere la sua rivelazione, Khadìja fu il primo essere umano a credere a quanto le diceva il marito e lo sostenne sempre, con forte convinzione, fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthum e Fa?ima, detta al-Zahra? (le prime tre destinate però a premorire al padre) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ?Abd Allah) che morirono tuttavia in tenera età. Alcuni anni dopo il matrimonio, nel 605, il primo biografo del Profeta, Ibn Is?aq, riferisce il ruolo fortuito avuto dal futuro Profeta nel reinserimento della pietra nera - situata in quella che è oggi la Grande Moschea della Mecca - nella sua collocazione originaria. La pietra nera era infatti stata rimossa per facilitare i lavori di restauro della Ka?ba ma i principali esponenti dei clan della Mecca, non riuscendo ad accordarsi su quale di essi dovesse avere l'onore di ricollocare la pietra al suo posto originario, decisero di affidare la decisione alla prima persona che fosse transitata sul posto: quella persona fu il trentacinquenne Maometto. Maometto chiese un panno e vi mise al centro la pietra, poi la trasportò insieme agli esponenti dei clan più importanti, ognuno dei quali reggeva un angolo del tessuto. Fu Maometto a inserire la pietra nel suo spazio, sedando in questo modo la pericolosa disputa, salvando al contempo l'onore dei clan. . Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di un Dio, unico e indivisibile. Maometto, raccontò che la rivelazione era stata preceduta da sogni con forti connotazioni spirituali. Furono proprio questi sogni a sospingere Maometto, benestante e socialmente ben inserito, verso una pratica spirituale molto intensa e sono quindi considerati anticipatori della rivelazione vera e propria. Dunque Maometto, come altri ?anif, cominciò a ritirarsi a cadenze regolari in una grotta sul monte Hira, vicino alla Mecca, per meditare. Secondo la tradizione, una notte intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibril o Jabra?il, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", si rivolse a lui con le seguenti parole: «(1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva» Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnun, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi parlargli. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e, nel girarsi, raccontò di aver visto Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte, e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo Messaggero (rasul). Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che le fonti islamiche indicano come cristiano ma che poteva anche essere uno di quei monoteisti arabi (?anif) che non si riferivano a una specifica struttura religiosa organizzata. La tradizione riporta un dialogo avvenuto fra Waraqa, interpellato da Khadija per la sua vasta cultura, e Maometto: «Waraqa chiese: "Nipote mio, cos’hai"? Il Messaggero di Allah gli raccontò ciò che vide, e Waraqa gli disse: "Quest’angelo è colui che scese su Mosè. Vorrei essere più giovane, per arrivare al giorno in cui il tuo popolo ti caccerà". Il Messaggero di Allah gli chiese: “Mi cacceranno?”. Waraqa rispose: “Sì. Non giunse mai un uomo a rappresentare ciò che porti senza essere respinto, e se raggiungerò il tuo giorno ti appoggerò fino alla vittoria".» Waraqa, già molto anziano e quasi cieco, morirà alcuni giorni dopo questo dialogo. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero séguito (fatra), e in cui Maometto si diede con ancora maggiore intensità alle pratiche spirituali, secondo quanto scritto nel Corano, Gabriele tornò a parlargli: «(1) Per la luce del mattino, (2) per la notte quando si addensa: (3) il tuo Signore non ti ha abbandonato e non ti disprezza». La sua azione per diffondere la Rivelazione ricevuta - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrerà la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria", vista la difficoltà della conversione dei suoi concittadini. Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ?Uthman b. ?Affan a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thabit, principale segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayyat). Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibril, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse alla Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-?ashara al-mubashshara). I principali seguaci di Maometto furono giovani - figli o fratelli di mercanti - oppure persone in rotta con i loro clan di origine, insieme a stranieri la cui posizione nella società meccana era piuttosto fragile. In generale i meccani non presero sul serio la sua predicazione, deridendolo. Secondo Ibn Sa'd, le persecuzioni dei musulmani alla Mecca cominciarono quando Maometto annunciò i versetti che condannavano l'idolatria e il politeismo, mentre gli esegeti coranici le situano con l'inizio delle predicazioni pubbliche. Con l'aumentare dei suoi seguaci, comunque, i clan che rappresentavano il potere locale si sentirono sempre più minacciate; in particolare i Quraysh, a cui pure Maometto apparteneva, poiché guardiani della Ka?ba e gestori del lucroso traffico riguardante le offerte agli idoli. I mercanti più potenti cercarono allora di convincere Maometto a desistere dalla sua predicazione offrendogli di entrare nel loro ambiente, insieme a un matrimonio per lui vantaggioso, ma egli rifiutò entrambe le proposte. Cominciò così un lungo periodo di persecuzioni nei confronti di Maometto e dei suoi seguaci. Sumayya bint Khayyat, schiava del potente leader meccano Abu Jahl, è considerata la prima martire: venne uccisa dal suo padrone con un colpo di lancia nelle parti intime quando si rifiutò di abiurare l'Islam. Bilal, un altro schiavo musulmano che rifiutò strenuamente di abiurare, veniva invece obbligato dal suo padrone a distendersi sulla sabbia bollente nell'ora più calda del giorno, dopodiché gli veniva posato un macigno sul petto. L'appartenenza di Maometto al clan dei B. Hashim lo salvaguardò dalla violenza fisica, ma non dall'emarginazione. Per mettere al riparo i suoi seguaci dalla crescente ostilità subita alla Mecca, Maometto inviò una parte di loro nel Regno di Axum, sotto la protezione dell'imperatore cristiano A??ama ibn Abjar. Nel 617 i leader dei clan Banu Makhzum e Banu 'Abd Shams, entrambi appartenenti alla tribù dei Quraysh, dichiararono un boicottaggio nei confronti del clan di Maometto, i Banu Hashim, per costringerli a interrompere la protezione da loro offerta al Profeta. I troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 620 Maometto sperimentò un avvenimento che si rivelerà pregno di significati particolarmente per la disciplina esoterica islamica, il Sufismo. «Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti, per mostrargli dei Nostri Segni. In verità Egli è l'Ascoltante, il Veggente.» Maometto venne svegliato da un angelo e accompagnato, durante la notte, dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, identificati il primo con la Ka?ba e il secondo con la Spianata del Tempio di Gerusalemme, dove effettivamente i musulmani costruirono poi la Moschea al-Aqsa, cioè "l'Ultima". Da lì Maometto sorvolò la voragine infernale, assistendo alle punizioni inflitte ai dannati; e successivamente ascese ai Sette Cieli, incontrando a uno a uno Profeti che lo precedettero nell'annuncio di un identico messaggio salvifico per l'umanità, nell'ordine: Adamo, Giovanni Battista, Gesù, Giuseppe, Idris, Aronne, Mosè e Abramo. Ascese ancora, e venne ammesso al cospetto di Dio, avendone quindi per Suo onnipotente volere una visione beatifica del tutto straordinaria: l'Infinità, che è uno degli attributi di Dio, e l'immensa Potenza Divina renderebbero infatti impossibile a un vivente di accostarsi a Lui. Avrebbero questo privilegio solo i morti, dotati da Dio di particolari sensi del tutto superiori a quelli dei viventi. Mentre Ibn Is?aq presenta questo evento come un'esperienza spirituale, ?abari e Ibn Kathir lo descrivono come un viaggio fisico compiuto dal Profeta. In ogni caso, i forti connotati spirituali dell'evento resero indispensabile, per poterla descrivere, l'uso da parte di Maometto di una terminologia dai forti contenuti mistici e poetici; ed espressioni come "sidrat al-Muntahà ?indaha jannatu l-Ma?wà" ("il loto di al-Muntahà presso il quale è il Giardino di al-Ma?wà") costituiscono un esempio in questo senso. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu ?alib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadija. Con la morte di suo zio Abu ?alib, la leadership dei Banu Hashim passò a Abu Lahab, strenuo avversario di Maometto, che ritirò la protezione a lui offerta dal clan: per naturale conseguenza, chiunque avesse tentato di uccidere Maometto non si sarebbe più esposto alla vendetta del suo clan. Maometto si recò allora a ?a?if, in cerca di protezione, ma la sua contemporanea predicazione dell'Islam non fece altro che metterlo in un pericolo ancora maggiore. Costretto a tornare alla Mecca, incontrò Mut?im ibn ?Adi, capo del clan Banu Nawfal, che gli permise di rientrare in città. Nello stesso periodo molte persone visitarono la Ka?ba come pellegrini o per concludere affari: Maometto approfittò di questa occasione per trovare un luogo sicuro per lui e per i suoi seguaci. Dopo molti tentativi infruttuosi, l'incontro con alcuni uomini di Yathrib (che sarebbe poi diventata Medina) si rivelò fortunato: per loro infatti erano familiari sia il concetto di monoteismo, sia la possibilità dell'apparizione di un profeta, essendo presente una forte componente ebraica nella città. Speravano inoltre, accogliendo Maometto, di poter guadagnare la supremazia politica sulla Mecca, di cui invidiavano i proventi derivanti dai pellegrinaggi. In breve raggiunsero Medina, diventato un porto sicuro, per musulmani provenienti da tutte le tribù della Mecca. Nel luglio del 620, per incontrare il Profeta, giunsero a Medina da Mecca settantacinque musulmani: essi si riunirono segretamente, di notte, e accettarono un comune impegno che prevedeva l'obbedienza a Maometto, l'ingiunzione del bene e la proibizione del male, e una comune risposta armata qualora questa si fosse resa necessaria. In seguito a questo patto Maometto incoraggiò i musulmani a raggiungere Medina: come accaduto per l'emigrazione in Abissinia, anche questa volta i Quraysh cercarono di bloccare l'esodo, fallendo. Negli anni precedenti l'Egira, l'autorità di Maometto, come capo dei musulmani, gli permise di guadagnare l'appoggio dei notabili di Yathrib, che vollero fungesse da arbitro imparziale, in quanto straniero, nelle dispute fra le componenti etniche e tribali della città. Questo permise a lui e ai suoi seguaci di essere accolti nella città-oasi, venendo a fruire della necessaria sicurezza e protezione. Nello stesso periodo diede anche istruzioni ai suoi seguaci perché emigrassero alla spicciolata, e senza dare nell'occhio dei concittadini, verso Yathrib, fin quando furono assai pochi i musulmani rimasti alla Mecca. Allarmati dall'esodo e timorosi di veder messi a rischio i propri interessi, a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe prodotto con gli altri Arabi politeisti (che coi Meccani proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ?umra del mese di rajab), i Quraysh organizzarono un complotto per uccidere Maometto. Attraverso ?Ali, che prese il suo posto nella casa, discretamente sorvegliata dai Quraysh, Maometto riuscì a ingannare la sorveglianza e fuggire dalla città insieme al suo migliore amico, il futuro califfo Abu Bakr. I due, attraverso un miracoloso evento narrato nel Corano, non vennero scoperti dagli inseguitori meccani nei dintorni della città; e grazie alla collaborazione di parenti e amici, attraversarono il deserto in sella ai dromedari, passando per sentieri meno noti e battuti. Raggiunsero incolumi Medina il 24 settembre 622. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale in quanto non appartenente alla stirpe di Davide. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo ?a?ifa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. I primi abitanti di Yathrib, che si convertirono all'Islam e che offrirono ospitalità e aiuto agli Emigrati meccani, vennero chiamati An?ar ("ausiliari"); successivamente Maometto istituì un patto di "fraternità" fra Emigrati (Muhajirun) e An?ar, e il Profeta stesso prese come fratello ?Ali, figlio dell'amato zio Abu ?alib e di fatto (anche se non legalmente) affiliato da Maometto fin dalla tenera età, come Abu ?alib aveva a sua volta adottato lui quando era rimasto orfano. La Umma e l'inizio dei conflitti armati. A seguito dell'esodo musulmano, i Meccani requisirono tutte le loro proprietà nella città Impoveriti e senza entrate, i musulmani avviarono necessariamente aperte ostilità armate contro Mecca, razziando le sue carovane. A giustificare tali ostilità era innanzi tutto il desiderio di vendicare quanto essi stessi avevano subito per anni dagli Arabi politeisti nella loro città natale ma anche, e non secondariamente, di acquisire benessere, potere e prestigio in attesa di realizzare l'obiettivo finale di conquistare La Mecca Il primo grande fatto d'arme nella storia dell'islam è costituito dalla Battaglia di Badr, in cui i musulmani risultarono vittoriosi nonostante l'inferiorità numerica. Seguì la disfatta sotto il monte U?ud, segnata dal tradimento degli ebrei medinesi e dalla avventatezza di una parte dei soldati musulmani, alla quale Maometto sopravvisse solo perché, colpito da una pietra in pieno viso, cadde privo di sensi e venne creduto già morto dagli avversari. Infine, la vittoria dei musulmani nella Battaglia del Fossato segnò uno spartiacque tale da causare la disgregazione della potenza meccana. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi, furono esiliate le tribù ebraiche dei Banu Qaynuqa? e dei Banu Na?ir accusati i primi di offesa alla pudicizia di una ragazza musulmana e i secondi di complotto, unitamente ai Meccani pagani, ai danni dei musulmani. Durante la cosiddetta "battaglia del Fossato" (Yawm al-Khandaq), che fu di fatto un fallito assedio dei Meccani e dei loro alleati, la tribù ebraica dei Banu Qurayza, situata a sud di Medina, avviò i negoziati con i Quraysh per consegnare loro Maometto, violando apertamente la Costituzione di Medina. Dopo aver respinto gli assedianti pagani, i musulmani accusarono i Banu Qurayza di tradimento e li assediarono per venticinque giorni nelle loro fortezze, costringendoli alla resa. Furono decapitati tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù e le loro donne e i loro bambini furono venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La sentenza non fu formalmente decisa da Maometto che aveva affidato il responso sulla punizione da adottare a Sa?d b. Mu?adh, sayyid dei Banu ?Abd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws, un tempo principale alleata dei B. Quray?a. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per una soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Maometto approvò la decisione di massacrare tutti i maschi della tribù e di ridurre in schiavitù le donne e i bambini, e partecipò attivamente allo sgozzamento dei prigionieri. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quray?a che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ?ijaz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che afferma: «dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, pp. 76-77).» Alcuni studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente, ritenendo che Ibn Is?aq, il primo biografo di Maometto, avesse raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Quray?a cento anni dopo i fatti. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli sullo scontro prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana. Gli storici che mettono in dubbio l'esecuzione della tribù Banu Quray?a sottolineano come il cronista Ibn Is?aq fosse stato giudicato inaffidabile dal suo contemporaneo Malik ibn Anas, uno dei più importanti giuristi del sunnismo, fondatore del madhhab malikita, mentre il giurista sciafeita Ibn Hajar al-'Asqalani descrisse Ibn Is?aq come un narratore di "racconti strani". Dopo aver portato in prossimità della sua città natale, un forte contingente armato, affermando di voler compiere un pellegrinaggio alla Ka?ba, Maometto si accordò con i Meccani per rimandare all'anno successivo quel pellegrinaggio, sottoscrivendo nel marzo del 628 l'Accordo di al-Hudaybiyya, suscitando un forte sconcerto tra i suoi seguaci e, particolarmente, in ?Umar b. al-Kha??ab. L'intento fu realizzato come concordato il 2 marzo 629, con quello che viene ricordato come "Pellegrinaggio d'adempimento" (?umrat al-qa?a?). Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare sulla Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a ?unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banu Hawazin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabuk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche. Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ?A?isha bt. Abi Bakr - e una sola figlia vivente, Fa?ima, andata sposa al cugino del profeta, ?Ali b. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

PIER DA MEDICINA

Pier da Medicina è un personaggio della Divina Commedia del quale non si conoscono esatti documenti storici che ne attestino la vita. Qualcuno lo identifica con Pietro di Aino, del quale si hanno notizie fino al 1277. Dante lo incontra nell'Inferno tra i seminatori di discordia e lo descrive orrendamente mutilato da tagli sul volto (del naso, di un orecchio) e con un buco nella gola che quando parlava faceva uscire schizzi rossi di sangue. Dopo aver malinconicamente pregato Dante di ricordarsi di lui se passa nella pianura emiliana, dove appunto si trova Medicina, egli fa una raccomandazione a due personaggi di Fano (Guido del Cassero ed Angiolello da Carignano), predicendo la loro morte violenta per mano del tiranno Malatestino I Malatesta, poi afferra per la bocca il dannato accanto a sé e mostra con dispregio a Dante come egli abbia tagliata la lingua (Curione). Gli antichi commentatori dicono, sulla scorta del passo dantesco, che seminò discordia a Bologna, o tra Bologna e Firenze, e fu forse tra i signori di Medicina, che venivano chiamati "cattani". Il commentatore antico Benvenuto da Imola, forse più affidabile perché di quelle zone, dice che Piero si era arricchito con l'arte di seminare discordie, e Dante lo avrebbe conosciuto quando sarebbe stato ospite della corte dei Cattani di Medicina.

CURIONE

Gaio Scribonio Curione (90 a.C. – 49 a.C.) è stato un politico romano, figlio dell'omonimo console del 76 a.C.. Amico e sostenitore di Gneo Pompeo Magno, Gaio Giulio Cesare, Marco Antonio e Cicerone, era famoso per la sua arte oratoria. Con Cicerone ebbe una ricca corrispondenza, che in parte ci è pervenuta. Fece costruire il primo anfiteatro di Roma e vi celebrò giochi in onore del padre, tribuno della plebe. Nel 52 a.C. sposò Fulvia, nipote di Gaio Gracco e già moglie di Publio Clodio Pulcro; ne adottò la figlia Clodia Pulchra, ma non ebbe figli naturali. Dopo la morte di Curione, Fulvia andrà in sposa a Marco Antonio. Secondo Lucano, dopo essere stato a sua volta tribuno della plebe, dal momento che la fazione politica di Pompeo era corrotta, divenne sostenitore di Cesare, che per ringraziarlo si fece carico dei suoi debiti in denaro. Secondo Tacito, Cesare era molto attratto dalla sua oratoria. Ai tempi della Guerra civile romana egli fu uno degli ultimi politici a prendere parte verso Cesare. Per essere stato troppo favorevole al partito cesariano, venne esiliato da Roma. Nel 49 a.C. raggiunse Cesare a Ravenna e portò successivamente lettere di lui al Senato. Tornato da Cesare con l'ordine del Senato di congedare le milizie sotto pena di essere dichiarato nemico della patria, gli consigliò, date le sue esitazioni, di cogliere l'occasione favorevole e a marciare contro Roma, passando il Rubicone. Dante Alighieri lo pose tra i seminatori di discordia perché conosceva l'episodio attraverso Lucano. Con il titolo di propretore fu inviato nel 49 a.C. da Cesare in Africa, per combattere Giuba I di Numidia, sostenitore di Pompeo. Sebbene avesse vinto la battaglia di Utica, in quella del fiume Bagradas fu definitivamente sconfitto e, una volta catturato, si suicidò durante la prigionia.

MOSCA DEI LAMBERTI

Appartenente all'importante famiglia ghibellina dei Lamberti, alleati degli Uberti di Farinata, era nato verso la fine del XII secolo ed aveva ottenuto diversi incarichi nel Comune fiorentino. Fu podestà di Viterbo nel 1220, di Todi nel 1227, condottiero durante la guerra contro Siena nel 1229-1235 e podestà di Reggio Emilia nel 1242. Dante Alighieri lo citò nell'Inferno nell'episodio di Ciacco tra gli spiriti degni e ch'a ben far puoser l'ingegni, anche se con una certa sorpresa scoprirà di trovarli tutti all'Inferno nei gironi più bassi, quindi più gravi. A Mosca è dedicato un episodio (non rilevante come quello di Farinata degli Uberti o dei tre fiorentini di Tegghiaio Aldobrandi e gli altri) nella bolgia dei seminatori di discordie, dove il poeta lo trova orribilmente mutilato delle mani, come punizione del suo consiglio "Cosa fatta capo ha" che convinse gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti, accendendo a Firenze (come riporta anche Giovanni Villani), le fazioni che presto si divisero in guelfi e ghibellini.

BERTRAN DE BORN

Figlio maggiore del Signore di Hautefort, aveva due fratelli, Costantino e Itier. Suo padre morì nel 1178 e Bertrand gli succedette come Signore. All'epoca era già sposato alla sua prima moglie Raimonda e aveva già due figli. Il suo feudo, incuneato tra il Limosino e il Périgord, si trovò coinvolto per la sua posizione nel conflitto tra i figli di Enrico II Plantageneto. Inoltre Bertrand, secondo le leggi vigenti all'epoca, non era l'unico signore del suo regno, ma la sua carica doveva essere amministrata con il contributo dei suoi fratelli: una strategia valida per molti feudi, nata per le ingerenze del Conte di Tolosa che voleva così tenere sotto controllo l'influenza dei feudatari locali, incoraggiando i conflitti interni nelle famiglie. Le contese di Bertran, specialmente riguardo al fratello Costantino, furono al centro di una vasta produzione poetica, dominata da temi politici. Il suo primo lavoro databile è un sirventes (un tipo di canzone politica o satirica), del 1181, però da alcuni indizi pare che all'epoca la sua fama di poeta fosse già conosciuta. Nel 1182 fu alla corte di Enrico II d'Inghilterra a Argentan e lo stesso anno appoggiò la ribellione di Enrico il Giovane contro suo fratello minore Riccardo I, conte di Poitou e duca di Aquitania. In quel periodo scrisse una poesia per Aimaro V di Limoges, che lo invitava a ribellarsi e giurò di partecipare alla guerra contro Riccardo a Limoges: suo fratello Costantino essendo nello schieramento opposto, venne scacciato dal castello di famiglia da Bertrand nel luglio di quell'anno. Alla morte di Enrico il Giovane (1183), elogiato e criticato nei suoi poemi, Bertrand scrisse in suo onore un planh, una poesia di lamento funebre, intitolato Mon chan fenisc ab dol et ab maltraire. Durante la campagna punitiva contro i ribelli Riccardo, aiutato da Alfonso II d'Aragona, assediò Hautefort e dopo aver preso il castello lo rese a Constantine de Born. Enrico II lo rese però poi a Bertrand, mentre sembra che Costantino si sia arruolato come mercenario. Bertrand si riconciliò poi con Riccardo, alleandosi con lui in occasione della guerra contro Filippo II di Francia, ma cercò sempre di rivendicare la sua indipendenza. Quando Riccardo (diventato nel frattempo re) e Filippo temporeggiarono nell'intervenire alla Terza crociata, scrisse canzoni che valorizzavano la strenua difesa di Tiro da parte di Corrado del Monferrato (Folheta, vos mi prejatz que eu chan e Ara sai eu de pretz quals l'a plus gran). Quando Riccardo venne liberato dalla prigionia dopo essere stato accusato della morte di Corrado, Bertrand cantò un bentornato nella canzone Ar ven la coindeta sazos. Riccardo venne poi ucciso al mercato di Châlus, all'epoca sotto la giurisdizione di Bertrand (1199). Divenuto vedovo per la seconda volta, nel 1196 si fece monaco cistercense nell'abbazia di Dalon, presso Sainte-Trie, alla quale egli fece generosi lasciti e donazioni nell'arco di vari anni. La sua ultima opera databile è del 1198; smise di apparire in pubblico dopo il 1202 ed era certamente morto prima del 1215, quando è stata trovata una notazione di pagamento per candele per la sua tomba. Le sue opere consistono in 47 testi, 36 dei quali attribuiti con relativa certezza dai manoscritti, e undici di attribuzione dubbia. Tra queste v'è una poesia intitolata Be.m platz lo gais temps de pascor (Molto mi piace il bel tempo di primavera), dove vengono esaltate le azioni di guerra paragonandole alle gioie della primavera. Sebbene nella sua vita abbia composto anche alcune cansos amorose, la sua produzione poetica più importante consiste forse nei sirventes. Dante Alighieri, che certamente conosceva e apprezzava la "poesia delle armi" di Bertran de Born (cfr. De vulgari eloquentia, II ii 8), lo pose come dannato nell'Inferno, tra i seminatori di discordia, per aver messo l'uno contro l'altro Enrico il Giovane e il padre Enrico II: per l'aver separato persone così vicine egli è costretto a vagare senza sosta tenendo in mano come una lanterna la propria testa staccata dal corpo. Durante la narrazione dell'episodio Dante fa pronunciare a Bertran la definizione del criterio in base al quale vengono puniti i dannati nell'Inferno, con le parole "così s'osserva in me lo contrappasso" (Inferno, XXVIII 141).

Struttura dell'inferno

inferno

Eugenio Caruso - 4 dicembre - 2019

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